Incredibile India…

Johan Galtung

… si dice negli spot pubblicitari. Sì, è davvero incredibile come l’India si stia vendendo all’offerente USA, in un’ostentazione di americanizzazione dopo l’altra. L’angolo visuale di Washington al riguardo si capisce facilmente. Con un impero cadente, impegnati in tre guerre invincibili contro terrorismo, Afghanistan e Iraq, alleati a regimi problematici in Israele e Pakistan; in realtà in guerra contro l’Islam; respinti da gran parte dell’America Latina, da tutta l’Africa, sempre più dall’Asia Orientale. Dev’essere bello trovare un socio disposto, anzi entusiasta.

Come ha detto Barack Obama, l’attuale amministratore dell’impero USA, che combatte tutte quelle guerre: “in una relazione che definisce il 21° secolo”. E Washington l’userà per vantaggi economici, sfruttando piccoli agricoltori indifesi e i dalit, come partner contro ogni terrorismo che identificheranno in quei paesi islamici, come zona di tirocinio per la guerra che temono (e programmano) con la Cina, secondo il copione della tradizione anglo per cui una seconda potenza è il nemico naturale.

L’angolo visuale di Delhi è più problematico. L’India ha trovato una soluzione ammirevole a un problema davvero grosso: la sua diversità linguistica, con un profondo federalismo linguistico, che non vale però per l’Assam, il nordest. Dopo di che l’India ha tre grossi conflitti, resi tutti più gravi dalla sua relazione con Washington.

Si tratta della relazione con la Cina, con il Pakistan e il sistema castale. Alla base di questi conflitti c’è una colonizzazione mentale anglo-americana: considerare il mondo in termini di pericolo e minaccia, di nemici in cerca di guai anziché in termini di conflitti solubili facendosi amici potenziali tutt’attorno. Guardiamo la Turchia: erano soliti vedere nei loro vicini solo dei pericoli finché decisero in qualche modo di cambiare registro e rotta, vedendoli tutti come potenziali amici. Serve lavoro, e il lavoro procede; ma è possibile.

Consideriamo il classismo di casta. Sì, c’è crescita economica in India, che avvantaggia enormemente i vaishya, il ceto mercantile. Laureati di scuole di economia e commercio, punti d’ingresso alla ricchezza, guadagnano 100,000 dollari USA e più. Tutt’attorno si ostentano i segni di ricchezza: le auto, i ristoranti, i quartieri recintati per ragioni di sicurezza. Viviamo nell’era dei mercanti, ben protetti dai kshatriya, polizia e militari, per soffocare ogni resistenza, e culturalmente protetti dai brahmin che predicano la proprietà privata, e il suo uso per ottenere altra proprietà, come stadio evolutivo superiore.

Tutto a spese della maggioranza, 2/3, 3/4, di sudra e dalit, rispettivamente gente comune ed esclusa. C’è stato progresso. Le comunità sudra sono approdate all’informatica; si sono inclusi anche singoli dalit d’eccezione. Ma l’85% dei contadini vive in povertà al limite della miseria. La rivoluzione verde funziona per chi ha sementi, acqua, fertilizzanti, pesticidi e macchinario – il 15% appunto – non per chi deve comprare sementi monopolizzate dal grottesco apparato Monsanto – USA ovviamente – e vengono attaccati da picchiatori quando usano le proprie e non riescono a pagare i loro debiti senza fondo. Possono tentare di pagare con della terra, con una figlia, perfino con la propria moglie – ma probabilmente incombe un’altra soluzione: il suicidio. E si parla qui non di migliaia ma di decine di migliaia di casi: una tragedia che grida al cielo. E la terra diventa proprietà aziendale, per il ristoro dei consumatori ricchi.

E così c’è resistenza violenta, i Naxaliti, “maoisti” secondo i media abituati ad aspre contumelie verso la Cina, e ovviamente “terroristi”. Manco a dirlo, gli USA ci sono anch’essi in tale guerra contro il terrorismo, e le forze aeree indiane ottengono aerei senza pilota per uccidere i naxaliti. Manmohan Singh parla di un’India in crescita con dei valori, ma come emerito ex-economista ci potrebbe spiegare un po’ di quella cecità morale. Un giorno tutto ciò può diventare una rivoluzione che divamperà in gran parte della campagna indiana.

Come in Nepal, dove i “maoisti” hanno vinto con l’avere idee molto concrete – 40 punti – e alla fine mediante la nonviolenza. I naxaliti potrebbero imparare. Delhi potrebbe imparare, come ha fatto Kathmandu. Auguriamoci che succeda.

Consideramo il Pakistan. Sì, ci sono problemi, come il Kashmir. Ma la carta in mano all’India in qualità di stato successore al raj britannico è più debole di quella pakistana, il plebiscito, lasciare decidere il popolo; inoltre, anch’essi sono uno stato successore. Un plebiscito in singole parti anziché nell’intero Kashmir potrebbe dare il Jammu e il Ladakh all’India, l’Azad Kashmir al Pakistan (riconoscendo de jure la Linea di Controllo). E la Valle? Un condominio indo-pakistano con amplissima autonomia, forse un giorno l’indipendenza. E il Kashmir nel suo insieme? Lo si inserisca insieme in una federazione del Kashmir con confini aperti, qualche doppia identità, e un’Associazione di Libero Scambio del Kashmir. Un po’ di buona volontà, qualcosa del genere, e il Kashmir può essere depennato dalla lista dei campi di battaglia (e tortura) del terrorismo – quello noto come tale e quello di stato.

Ma aldilà di questo: che ne sarebbe di un ritorno a una Comunità sub-continentale con India, Pakistan e Bangladesh insieme, attorniata dagli altri cinque paesi SAARC (South Asian Association for Regional Cooperation) ? Lasciando che quello che appartiene a un insieme cresca insieme? Costruendo sull’amore e il desiderio che c’è tuttora attraverso confini molto artificiosi, come la disastrosa linea Mountbatten? Abbattendo i posti di controllo come ha fatto la gioventù europea nei primi anni 1950, che voleva più di un semplice Consiglio d’Europa – e ha vinto? Costruendo sulle iniziative dei cittadini? Non un 1947-1971 al contrario in tutto e per tutto, ma una buona metà? E esplorare l’eventuale ruolo USA nel massacro del 26.11.(2008) a Mumbai – quel misterioso Headley con doppia identità USA-pakistana – per capire che cosa sia successo. Forse troppo misterioso da penetrare. Pensare in grande, pensare nuovo.

L’Assam, così maltrattato da New Delhi, potrebbe rompere quel legame e trovarsi un posto in quella comunità come stato indipendente; anche se forse potrebbe non piacere agli USA, per timore di un seguito hawaiiano.

Consideriamo la Cina. Sì, ci sono problemi di confine, la linea MacMahon, lo stato successore al raj e le sue ambizioni. Si faccia qualche scambio e qualche zona congiunta. Si usi la formula pancha shila (Nehru-Zhou Enlai) del vantaggio reciproco e uguale; si continui quella tradizione di pace. Possa l’uno imparare il federalismo linguistico e l’altro come sollevare coloro che stanno al fondo della società. Non si ceda alla paranoia d’ispirazione anglo, a maggior ragione in una regione infestata di bombe nucleari.

Quel che serve è una nuova mentalità. La Cina ne è ora precisamente alla ricerca, rompendo con un secolo di umiliazioni (prevalentemente da parte di quegli stessi anglo), e un secolo di restaurazione. Possa l’India far lo stesso, cercando come il Giappone due, non uno solo, grandi amici.

Incredibile India, che volta le spalle al più grande dei suoi beni preziosi, quel genio prodotto dal profondo della realtà indiana, Gandhi. La linea di pensiero di cui sopra è di ispirazione gandhiana. Possa l’India essere fedele alla propria coscienza, non agli schemi di qualcun altro.

da Hyderabad, Ahmedabad – 30.11.09


EDITORIAL, 30 Nov 2009 | #90 | Johan Galtung

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Sereno Regis


 

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