Tornando all’essenziale per la lotta palestinese – Jake Lynch e Majd Beltaji*

jlynchLa decisione del presidente palestinese Mahmoud Abbas di non cercare la rielezione a gennaio e il voto all’ Assemblea Generale ONU (UNGA) che apre la strada affinché il Consiglio di Sicurezza (UNSC) esamini il Rapporto Goldstone, dovrebbero, nel loro insieme, costituire un punto di svolta nella lotta palestinese per l’auto-determinazione.

Perfino il paziente Abbas ha a quanto pare smesso di sperare che la diplomazia a guida USA sostenga anche la più lieve pressione su Israele, dopo che il Segretario di Stato Hillary Clinton ha effusivamente lodato un’offerta di rallentare ulteriori costruzioni nelle proprie colonie illegali in Cisgiordania, anziché cessare del tutto come il presidente Obama aveva precedentemente richiesto.

Gli USA hanno prevedibilmente guidato l’opposizione al voto ONU, con l’Australia che disgraziatamente ha votato anch’essa per respingere la meticolosa compilazione di Goldstone delle prove che attestano i crimini di guerra da parte sia d’Israele sia di Hamas, ed eventuali crimini contro l’umanità da parte di Israele. Non che qualcuno a Canberra si sia in effetti degnato di dare una spiegazione. Nel marzo scorso, quando emersero rapporti sulle denunce di soldati israeliani di aver sparato a donne e bambini su ordine dei propri comandanti, il ministro delle Comunicazioni Stephen Conroy apparve in un programma di dibattiti dal vivo in studio, Q & A, e il presentatore Tony Jones, acutamente gli chiese la sua posizione in merito. Il governo australiano era “a favore di un’indagine appropriata”, disse; ma non se n’è fatto nulla da allora.

Washington senza dubbio porrebbe il veto a ogni mossa all’UNSC per deferire il caso alla Corte Penale Internazionale, e la faccenda finirebbe lì. Davvero? La risoluzione UNGA 377 A ‘Unirsi per la pace’, dichiara che ove l’UNSC manchi di agire per il mantenimento della pace e sicurezza internazionali, per disaccordo fra i suoi cinque membri permanenti, la faccenda sia immediatamente considerata dall’UNGA.

‘Unirsi per la pace’ fu adottata il 3 novembre 1950, dopo 14 giorni di discussioni in Assemblea, con una votazione di 52 contro 5 (no di Cecoslovacchia, Polonia, URSS e due sue repubbliche – Ukraina e Bjelorussia) e 2 astensioni: India e Argentina. Il suo punto centrale sta nel seguente passo:

“Stabilisce che se il Consiglio di Sicurezza, a causa di mancante unanimità dei suoi membri permanenti, viene meno all’esercizio della sua responsabilità primaria di mantenimento della pace e sicurezza internazionali laddove appaia esserci una minaccia alla pace, una rottura della pace, o un atto d’aggressione, l’UNGA considererà immediatamente la questione con l’intento di fare adeguate raccomandazioni ai Membri per misure collettive, compreso l’uso di forze armate ove necessario in caso di rottura della pace o di atto d’aggressione, per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionali”.

Tale risoluzione è nota anche come Piano Acheson, dal Segretario di Stato americano Dean Acheson, esponente di spicco della Guerra Fredda. Un errore, sicuramente? In realtà no – il suo primo utilizzo ‘in stato d’ira’ fu per mobilitare l’ONU per fermare l’invasione britannica e francese dell’Egitto per Suez, nel 1956, e il primo a muoversi, all’UNGA, non era altri che gli USA.

Israele è la ‘nave da guerra USA inaffondabile’.

Il problema soggiacente nella mediazione a guida USA nel conflitto Israele-Palestina, e la ragione per cui non ha prodotto un progresso significativo per i palestinesi, è che, secondo quanto attribuito a Caspar Weinberger, ministro della Difesa con Ronald Reagan, “Israele è la ‘nave da guerra USA inaffondabile in Medio Oriente”. Il “pendolo [ha cominciato] a oscillare” verso l’attacco a Gaza, come disse il primo ministro israeliano d’allora Ehud Olmert ai reporter sull’asfalto dell’aeroporto di Tel Aviv appena dopo essere atterrato da una visita ‘a sorpresa’ a Washington. Come ho scritto in precedenti articoli, era stato evidentemente convocato per ricevere istruzioni: far qualcosa a Hamas prima che George W Bush cessasse la sua funzione.

Martin Indyk, l’australiano due volte ambasciatore USA a Tel Aviv, quest’anno ha prodotto un’ampia memoria auto-corroborante, ma in uno dei momenti più lucidi riflette sul vertice di Camp David del 2000 asserendo che la diplomazia USA era “capricciosa” proprio per via dell’“asimmetria” nelle sue relazioni con i due contendenti.

I pronunciamenti ufficiali di Washington tendono a un’enfasi malposta per il compromesso: se solo entrambi potessero essere indotti a cedere un po’ di terreno, ciò permetterebbe ai ‘moderati’ d’incontrarsi ‘al centro’. Qualunque cosa pur di eludere l’illegalità dell’ occupazione e delle colonie e l’imperativo di smettere immediatamente, indipendentemente da accordi su qualsivoglia altro tema. Indyk rammenta come, in colloqui esplorativi a Camp David, il presidente Clinton affannato minava a turno i vari negoziatori palestinesi gridandogli la sua apparentemente genuina costernazione e frustrazione a che rifiutassero ulteriori ‘concessioni’.

Due stati o uno?

L’annuncio di Abbas ha ravvivato l’ ipotesi che Marwan Barghouti, ex-segretario generale di Al Fatah in carcere in Cisgiordania, possa candidarsi alla presidenza, quando avranno luogo le elezioni – ora posposte indefinitamente. Al suo processo nel 2003, Barghouti ammonì Israele che se non si poteva istituire uno stato palestinese indipendente sui confini del 1967, ci sarebbe voluto “uno stato per due popoli”. Come osserva Ali Abunimah nel suo più recente contributo a Electronic Intifada, l’istituzionalizzazione della supremazia ebraica in un tale stato perderebbe qualunque legittimità le sia rimasta: una merce già in sparizione dopo l’uccisione di civili in Libano nel 2006, e a Gaza, sia nel 2006 che nel 2008-9:

“Già difficile da dissimulare, la perdita di legittimità diventa impossibile da nascondere una volta che i palestinesi siano una maggioranza demografica governata da una minoranza ebrea. La richiesta del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che i palestinesi riconoscano il diritto di Israele ad ‘esistere come stato ebraico’ è in effetti un riconoscimento di fallimento: senza il consenso palestinese, qualcosa che sarà mai probabilmente concesso, il progetto sionista di un’etnocrazia ebraica in Palestina ha scialbe prospettive a lungo termine”.

Hanan Ashrawi, l’ex-legislatrice insignita del Premio della Pace di Sydney, questa settimana ha dato un’intervista al ponderato corrispondente per il Medio Oriente del Sydney Morning Herald, Jason Koutsoukis, identificando quella che ha chiamato una “nuova era… la gente ora dice che l’approccio moderato ha fallito e che i due stati non sono più un’opzione… molto dell’approccio precedente sarà rifiutato.”

L’autorevole esperto di sondaggi Khalil Shikaki ha rilevato nel giugno scorso che una maggioranza del 61% di palestinesi sosteneva ancora una soluzione a due stati. Questo è stato un asso strategico in mano israeliana, ma sprecato. La partita finale degli sforzi mediatori di Clinton arrivò con i ‘parametri’ del vertice di Taba nel gennaio 2001, quando sia lui che il primo ministro israeliano Ehud Barak stavano per decadere dalla funzione. Il principio di sostegno era quella risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza ONU che affermava la Linea Verde pre-1967 come base per stabilire i confini fra i due stati. Tuttavia, appena i negoziatori si furono seduti Israele aveva già espresso in privato “riserve”, in una lettera del capo di gabinetto di Barak, Gilead Sher, agli americani; una comunicazione la cui esistenza viene rivelata per la prima volta in un nuovo libro dello storico e assertore di una soluzione a due stati Benny Morris. Fintanto che Washington è lì per fornire un sostegno incondizionato a Israele nell’ignorare le stipulazioni del diritto internazionale, tali sforzi appaiono condannati a naufragare.

L’attuale piano di pace sponsorizzato dall’ONU, la ‘Road Map’, prevede una “Conferenza Internazionale a sostegno della ripresa economica palestinese e il varo di un processo che conduca all’istituzione di uno stato palestinese indipendente con confini provvisori” a seguito della “fine della violenza palestinese”. Tale precondizione era in adempimento con la tregua dell’anno scorso mediata dall’Egitto, allorché Israele la infranse con il famigerato incidente del 4 novembre in cui furono uccisi sei membri di Hamas, che indusse la ripresa del lancio di razzi da Gaza e i vari avvenimenti annotati da Goldstone. Il rapporto dovrebbe andare alla Corte Penale Internazionale, dato che non è incorso alcun serio sforzo, né in Israele né a Gaza, di portare i responsabili davanti ai giudici; ma gli USA ancora una volta si mettono di traverso.

All’ONU, l’Assemblea Generale è stata il palco di tutti gli effettivi passi avanti per i palestinesi, dal riconoscimento nel 1974 del loro diritto all’auto-determinazione, alla proclamazione nel 1988 dello Stato di Palestina di Yasser Arafat e lo storico riconoscimento dello stato d’Israele; “a Ginevra”, egli disse, piuttosto che a New York, “dopo che un’arbitraria decisione americana m’impedì di venire da voi lì”.

Anche in paesi che danno generalmente copertura alle infrazioni seriali di Israele al diritto internazionale, come USA e Australia, l’opinione pubblica e politica sta cambiando. Un sondaggio commissionato dalla Coalizione per la Giustizia e la Pace in Palestina con sede a Sydney mostrava che parecchi più australiani ritenevano ingiustificato l’attacco d’Israele a Gaza di quanti lo ritenevano giustificato. Sì, il Congresso USA ha respinto a netta maggioranza Goldstone, ma con 46 voti pro-israeliani in meno rispetto all’anno prima quando la Camera dei deputati prese in considerazione la stessa Operazione Piombo Fuso.

Il giornalista e autore Antony Loewenstein rifletteva alla recente conferenza inaugurale del nuovo gruppo di lobby ebraica americana J-Street, tenutasi a fine ottobre a Washington DC, che “benché per lo più le tante commissioni di lavoro non si siano impegnate in tematiche quali il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, una soluzione a uno stato, l’assedio a Gaza e i soldati IDF complici [dei coloni] in Cisgiordania, ho sentito innumerevoli persone del pubblico parlare del concetto di giustizia per tutti, non di vantaggi sionisti per i soli ebrei”. C’è un’altra America, ovviamente, accanto alla super-potenza rappresentata nella formula militaristica di Weinberger, ed è un’America che capisce bene il concetto di diritti civili.

Diritti e aspirazioni palestinesi non possono venir surgelati, però, mentre noi cerchiamo di organizzarci per agire. Sta all’Assemblea Generale, l’ente che rappresenta più genuinamente l’opinione mondiale, e ad altre organizzazioni internazionali come l’ICC, darsi nuovamente da fare.

Jake Lynch è Professore associato e Direttore del Centre for Peace and Conflict Studies all’Università di Sydney.

Majd Beltaji lavora come funzionario di pubbliche relazioni al Palestinian Centre for Peace and Democracy.

16.11.09

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: BACK TO BASICS FOR PALESTINIAN STRUGGLE
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=2120

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