TRE BUONE RAGIONI PER LIQUIDARE IL NOSTRO IMPERO-E dieci passi da intraprendere per farlo – Chalmers Johnson

Per quanto siano ambiziosi i progetti di politica interna del presidente Barak Obama, c’è una tematica trascurata con il potenziale di distruggere qualunque sforzo di riforma possa lanciare. Pensiamola come un gorilla di quattro quintali nel soggiorno americano: la nostra dipendenza di lunga data sull’imperialismo e il militarismo nelle nostre relazioni con altri paesi e il vasto, potenzialmente rovinoso impero globale di basi che l’accompagna. Omettere di cominciare a fare i conti con il nostro obeso establishment militare e il suo uso scapestrato in missioni per le quali è disperatamente inidoneo, prima anziché poi, condannano gli USA a un trio di conseguenze devastanti: abuso imperiale, guerra perpetua, e insolvenza, che portano a un verosimile collasso simile a quello dell’ex-URSS.
Secondo l’inventario ufficiale 2008 del Pentagono delle nostre basi militari in giro per il mondo, il nostro impero consiste di 865 insediamenti in oltre 40 paesi e territori USA oltremare. In appena uno di questi, il Giappone, avevamo, alla fine di marzo 2008, 99.295 persone coinvolte con la nostra presenza militare locale – 49.364 membri delle forze armate, 45.753 familiari dipendenti e 4.178 impiegati civili. Di questi, 13.975 erano ammassati nell’isoletta di Okinawa, la massima concentrazione di truppe straniere in Giappone.
Queste massicce concentrazioni di potenza militare americana fuori USA non servono alla nostra difesa. Se mai, sono anzi un fattore primario dei nostri numerosi conflitti con altri paesi. Inoltre, sono costose in modo inimmaginabile: secondo Anita Dancs, un’analista del sito web Foreign Policy in Focu (www.fpif.org , ndT) , gli USA spendono approssimativamente 250 miliardi di $ ogni anno per mantenere la propria presenza militare globale. Il cui solo scopo è darci egemonia, cioè controllo, dominanza, su quante più nazioni possibile.
Siamo come i britannici alla fine della seconda guerra mondiale: nel disperato tentativo di arginare un impero di cui non abbiamo mai avuto bisogno e che non ci possiamo più permettere, usando metodi spesso somiglianti a quelli di imperi falliti del passato, non escluse le potenze dell’Asse della seconda guerra mondiale e l’ex-URSS. C’è una lezione importante per noi nella decisione britannica, a partire dal 1945, di liquidare il proprio impero in modo relativamente volontario, anziché esserne costretti da sconfitte in guerra, come per Giappone e Germania, o da guerre coloniali debilitanti, come per i francesi e gli olandesi. Dovremmo seguire l’esempio britannico. (Ahimé, loro stanno retrocedendo e seguendo invece il nostro esempio aiutandoci nella guerra in Afghanistan.)
Ecco i tre motivi fondamentali per cui dobbiamo liquidare il nostro impero o altrimenti vederlo liquidare noi.
1 – Non ci possiamo più permettere la nostra espansione postbellica
Poco dopo la sua elezione a presidente, Barack Obama, in un discorso che annunciava vari membri del suo gabinetto, affermava come dato di fatto che “dobbiamo mantenere il più forte apparato militare del pianeta.” Poche settimane dopo, il 12 marzo 2009, in un discorso alla National Defense University a Washington DC, il presidente insisteva di nuovo: “Non sbagliamoci, questa nazione manterrà la sua dominanza militare. Avremo le forze armate più forti nella storia del mondo.” E in un saluto d’inizio d’anno accademico ai cadetti dell’Accademia Navale USA il 22 maggio, Obama sottolineava che “manterremo la dominanza militare americana e voi come la miglior forza combattente mai vista al mondo.”    Quel che non faceva notare è che gli Stati Uniti non hanno più la capacità di rimanere un egemone globale, e fingere altrimenti vuol dire invitare al disastro.
Secondo un’opinione sempre più condivisa di economisti e politologi a livello mondiale, è impossibile per gli USA continuare in tale ruolo mentre si evidenziano sempre più come potenza economica menomata. Robert Pape, dell’Università di Chicago, autore dell’importante studio Dying to Win: The Strategic Logic of Suicide Terrorism (traduzione italiana.: “Morire per vincere. La logica strategica del terrorismo suicida”, Il Ponte, Bologna 2007. Originale: Random House, 2005), scrive tipicamente:
“L’America è in un declino inedito. Le ferite auto-inflitte della guerra d’Iraq, il crescente debito governativo, i saldi di conto corrente sempre più negativi e altre debolezze economiche a livello internazionale sono costati agli USA potere reale nel mondo d’oggi in rapida diffusione di conoscenza e tecnologia. Se continua l’andamento attuale, guarderemo agli anni di Bush come al rintocco funerario dell’egemonia americana.”
C’è qualcosa di assurdo, perfino kafkiano, nel nostro impero militare. Jay Barr, avvocato nel settore dei fallimenti, chiarisce questo punto con un’analogia illuminante:
“Sia che un debitore intenda liquidare o riorganizzare la propria attività, se vuole la protezione fallimentare deve fornire un elenco di spese, che se considerate ragionevoli vanno a ridurre corrispondentemente i fondi disponibili al rimborso dei creditori in sofferenza per l’insolvenza fallimentare. Ora immaginiamo qualcuno impegnato in una pratica fallimentare che pretenda di non ripagare i propri debiti per via di spese astronomiche di mantenimento di almeno 737 sue proprietà oltremare che gli rendono proprio zero per i grossi investimenti necessari al loro sostentamento … Quel tale non verrebbe ammesso alla liquidazione senza liberarsi quanto più possibile dei suoi averi a beneficio dei creditori, comprese le preziose proprietà immobiliari estere su cui ha messo le basi.”
In altri termini, gli USA non stanno considerando seriamente la propria situazione fallimentare, ignorando le implicazioni del proprio precipitoso declino economico e flirtando con l’insolvenza.
Nick Turse, autore di The Complex: How the Military Invades our Everyday Lives [Il complesso: come l’apparato militare invade la nostra vita quotidiana, Metropolitan Books, 2008) calcola che potremmo liberare 2,6 miliardi di $ se vendessimo gli averi della nostra base di Diego Garcia nell’Oceano Indiano e ricavare altri 2,2 miliardi facendo altrettanto con Guantanamo Bay a Cuba. E queste sono solo due delle oltre 800 straripanti enclave militari.
La nostra indisponibilità a restringere, e ancor meno a liquidare, rappresenta uno stupefacente fallimento storico dell’immaginazione. Timothy Geithner, nel suo primo viaggio in Cina dopo la nomina a ministro del Tesoro, assicurava un pubblico di studenti all’Università di Pechino: “I beni cinesi [investiti negli USA] sono al sicuro.” Al che riscosse una sonora risata, stando alle agenzie stampa. Con ragione.
Nel maggio 2009, l’Ufficio Gestione Bilancio prevedeva che gli USA nel 2010 saranno gravati da un deficit di bilancio di almeno 1,75 triliardi di $, senza comprendere un progettato assegnamento al Pentagono di altri 640 miliardi, né i costi di due guerre dispendiose in corso. La somma è così immensa che ci vorranno parecchie generazioni perché gli americani ripaghino i costi delle avventure imperiali di G.W.Bush, sempre che ci riescano o vogliano. Si tratta del 13% del nostro attuale prodotto nazionale lordo (vale a dire, di tutto quel che produciamo). Vale la pena notare che l’obiettivo richiesto ai paesi aspiranti alla Zona Euro è un deficit di non più del 3% del PNL.
Per ora il presidente Obama ha annunciato meschine riduzioni di soli 8,8 miliardi di $ nel settore di spesa sprecona e inutile delle armi, compresa la cancellazione del caccia F-22. L’effettivo bilancio del Pentagono dell’anno prossimo sarà anzi maggiore, non minore, del gonfio bilancio finale dell’era Bush. Nel futuro molto prossimo ci vorranno ovviamente tagli ben più coraggiosi alla nostra spesa militare, se vogliamo mantenere una qualche sembianza d’integrità fiscale.
2 – Perderemo la guerra in Afghanistan il che contribuirà a mandarci in bancarotta
Uno dei nostri più gravi errori in Afghanistan è stato di non aver riconosciuto che sia la Gran Bretagna sia l’URSS tentarono di pacificare l’Afghanistan usando gli stessi nostri metodi militari fallendo disastrosamente. Sembra che non abbiamo imparato nulla dalla storia moderna dell’Afghanistan, al punto di non saperne alcunché. Fra il 1849 e il 1947, la Gran Bretagna inviò quasi annualmente spedizioni contro le tribù e sub-tribù pashtun insediate in quelli che allora si chiamavano Territori di Frontiera del Nord Ovest, l’area a cavallo del confine artificiale fra Afghanistan e Pakistan chiamato la Linea Durand, creato nel 1893 dal vice-ministro degli esteri per l’India, sir Mortimer Durand.
Né la Gran Bretagna né il Pakistan riuscirono mai a stabilire un effettivo controllo su tale area. Secondo l’espressione dell’eminente storico Louis Dupree nel suo libro Afghanistan (Oxford University Press, 2002, pag. 425): “le tribù pashtun, esperte quasi geneticamente nella guerriglia dopo aver resistito per secoli a chi sopraggiungeva e combattuto fra loro negli intervalli, intralciarono i tentativi di estendere la pax britannica al loro territorio.” Circa 41 milioni di pashtun vivono in tale area non demarcata lungo la Linea Durand e non professano lealtà di sorta ai governi centrali né del Pakistan né dell’Afghanistan.
La regione ora nota come Federally Administered Tribal Areas (FATA, Aree Tribali sotto Amministrazione Federale) del Pakistan è amministrata direttamente da Islamabad, che – proprio come i funzionari imperiali britannici – ha diviso il territorio in sette agenzie, ciascuna con il proprio “agente politico” con pressappoco lo stesso potere del proprio predecessore coloniale. Allora come adesso, la parte dei FATA nota come Waziristan, patria di tribali pashtun, offrì la più strenua resistenza.
Secondo Paul Fitzgerald e Elizabeth Gould, di grande esperienza afghana e coautori di Invisible History: Afghanistan’s Untold Story [Storia invisibile: la narrazione mai fatta sull’Afghanistan, City Lights, 2009, pag. 317):
“Se i burocrati di Washington non ricordano la storia della regione, la ricordano però gli afghani. I britannici usarono l’aviazione per bombardare quegli stessi villaggi pashtun dopo la prima guerra mondiale e furono condannati per questo. Quando i sovietici usarono i MiG e i temibili elicotteri-cannoniera Mi-24 Hind per fare lo stesso durante gli anni 1980, furono definiti criminali. Che l’America usi la sua soverchiante potenza di fuoco allo stesso modo spietato e indiscriminato cozza contro il senso di giustizia e moralità del mondo e spinge il popolo afghano e il mondo islamico ancor più contro gli Stati Uniti.”
Nel 1932, in una serie di atrocità tipo Guernica, i britannici usarono gas velenosi in Waziristan. La conferenza sul disarmo dello stesso anno cercò di bandire il bombardamento aereo di civili, ma Lloyd George, che era stato primo ministro britannico durante la prima guerra mondiale, dichiarò gongolante: “Abbiamo insistito sul diritto di bombardare negri e assimilati” (Fitzgerald & Gould, pag.65). Prevalse la sua opinione.
Gli USA continuano ad agire in modo simile, ma con la nuova scusa che l’uccisione di non-belligeranti sia un risultato di “danno collaterale”, o di errore umano. Usando droni senza pilota guidati solo con precisione minima da computer nelle basi militari fra l’altro dei deserti d’Arizona e Nevada, abbiamo ucciso centinaia, forse migliaia, di astanti disarmati in Pakistan e Afghanistan. I cui governi hanno ripetutamente ammonito che così stiamo alienandoci appunto quella stessa gente che pretendiamo di salvare alla democrazia.
Quando, nel maggio 2009, il generale Stanley McChrystal fu nominato comandante in Afghanistan, ordinò nuovi limiti agli attacchi aerei, compresi quelli da parte CIA, salvo quando servissero a proteggere truppe alleate. Purtroppo, come ad illustrare l’incompetenza della nostra catena di comando, solo due giorni dopo, il 23 giugno 2009, gli USA eseguirono un attacco mediante droni contro un corteo funerario che uccise almeno 80 persone, l’attacco singolo più letale finora su suolo pakistano. Non ci fu virtualmente alcuna notizia in merito su stampa o televisioni USA maggioritarie. (In quei giorni, quasi interamente occupate con le avventure sessuali del governatore della South Carolina e la morte del divo pop Michael Jackson).
Le nostre operazioni militari in Pakistan come in Afghanistan sono da tempo disturbate da un’intelligence inadeguata e imprecisa di entrambi i paesi, da preconcetti ideologici su chi dovremmo sostenere e chi dovremmo contrastare, e da comprensioni miopi di quanto potremmo forse sperare di conseguire. Fitzgerald e Gould, per esempio, denunciano che, contrariamente all’attenzione concentrata sull’Afghanistan dei nostri servizi segreti, “il Pakistan è da sempre il nostro problema.” E aggiungono:
“L’esercito del Pakistan e i suoi servizi segreti Inter-Services Intelligence (ISI)… dal 1973 in avanti hanno il ruolo chiave nel finanziamento dapprima dei mujahideen (combattenti anti-sovietici durante gli anni ’80) … e quindi dei talebani. E’ l’esercito pakistano che controlla le armi nucleari, limita lo sviluppo di istituzioni democratiche, addestra combattenti talebani ad attacchi suicidi e ordina loro di aggredire i soldati USA e NATO che proteggono il governo afghano.” (pagg. 322-324)
L’esercito pakistano e il suo braccio ISI sono in parte costituiti da musulmani devoti che hanno allevato i talebani in Afghanistan a beneficio dei propri programmi, pur se non necessariamente per far progredire una jihad islamica. I loro scopi hanno sempre compreso i seguenti obiettivi: mantenere l’Afghanistan fuori dall’influenza russa o indiana, fornire basi di addestramento e reclutamento per guerriglieri mujahideen da utilizzare in luoghi come il Kashmir (conteso da Pakistan e India), contenere il radicalismo islamico all’interno dell’Afghanistan (mantenendolo così fuori dal Pakistan), ed estorcere enormi somme di denaro all’Arabia Saudita, agli emirati del Golfo e agli USA per pagare e addestrare “combattenti della libertà” in tutto il mondo islamico. La coerente politica del Pakistan consiste da tempo nel sostenere le politiche clandestine dell’ISI e frustrare l’influenza del suo maggior nemico e concorrente, l’India.
Il colonnello (in pensione) Douglas McGregor, dell’esercito USA e consulente per il Center for Defense Information a Washington, riassume così il nostro progetto senza sbocchi in Asia meridionale: “Nulla di quanto facciamo costringerà 125 milioni di musulmani in Pakistan a fare causa comune con degli USA in lega con due stati inequivocabilmente anti-musulmani: Israele e India.”
L’ “ondata” di truppe nell’Afghanistan del Sud annunciata da Obama per la metà del 2009, e particolarmente nella provincia di Helmand, una roccaforte talebana, sta rapidamente diventando una fosca reminiscenza delle continue richieste del generale William Westmoreland per altre truppe in Vietnam nonché le sue promesse che se avessimo incrementato un po’ la violenza e tollerato qualche vittima in più, avremmo sicuramente piegato la volontà degli insorti vietnamiti. Il che era un completo fraintendimento della natura della guerra in Vietnam, proprio come lo è oggi in Afghanistan.
Vent’anni dopo che le truppe dell’Armata Rossa si ritirarono in rotta dall’Afghanistan, il loro ultimo comandante, il generale russo Boris Gromov, ha emesso la sua previsione: sarà il disastro per le migliaia di nuove truppe che Obama sta mandando lì, proprio come per quelle dell’URSS, che perse circa 15.000 soldati nella sua guerra afghana. Dovremmo riconoscere che stiamo sprecando tempo, vite e risorse in un’area dove non abbiamo mai capito le dinamiche politiche e continuiamo a fare le scelte sbagliate.
3 – Dobbiamo finirla con la vergogna segreta del nostro impero di basi
Lo scorso marzo, il commentatore Bob Herbert notava per il NewYork Times: “Lo stupro e altre forme di aggressione sessuale contro le donne sono una grossa onta delle forze armate USA, e non c’è segno che questo odioso problema, tenuto nascosto quanto più possibile, diminuisca.” E continua:
“Dati recenti rilasciati dal Pentagono mostrano un aumento di quasi il 9% delle aggressioni sessuali, 2923, e del 25% di tali aggressioni denunciate dalle donne in servizio militare in Iraq e Afghanistan [rispetto all’anno scorso]. Cerchiamo d’immaginarci quanto sia bizzarro che donne  USA in divisa, che sopportano tutti gli stress connessi con le zone di combattimento, debbano anche preoccuparsi di difendersi da stupratori con la stessa divisa e accanto a loro negli stessi ranghi.”
Il problema è esacerbato dall’essere le nostre truppe in guarnigioni presso le basi oltremare situate gomito a gomito con la popolazione civile, spesso predata come da conquistatori stranieri. Per esempio, la violenza sessuale contro donne e ragazzine da parte dei GI americani a Okinawa, la prefettura più povera del Giappone, è fuori controllo dalla sua occupazione permanente da parte dei nostri soldati, marine e avieri avvenuta 64 anni fa.
L’isola fu la scena della maggiore dimostrazione anti-USA dalla fine della seconda guerra mondiale nel 1995, dopo il rapimento, lo stupro e il tentato omicidio di una scolara dodicenne da parte di due marine e un marinaio. Il problema dello stupro è onnipresente da tempo in tutte le nostre basi su ogni continente e probabilmente contribuisce quanto le politiche del governo Bush o il nostro sfruttamento economico di paesi colpiti dalla povertà per le  cui materie prime smaniamo, a farci detestare all’estero.
In quanto all’apparato militare, ha fatto pressoché nulla per proteggere le sue soldatesse o difendere i diritti di astanti innocenti costretti a vivere accanto alle nostre truppe spesso con pregiudizi razziali e predatori. “Lo stato di servizio dei militari nel perseguire gli stupratori non è solo penoso, è atroce” scrive Herbert. In territori occupati da forze militari USA, gli alti comandi e il dipartimento di Stato fanno enormi sforzi per rendere vigente i cosiddetti “Status of Forces Agreements” (SOFA, Accordi sullo status giuridico delle forze armate) che impediscano ai governi dei paesi ospitanti la giurisdizione su nostre truppe che commettano reati all’estero. I SOFA facilitano inoltre ai militari il compito di far sparire dal paese gli imputati prima che le autorità locali possano arrestarli.
Questa problematica è stata ben illustrata dal caso di un’insegnante australiana residente da molto in Giappone, stuprata nell’aprile 2002 da un marinaio della portaerei USS Kitty Hawk, allora presso la grande base di Yokusaka. Essa identificò il suo assalitore e lo denunciò alle autorità sia USA sia giapponesi. Invece del suo arresto e perseguimento penale, fu la vittima a essere angariata e umiliata dalla locale polizia giapponese. Intanto, il sospetto fu dismesso dalla Marina e gli fu permesso di eludere la legge giapponese rimpatriando, dove tuttora vive.
Cercando di ottenere giustizia, l’insegnante australiana scoprì che 50 anni prima, nell’ottobre 1953, i governi USA e giapponese avevano firmato una “intesa” segreta come parte del loro SOFA, in cui il Giappone accettava di rinunciare alla propria giurisdizione se il reato non fosse “d’importanza nazionale per il Giappone”. Gli USA discussero strenuamente per questo codicillo temendo di dover altrimenti affrontare presumibilmente la carcerazione di 350 militari all’anno in Giappone per crimini sessuali.
Da allora gli USA hanno negoziato enunciati simili nei SOFA con il Canada, l’Irlanda, l’Italia e la Danimarca. Secondo l’Handbook of the Law of Visiting Forces (Manuale di legge per le forze in trasferta, 2001), la prassi giapponese è divenuta la norma per i SOFA a livello mondiale, con risultati prevedibili. In Giappone, dei 3.184 militari USA che hanno commesso reati fra il 2001 e il 2008, 83% non sono stati perseguiti. In Iraq abbiamo appena firmato un SOFA molto somigliante a quello del dopoguerra col Giappone: cioè, il personale militare e sotto appalto militare accusato di reati non inerenti al servizio rimarrà sotto custodia USA mentre gli irakeni indagano. Il che permette anche qui perfettamente di far sparire gli indiziati prima di un loro rinvio a giudizio.
Anche in ambito militare, il giornalista Dahr Jamail, autore di Beyond the Green Zone: Dispatches from an Unembedded Journalist in Occupied Iraq [Oltre la zona verde: dispacci da un giornalista non embedded nell’Iraq occupato, Haymarket Books, 2007), parla di “cultura di aggressioni sessuali impunite” e di “sorprendentemente pochissime corti marziali” per stupri e altre forme di aggressione sessuale. Helen Benedict, autrice di The Lonely Soldier: the Private War of Women Serving in Iraq [La soldatessa solitaria: la guerra privata delle donne in servizio militare in Iraq, Beacon press, 2009) cita questa cifra da un rapporto 2009 del Pentagono sulle aggressioni sessuali militari: 90% degli stupri in ambito militare non vengono denunciati e qualora lo siano le conseguenze per gli autori sono trascurabili.
E’ onesto asserire che l’apparato militare USA ha creato un terreno di gioco sessuale mondiale per il proprio personale proteggendolo ampiamente dalle conseguenze del proprio comportamento. Di conseguenza, un gruppo di veterane ha creato nel 2006 il Service Women’s Action Network ( SWAN, Rete d’azione per donne in servizio militare), la cui agenda è diffondere l’idea che “nessuna donna deve andare militare”.
Credo che una soluzione migliore sarebbe ridurre radicalmente le dimensioni dei nostri effettivi, rimpatriando le truppe da paesi dove esse non capiscono gli ambienti e gli è stato insegnato a pensare gli abitanti come loro inferiori.

10 passi verso la liquidazione dell’Impero
Smantellare l’impero USA comporterebbe ovviamente vari passi. Ecco dieci punti chiave da cui cominciare:
1. Dobbiamo porre fine al grave danno ambientale reso dalle nostre basi a livello planetario. Dobbiamo inoltre smettere di scrivere SOFA che ci esimano da ogni responsabilità per il ripristino dopo il nostro sgombero.
2. Liquidare l’Impero porrà fine all’onere di sopportare il peso del nostro insieme di basi  e i conseguenti “costi d’opportunità” che le accompagnano – le cose che potremmo altrimenti fare con i nostri talenti e risorse, ma che non possiamo o vogliamo fare.
3. Come sappiamo (ma spesso dimentichiamo), l’imperialismo alimenta l’uso della tortura. Negli anni ’60 e ’70 abbiamo aiutato a rovesciare i governi eletti del Brasile e del Cile avallando regimi di tortura che prefiguravano il nostro stesso trattamento riservato ai prigionieri in Iraq e Afghanistan. (Vedi, ad esempio, A.J.Langguth, Hidden Terrors [Terrori nascosti, Pantheon, 1979] su come gli USA abbiano diffuso metodi di tortura in Brasile e Uruguay.) Smantellare l’impero vorrebbe dire porre potenzialmente una vera fine alla condotta abituale moderna USA dell’utilizzo della tortura all’estero.
4. Abbiamo bisogno di tagliare il corteo sempre più lungo di personale aggregato alle basi, dipendenti, civili del ministero della Difesa, e propagandisti – con relativi presidi sanitari, esigenze abitative, piscine, circoli ricreativi, campi da golf e così via – che seguono le nostre enclave militari nel mondo.
5. Dobbiamo screditare il mito promosso dal complesso militare-industriale che il nostro apparato militare ci sia utile in termini di posti di lavoro, ricerca scientifica e difesa. Questi presunti vantaggi sono stati  da tempo rivelati fasulli dalla ricerca economica seria. Farla finita con l’impero permetterebbe di raggiungere questo risultato.
6. Come nazione democratica che rispetta se stessa, dobbiamo smettere di essere il maggiore esportatore al mondo di armi e munizioni e di istruire i militari del Terzo Mondo nelle tecniche della tortura, dei colpi di stato militari e di servizio come longa manu del nostro imperialismo. Candidata primaria all’immediata chiusura è la cosiddetta School of The Americas (Scuola delle Americhe), la famigerata accademia militare dell’esercito USA a Fort Benning, Georgia, per ufficiali dell’America Latina. (Vedi: Chalmers Johnson, Le lacrime dell’impero, Garzanti, Milano 2005, pag.165-170.)
7. Dati i crescenti vincoli al bilancio federale, dovremmo abolire il Corpo di Addestramento per Ufficiali di Riserva e altri programmi in vigore da tempo che promuovono il militarismo nelle nostre scuole.
8. Dobbiamo ristabilire disciplina e chiare responsabilità nelle nostre forze armate riducendo radicalmente l’affidamento su appaltanti civili, aziende militari private e agenti all’opera per i militari al di fuori della catena di comando e del Codice in Uniforme di Giustizia Militare. (Vedi: Jeremy Scahill, Blackwater: The Rise of the World’s Most Powerful Mercenary Army [Blackwater: l’ascesa dell’esercito mercenario più potente del mondo] Nation Books, 2007). Farla finita con l’impero lo renderebbe possibile.
9. Abbiamo bisogno di ridurre, non aumentare, le dimensioni del nostro esercito permanente e trattare in modo ben più efficace le ferite e lo stress da combattimento subiti dai nostri soldati.
10. Per ripetere il messaggio essenziale di questo saggio, dobbiamo smettere il nostro indebito affidamento sulla forza militare come mezzo principale per tentare di conseguire obiettivi di politica estera.
Purtroppo, pochi imperi del passato cedettero i loro domini per rimanere entità politiche indipendenti e con auto-governo. I due esempi importanti più recenti sono l’impero britannico e quello sovietico. Se non impariamo dai loro esempi, il nostro declino e la nostra caduta sono preordinati.

Chalmers Johnson è l’autore di una importante e fortunatissima trilogia tradotta in italiano: Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001 (Titolo originale: Blowback, 2000); Le lacrime dell’impero, Garzanti, Milano 2005 (Titolo originale: The Sorrows of Empire, 2004), e Nemesi. La fine dell’America, Garzanti, Milano 2008 (Titolo originale: The Last Days of the American Republic, 2006).
Inoltre è stato curatore di Okinawa: Cold War Island [: Isola da guerra fredda] (1999)

[Nota su ulteriori letture in tema di violenze sessuali nelle e attorno alle nostre basi e di stupri in ambito militare:
Sulla risposta allo stupro del 1995 a Okinawa rape, vedi: Chalmers Johnson, Blowback: The Costs and Consequences of American Empire, capitolo 2.
Su temi correlati, vedi: David McNeil, “Justice for Some. Crime, Victims, and the US-Japan SOFA,” Asia-Pacific Journal, Vol. 8-1-09, March 15, 2009; “Bilateral Secret Agreement Is Preventing U.S. Servicemen Committing Crimes in Japan from Being Prosecuted,” Japan Press Weekly, May 23, 2009; Dieter Fleck, ed., The Handbook of the Law of Visiting Forces, Oxford University Press, 2001; Minoru Matsutani, “’53 Secret Japan-US Deal Waived GI Prosecutions,” Japan Times, October 24, 2008; “Crime Without Punishment in Japan,” the Economist, December 10, 2008; “Japan: Declassified Document Reveals Agreement to Relinquish Jurisdiction Over U.S. Forces,” Akahata, October 30, 2008; “Government’s Decision First Case in Japan,” Ryukyu Shimpo, May 20, 2008; Dahr Jamail, “Culture of Unpunished Sexual Assault in Military,” Antiwar.com, May 1, 2009; e Helen Benedict, “The Plight of Women Soldiers,” the Nation, May 5, 2009.]

30 luglio 2009
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
Titolo originale: Three Good Reasons To Liquidate Our Empire. And Ten Steps to Take to Do So
http://www.tomdispatch.com/post/175101