INTERVENTO UMANITARIO – Jake Lynch
‘Criminale nazionalista terrorizza, massacra civili tentando di sgominare i separatisti’. E’ una storia che, quando si svolse nell’Europa sudorientale un decennio fa, provocò una spaventosa punizione sulla testa dell’autore, il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic. Una campagna di bombardamenti NATO fece piovere ferro e fuoco sul suo paese per 78 giorni, e lui poi finì all’Aja accusato di crimini contro l’umanità.
Dieci anni dopo, si è ripetuto in Asia del sud, con la sanguinosa partita finale della guerra dello Sri Lanka contro le Liberation Tigers of Tamil Eelam (LTTE). Le Tigri avevano condotto una campagna di violenza indiscriminata per un quarto di secolo. Le loro controparti in Serbia erano il Kosovo Liberation Army (UCK), considerati da molti in Occidente un audace gruppetto di ribelli, ma noti localmente per i loro tipici attacchi ai rappresentanti civili del governo federale come poliziotti o impiegati postali. Un rapporto ONU stabilì che avevano estromesso i loro rivali, la Lega Democratica del Kosovo (LDK), dal potere nei municipi della provincia, col semplice espediente di intimare ai funzionari di passare dalla loro parte, sparando a chi si rifiutava.
Il compito di mediare un qualche accordo accettabile che riconoscesse le aspirazioni all’auto-determinazione dei kosovari albanesi fu assunto da un Gruppo di Contatto ad alto livello, comprendente i ministri degli esteri di USA, UK, Russia, Italia, Francia e Germania. Che infine intavolarono una bozza d’accordo a Parigi che avrebbe condotto all’indipendenza del Kosovo – la linea rossa per Milosevic, che loro sapevano non avrebbe attraversato. John Gilbert, ministro della difesa nel governo britannico riferì più tardi a una commissione parlamentare che indagava sulla sequenza di avvenimenti che portarono alla guerra, che nelle trattative “si era posta deliberatamente l’asta troppo in alto” per avere un’accettazione.
Il governo norvegese cercò di facilitare un accordo di pace nello Sri Lanka, e i suoi sforzi furono ricompensati da un accordo di tregua nel 2002. Ma la vittoria risicata di Mahinda Rajapaksa nell’elezione presidenziale tre anni dopo determinò l’inversione del processo. Come Milosevic, fece rapidamente alleanze con partiti della destra nazionalista contrari a qualunque concessione. Il loro accordo con Rajapaksa comprendeva la revisione dell’accordo di tregua per dare più ampi poteri militari contro l’LTTE ed escludere qualsiasi devoluzione di potere al popolo Tamil: la linea rossa da mai attraversare.
La logica conclusione di quella mossa politica si è appena svolta con la celebrazione di una vittoria militare da parte di Rajapaksa e sostenitori a Colombo. L’ONU ha stimato il numero di civili uccisi fra il 20 gennaio e il 7 maggio in oltre 7.000, con 16.700 feriti. Possiamo solo cercare di indovinare quanti altri siano periti nei dieci disperati giorni finali. Tale statistica, insieme alle spaventose e pericolose condizioni nei ‘Campi di rifugiati interni’ gestiti dai militari per chi è fuggito dai combattimenti, equivale a un disastro umanitario. Uso l’espressione come eco deliberata del dibattito sul Kosovo. Fu appunto per prevenire un tale risultato, ci fu detto, che l’intervento NATO, Operation Allied Force, si sviluppò nei cieli d’Europa.
Naturalmente l’importante differenza fra i due casi è che nello Sri Lanka non ci fu alcun intervento militare esterno. I britannici, ardenti nemici di Belgrado negli anni ‘90, stavolta si sono limitati a raffiche di parole, guidando appelli a una tregua rimasti inascoltati. “Ci saranno conseguenze”, ammonì il Primo Ministro Gordon Brown. Mostra quanto sia caduto in basso il principio dell’intervento umanitario: ridotto, in effetti, al punto di essere usato dalle autorità dello Sri Lanka per descrivere le proprie ‘operazioni’ nel nordest del paese, in quanto ‘liberatorie’ dei civili tenuti effettivamente in ostaggio dalle Tigri.
Le domande, allora: perché le cose sono cambiate, e che cosa si può fare?
Perché le cose sono cambiate
Incombe su tutti gli stati un obbligo generale di intraprendere azioni positive per affermare i diritti civili, disposto nel capitolo IX della Carta ONU sulla cooperazione economica e sociale. L’articolo 55 impegna l’ente sopranazionale a promuovere “il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti”, e, secondo l’articolo 56, “I Membri si impegnano ad agire, collettivamente o singolarmente, in cooperazione con l’organizzazione per raggiungere i fini indicati all’articolo 55”. Il predecessore di Brown, Tony Blair, propose di applicare tale impegno anche alle misure previste al Capitolo VII, l’uso della forza, che il Consiglio di Sicurezza può approvare in circostanze in cui – secondo l’Articolo 42 – sono in gioco “la pace e la sicurezza internazionali”. In un discorso a Chicago nell’aprile 1999, mentre la Royal Air Force britannica stava aiutando i suoi compari americani a bombardare e mitragliare a bassa quota i serbi, Blair adombrò quella che definì “la dottrina della comunità internazionale”. Quando “l’oppressione produce flussi massicci di profughi che destabilizzano paesi confinanti”, disse, il principio base ONU di “non-interferenza” dovrebbe essere accantonato. In tali circostanze si dovrebbe ricorrere all’intervento, compreso quello militare, con o senza il consenso delle autorità governative del/i paese/i in questione.
Non molto dopo, la International Commission on Intervention and State Sovereignity (ICISS, Commissione Internazionale sull’Intervento e la Sovranità Statale) , un’iniziativa del governo canadese, cominciò a esaminare questi stessi temi. Suo co-presidente era Gareth Evans, ex-ministro degli esteri australiano. Nel suo nuovo libro (The Responsibility to Protect: Ending Mass Atrocity Crimes Once and for All, Brookings Institution Press. Washington 2008) rievoca una sessione di “braccio-di-ferro” uno-a-uno con il rappresentante USA, il parlamentare Lee Hamilton, su un tema cruciale: tali interventi dovrebbero comportare l’esplicita approvazione ONU, per essere considerati legittimi? L’attacco NATO alla Jugoslavia non fu mai posto ai voti nel Consiglio di Sicurezza, dove sarebbe incorso con certezza nel veto russo e molto probabilmente anche in quello cinese.
In questo evento, la relazione ICISS, The Resonsability to Protect (R2P, La responsabilità di proteggere, www.iciss.ca/pdf/Commission-Report.pdf ) coprì i rischi. La formula Evans-Hamilton stabiliva in effetti che il Consiglio di Sicurezza era la migliore fonte di autorità per tali interventi, ma lasciava la porta aperta a uno spiraglio: “Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe tener conto in tutte le sue deliberazioni che se non riesce ad assolvere alla propria responsabilità protettiva in situazioni che sconvolgono la coscienza e invocano un’azione, gli stati interessati possono non escludere altri mezzi per affrontare la gravità e urgenza di tale situazione – e che la statura e credibilità delle Nazioni Unite ne può soffrire”. Avrebbe potuto essere stilata per evitare di considerare l’attacco NATO alla Jugoslavia ‘fuori gioco’: e infatti il libro di Evans conferma che fu così.
La relazione R2P esponeva quattro “principi cautelativi” per governare tali interventi. Essi devono essere anzitutto motivati da un desiderio di proteggere popolazioni minacciate, sebbene possano essere presenti anche altri motivi più egoistici. L’intervento militare dev’essere un’ultima risorsa, dev’essere proporzionato e dev’essere fatta una valutazione che probabilmente il risultato sarà più positivo che negativo.
Gli USA e alleati espressero seriamente la loro preoccupazione umanitaria, rafforzata in termini apocalittici. Il ministro della Difesa USA William Cohen ipotizzava in una trasmissione che ben 100.000 kosovari in età militare “possono essere stati uccisi”; stima che risultò essere eccessiva di almeno uno, forse due, ordini di grandezza rispetto al numero delle vittime dell’intera guerra. In ogni caso, i flussi massicci di profughi cui Blair si riferiva nel suo discorso di Chicago, erano innescati dai bombardamenti NATO, e poi dalla loro cessazione, con un esodo netto di circa 200.000 non-albanesi dalle proprie case in Kosovo.
Gli USA avevano segretamente armato e addestrato l’UCK per sostituire l’LDK come rappresentanti riconosciuti degli albanesi del Kosovo, adottando una strategia di “prevenire l’emergere di disposizioni di sicurezza solo europee che avrebbero insidiato la NATO” nell’era post-guerra fredda, come riportato nel memorandum del Pentagono Defense Planning Guidance, redatto nel 1992 da un gruppo guidato da Paul Wolfowitz. I problemi militari avrebbero richiesto l’intervento di un’alleanza militare a guida USA, mentre problemi puramente politici potevano essere risolti dall’Unione Europea, con l’esclusione degli USA. Affinché l’influenza USA perdurasse in Europa, i conflitti dovevano essere militarizzati: gli USA avevano bisogno che questa diventasse una guerra guerreggiata, e i loro sforzi diplomatici hanno senso solo tenendo a mente questo.
Nessuno dei principi cautelativi fu perciò rispettato in questo caso, specialmente poiché l’esempio del Kosovo, con gli sviluppi pressapoco contemporanei in Timor Est, offrirono un precedente per la successiva occupazione russa della Georgia a sostegno delle regioni autonome secessioniste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. Questo, insieme all’esodo netto di profughi, significa che l’intervento per il Kosovo fece più male che bene, anche se limitiamo la valutazione alla regione stessa. Associando la responsibilità di proteggere civili e difendere diritti umani con un cambiamento di regime e la ridisegnazione dei confini internazionali, per di più, esso polarizzò l’opinione nella comunità internazionale creando una breccia per cui poterono passare successivi proponenti, come il governo Rajapaksa.
Gli appelli GB a una tregua nello Sri Lanka portarono a rabbiose dimostrazioni davanti all’ambasciata britannica a Colombo, con dimostranti che rendevano esplicito per i giornalisti astanti il messaggio tacito del posizionamento geopolitico del proprio governo. Non abbiamo bisogno di sostegno degli ipocriti paesi liberal occidentali, ossia, adesso la Cina è installata come nostro tutore nella comunità internazionale. Sri Lanka è effettivamente uno dei paesi ove Pechino ha esteso le sue politiche di “ascesa pacifica” come il Sudan, lo Zimbabwe e svariati altri. Non ci sono lacci appesi all’aiuto militare o per lo sviluppo da parte cinese, a differenza, per esempio, dei paesi UE o del FMI.
L’assiduità cinese nel coltivare tali relazioni è la controparte e conseguenza della dottrina di politica estera USA ‘perno e raggio’ per cui i paesi alleati e amici sono visti – e incoraggiati a vedersi – come titolari di una ‘relazione speciale’ con l’America. Inserirvisi porta compensi, mentre gli esclusi rischiano punizioni. I membri del club devono fare la loro parte. “Perché prosperi la libertà, ci si deve aspettare ed esigere responsabilità”, dice la US National Security Strategy del 2002.
Quasi nessun alleato è stato proprio così esplicito da considerare la Cina come avversario militare come ha fatto recentemente il governo australiano. Il cui Libro Bianco della Difesa di quest’anno dice:
“Ritmo, ampiezza e struttura della modernizzazione militare cinese hanno il potenziale per dar motivo di preoccupazione ai suoi vicini se non accuratamente spiegati e se la Cina non si protende verso gli altri per stabilire fiducia riguardo ai suoi piani militari.
Con l’ascesa di altre potenze e il primato USA sempre più messo alla prova, le relazioni di potere inevitabilmente muteranno. Quando questo accadrà ci sarà la possibilità di valutazioni errate… Una potenziale contrazione della presenza strategica USA nella regione Asia-Pacifico, con la richiesta che alleati e amici facciano di più nelle proprie regioni, influirebbe negativamente sugli interessi australiani, sulla stabilità regionale e sulla sicurezza globale”.
I nessi nascosti cominciano ad emergere qui. I Rajapaksa di questo mondo possono accomodarsi verso la Cina e fare marameo alla dottrina R2P. Che, comunque, è stata privata della ‘clausola Lee Hamilton’ dato che la versione adottata all’Assemblea Generale ONU riunita a livello di capi di stato e di governo nel 2005, sancisce che il Consiglio di Sicurezza deve dare la sua approvazione per qualunque intervento umanitario militare. Qualunque mossa per intervenire a protezione dei civili Tamil si sarebbe scontrata con un veto di Pechino, che non voleva che l’argomento fosse neppure discusso a livello di Consiglio di Sicurezza.
Per la Cina si tratta di formare un ‘hinterland’ d’influenza nella comunità internazionale come baluardo contro una destabilizzazione e un eventuale attacco; paure attizzate da episodi come quello del Kosovo – quando, rammentiamo, un “errore” di bombardamento NATO spianò l’ambasciata cinese a Belgrado – insieme al rapido rafforzamento militare in Georgia con la NATO che cerca di estendere verso est la sua influenza, e l’Australia con gli USA che alzano la posta in quello che in termini strategici è il loro cortile di casa. La regione Asia-Pacifico era una delle tre regioni chiave identificate nella Defense Planning Guidance dove gli USA devono prevenire l’emergere di ‘egemoni’, o centri di potere alternativi.
Che cosa si può fare?
E’ stata soprattutto l’invasione dell’Iraq che ha determinato quello che un osservatore accademico, Thomas Weiss, chiama “il tramonto dell’intervento umanitario”. Egli sostiene che al tempo del voto dell’Assemblea Generale ONU, il “contraccolpo” (blowback) di quell’episodio aveva “precluso una seria discussione [di criteri per l’intervento umanitario] per il futuro prevedibile”. Anche quello fu presentato al pubblico come un esercizio umanitario: la “risposta morale”, disse Blair, al caso morale contro la guerra.
Il caso Sri Lanka sottolinea il bisogno di una discussione rinnovata, e i casi del Kosovo e dell’Iraq dovrebbero imporre una definizione più specifica e più restrittiva dei metodi e scopi dell’intervento umanitario. L’assunzione di responsibilità di operare per la protezione ed estensione dei diritti umani fuori dal Capitolo IX della Carta ONU e nel Capitolo VII automaticamente crea un problema. Se si deve contemplare l’uso della forza militare, chi la possiede inevitabilmente introduce i propri interessi in qualunque decisione su se possa o debba essere usata.
L’ONU ha bisogno di proprio personale da mandare in luoghi come quel pezzetto di giungla e sabbia in rapido assottigliamento dove le famiglie tamil erano ridotte a rannicchiarsi in trincee improvvisate per ripararsi dal fuoco d’artiglieria. James Elder, portavoce UNICEF nello Sri Lanka, ha detto: “Vediamo una totale noncuranza per la vita dei civili. E’ difficile pensare a un posto peggiore al mondo dove essere adesso che in quella striscia di spiaggia”.
Chiunque si ponesse in tale situazione avrebbe bisogno della protezione di una tregua, oltre ad armi di protezione personale, ma dovrebbero anche essere nettamente differenziati dagli eserciti degli stati membri, che sono o disposti a schierarli a caccia del proprio interesse o indisposti a schierarli perché non ne scorgono alcuno – e che, la storia mostra, spesso fanno più danno che bene.
Questo non è del tutto un wishful thinking – i colleghi qui al Centro per gli Studi per la Pace e il Conflitto stanno elaborando una proposta per un UN Emergency Peace Service (UNEPS, Servizio d’Emergenza per la Pace ONU), originariamente avanzata da un gruppo della società civile, Global Action to Prevent War, che agirebbe secondo tali linee. Annie Herro, la ricercatrice che sta misurando le reazioni regionali alla proposta, con sovvenzioni dall’organizzazione internazionale d’aiuto Caritas, la descrive come segue:
“L’UNEPS comprenderebbe da 12 a 15.000 operatori selezionati con cura e addestrati con perizia. Questo servizio permanente ONU comprenderebbe non solo personale militare e polizia civile ma anche esperti in risoluzione dei conflitti, sanità e amministrazione della giustizia. Opererebbe entro una singola struttura di comando ONU e stazionerebbe in basi designate dall’ONU. L’UNEPS possederebbe una gamma di competenze più completa di quelle delle forze esistenti, ONU, regionali o nazionali che siano. E per la prima volta nella storia, un ente ONU potrebbe venire schierato sul campo entro 48 ore dall’autorizzazione ONU”.
Quali sono le probabilità che venga adottato? Le reazioni regionali sono state ampiamente positive, spesso con la disposizione aggiunta (da quelli fuori dall’Australia) che non dev’essere presentato ancora una volta come un altro pretesto d’interferenza dell’Occidente negli affari interni delle nazioni sovrane.
Leggere il libro di Gareth Evans vuol dire entrare in un mondo narrato alla prima persona plurale: “noi” siamo i bravi, intraprendenti e benintenzionati del tipo effettivamente ben rappresentato negli ambiti superiori della politica, della diplomazia e dei mondi internazionali dei diritti civili e umanitari, con Evans stesso luminoso esempio. La fine della guerra fredda accentuò le prospettive della “cooperazione per la pace”, come l’ha chiamata in un volume precedente. Gli sviluppi da allora hanno seminato ulteriori divisioni, tuttavia, e c’è forse soprattutto bisogno di qualche senso di riconciliazione, prima che un UNEPS o iniziative del genere possano essere contemplate seriamente.
Soprattutto, forse, il livello di spese militari deve calare, cominciando dall’Australia. L’ Organizzazione di Intelligence per la Difesa del paese (Defence Intelligence Organisation, il cui acronimo, DIO, non ha bisogno di ulteriori commenti, ndt) ha vivamente sostenuto che non si debba considerare la Cina come una minaccia. Invece, hanno detto, i suoi modesti aumenti di spesa in armamenti sono venuti in risposta ai piani USA, specificamente per un’espansione massiccia della sua base militare nell’isoletta di Guam, la cosiddetta ‘punta di lancia’ puntata su Pechino. Tuttavia la DIO ha perso nei confronti delle lobby delle armi, sostenute senza dubbio da Washington, nel definire un bilancio militare grottescamente al di là dei bisogni reali dell’Australia. E’ stata una decisione che ha contribuito, attraverso la serie di nessi che ho descritto in questo testo, al fato di migliaia di astanti civili nello Sri Lanka e altrove.
26.05.09
Traduzione italiana a cura di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: “HUMANITARIAN INTERVENTION”
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=1290