Commento a Galtung: Gesù, Giuda, Guevara

Enrico Peyretti

Commento a Johan Galtung, Gesù, Giuda, Che Guevara

Trovo stimolante, come ogni confronto fra momenti umani,  questo accostamento fra tre personaggi (due antichi, già in stretto rapporto tra loro, e uno recente), tutti fortemente presenti nella nostra immaginazione. È vera la somiglianza, qui esplicitata, ma già notata, fra le figure tradizionali di Gesù morto e le foto del cadavere di Che Guevara, appena ucciso. Inoltre, lo slogan rivoluzionario “Il Che è vivo”, che è una forma di fede, somiglia (soltanto somiglia, dal mio punto di vista) all’essenziale e centrale annuncio cristiano “Cristo è risorto” (in greco “Xristos anesti”).

Aggiungo qualche osservazione. Gesù, per quanto ne sappiamo, è stato condannato non solo dal potere politico romano, ma anzitutto, condizionando Pilato, dal potere religioso ebraico, che ha così rifiutato Gesù e la sua predicazione evangelica (eu-angelion, buon annuncio, bella notizia). La quale era in continuazione, ma anche in forte rivoluzionaria innovazione, con la tradizione ebraica, superando la Legge, senza rinnegarla, con lo Spirito. Gesù è ebreo, i cristiani sono ebrei innovatori. La polemica antiebraica presente nel Nuovo Testamento si spiega con la condanna recente di Gesù, ma ovviamente non giustifica affatto l’antiebraismo presente nella storia cristiana, e il giudizio di deicidio sul popolo ebraico come tale. Ogni religione storica, insieme a spiritualità vitali, ha forme di sicurezza autocentrata che arrivano alla esclusione feroce. Galtung ha rilevato spesso forme hard  e forme soft nelle religioni. Gesù è il primo dei martiri cristiani e degli eretici suppliziati.

Fra le interpretazioni della condanna e uccisione di Gesù, è sempre meno accettata fra i cristiani quella sacrificale, cioè la predestinazione da parte di Dio, che Gesù chiama affettuosamente Padre (Abbà), a morire in quel modo per espiare i peccati dell’umanità. Questa interpretazione è presente nella tradizione: Dio Padre, per poter perdonare l’offesa infinita dei peccati di noi tutti, avrebbe avuto bisogno di una soddisfazione infinita, cioè il sacrificio del suo Figlio divino. Solo una concezione di Dio metafisica, padronale, assoluta può portare a questa aberrazione, incompatibile con l’immagine data da Gesù di un Dio che ama i cattivi come i buoni (Matteo 5,45 e altri passi simili), che vuole «misericordia e non sacrifici» (Osea 6,6, ripetuto da Gesù). Anche l’idea dell’inferno come pena eterna inflitta da Dio, pur appartenente al linguaggio usato da Gesù per ammonire, non risulta davvero compatibile con l’annuncio evangelico (vedi, p. es. Roberto Mancini, L’umanità promessa).

In realtà, Gesù è morto perché ha amato «fino in fondo» (Giovanni 13,1) l’umanità bisognosa di misericordia, in totale coraggiosa coerenza con la sua missione, accettando la sfida dei poteri avversi. Per i cristiani, è un tale amore divino nell’uomo Gesù che ricolma e redime tutti i peccati e i mali dell’umanità. È il suo amore e non la sua morte ingiusta, criminale, che ci salva. Per questo i cristiani hanno fede che una vita così grande ha vinto la morte e Gesù è veramente vivo tra noi, e dà il suo Spirito a chiunque, che lo conosca o no, cerca di vivere in verità, giustizia e bontà. Ci sono state tante divisioni e lotte dottrinali ed ecclesiastiche, ma su questo punto tutti i cristiani sono insieme.

La figura di Giuda, se non sbaglio, viene interpretata a seconda di quale concezione della redenzione si adotta. Se l’uccisione di Gesù è volontà diretta di Dio, allora Giuda è esecutore provvidenziale, o strumento, di quella volontà. Ma, nella concezione che ho detto, è soprattutto un povero traditore, come lo presentano i vangeli “canonici” (cioè scelti come regola, “canone”, dalla chiesa primitiva). Secondo alcuni, Giuda pensava in buona fede, consegnandolo, di spingere Gesù a decidersi per un’azione sovversiva contro gli occupanti romani e i collaborazionisti ebrei. Ma si vede sempre più chiaramente (cfr l’esegesi di Walter Wink) che il Gesù raccontato nei vangeli attuò e suggerì delle vere e proprie azioni di resistenza nonviolenta all’occupazione. Non si è lontani dal vero se si vede (come insiste Alex Zanotelli) in Gesù un precursore di Gandhi, o in Gandhi un prosecutore di Gesù, in questo tipo di resistenza attiva alla violenza. Anche nell’atteggiamento di entrambi di fronte alla morte prevedibile possiamo vedere delle somiglianze.

Il vangelo di Giuda recentemente scoperto, proponendo Giuda come liberatore di Gesù dal suo corpo materiale per assurgere con l’anima ad una condizione spiritualistica, è in grande conflitto con l’immagine più diffusa di un Gesù molto «incarnato», immerso nell’umanità e nelle sue sofferenze, anche fisiche e psicologiche, non solo spirituali. Dice che il suo regno non è di questo mondo, perché rifiuta le logiche dominanti, ma ama il mondo e per esso dà la vita.

Ultima osservazione. Certamente fino ad oggi la Civiltà occidentale, come dice Galtung, ha incorporato, in un modo o nell’altro, il cristianesimo. È tutto da vedere con quale genuinità o deformazioni. Ma, se il cristianesimo avrà un futuro, è assai probabile, come già si vede, che sarà sempre meno identificabile con questa particolare forma di civiltà umana.
30 aprile 2009

Gesù non era scemo

Enrico Peyretti

– Amare i nemici, diceva.
– Furbo! Quelli ti odiano e tu li ami.
– Prestare senza aspettarti restituzione.
– Fallimento assicurato!
– A chi ti dà uno schiaffo, porgi l’altra guancia. A chi ti prende la tunica, dai anche il mantello.
– Così lo incoraggi a continuare!
– Se uno ti costringe per un miglio, tu vai con lui per due miglia.
– Sì, e poi?
Tanti bravi cristiani mettono silenziosamente da parte queste esagerazioni di Gesù: «va bene, voleva dire di essere generosi, ma se dovessimo prenderlo alla lettera…». E chi è meno pio giudica che Gesù insegnasse a sottomettersi ai prepotenti. Tre volte bon – dicono a Venezia – con quel che segue… Non è così che si sta al mondo.
Come capire questi insegnamenti?
Walter Wink, nel libro Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio (edizioni EMI, Bologna 2003) dà alcune interpretazioni interessanti. Giorgio Barazza, che ringrazio molto, me ne fornisce una sintesi, che io qui restringo ancora.
Questi consigli di Gesù offrono una misura pratica e strategica per dare agli oppressi un potere nonviolento e liberante (pag. 308).

Il prepotente umiliato

«Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male, anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra» (Matteo 5, 38-39). Per colpire la guancia destra, l’altro avrebbe dovuto usare la sinistra, il cui uso era vietato, riservato ai soli compiti impuri. Dovendo usare la mano destra, il colpo sulla guancia destra poteva essere solo un manrovescio. Questo colpo, più che una percossa inflitta ai propri pari, era un’umiliazione, destinata agli inferiori: schiavi, figli piccoli, donne. Gesù parlava a povera gente, che conosceva questa umiliazione. Ora, offrire l’altra guancia era privare l’oppressore della sua pretesa superiorità. Era come dirgli: «Prova ancora. Io non ti riconosco il potere di umiliarmi. Sono pari a te. Tu non riesci ad offendere la mia dignità». Questa reazione avrebbe messo l’offensore in difficoltà: come può colpire ora la guancia sinistra (ovviamente con la propria destra)? Non più con un manrovescio (impossibile), ma con l’interno della mano, come farebbe in una rissa con un proprio pari. Anche se facesse flagellare l’inferiore per quella reazione, questi avrebbe comunque mostrato in pubblico la sua uguaglianza naturale con chi si crede superiore. Un debole ha impedito a un prepotente di svergognarlo, ed anzi ha svergognato lui. Dirà Gandhi: «Il principio dell’azione nonviolenta è la non-collaborazione con tutto ciò che si prefigge di umiliare».

Il ricco svergognato

Leggiamo poi: «A uno che vuole trascinarti in giudizio per prenderti la tunica, dagli anche il mantello» (Matteo 5, 40). Questa disgrazia poteva capitare a un povero, carico di debiti. Ce n’era certamente, tra la gente che ascoltava Gesù. L’indebitamento era una piaga endemica nella Palestina del primo secolo. I romani tassavano pesantemente i ricchi. Questi investivano in immobili, cioè in terre, per mettere al sicuro il denaro. La legge e l’uso ebraico erano contrari alla vendita della terra, il bene più ambito. Ma l’innalzamento degli interessi rendeva sempre più difficile ai contadini piccoli proprietari il saldo dei loro debiti e li costringeva a vendere la terra ai ricchi. Ai poveri così derubati, chiamati in tribunale a pagare nuovi debiti, senza più terra da vendere, Gesù consiglia di dare via anche l’ultima veste. Sarebbero usciti dal tribunale completamente nudi. C’è da immaginare che la folla in ascolto del discorso della montagna a questo punto sia scoppiata a ridere. Nella scena abbozzata da Gesù, il creditore è lì con gli abiti del debitore in mano, mentre questo esce nudo. La situazione si ribalta a favore del povero debitore. La legge lo condanna a quella condizione, ma, denudandosi, egli eleva un’aspra protesta contro il sistema che lo riduce così. La nudità era tabù in Israele ma più del nudo era censurato chi lo guardava e chi l’aveva causato. Il creditore è posto nella condizione di voyeur, quella per cui Cam fu maledetto (Genesi 9). Il sistema che opprime i piccoli proprietari è smascherato. Il creditore, se comprende, può pentirsi della durezza di cui ha approfittato legalmente. Il povero che si riteneva impotente scopre di poter avere l’iniziativa, e, anche se l’ingiustizia legale rimane immutata, ne dimostra l’assurda crudeltà, la ridicolizza. Il vero denudato è il creditore e la legge che lo favorisce.

L’occupante prega l’occupato

«Se uno ti vuol costringere per un miglio, va’ con lui per due» (Matteo 5, 41). Chi può costringere così un altro? Il contesto è l’occupazione militare. I soldati romani occupanti potevano imporre questa angaria (corvée, lavori forzati) ai locali, per esempio facendo portare carichi pesanti. Per le popolazioni soggette ai romani, ciò era motivo di forte risentimento. Ed era già un provvedimento benevolo la limitazione ad un miglio. La quale indica pure che dovevano essere frequenti gli abusi dei soldati, che imponevano percorrenze maggiori. Gesù non propone né la rivolta né la sottomissione. Propone un atto con cui l’oppresso riprende l’iniziativa e afferma la propria dignità. Immaginiamo la scena: passata la prima pietra miliare, il soldato si sente dire dall’ebreo con fermezza e dignità: «Te lo porto un altro miglio», e deve pensare: cosa diavolo ha in mente? mi vuole provocare? vuole denunciarmi, farmi punire? Dalla situazione servile, l’oppresso ha ripreso la sua libertà d’azione. Il soldato è disorientato davanti all’imprevedibile. Oggi non riesce a sentirsi superiore ai civili. Si abbassa a pregare l’ebreo di restituirgli il carico! Lo humor di questa scena può sfuggire a noi, ma non sfuggiva agli ascoltatori di Gesù, ben esperti di questa prepotenza, bisognosi di riscattarsi.

Né scemo né vigliacco

L’amore verso il nemico vuol dire anche portarlo in condizione di incertezza e di ansia, che possano aiutarlo a cambiare comportamento. Quando Gesù, nella sinagoga di Nazareth (Luca 4, 14 e seguenti) inaugura la sua missione attribuendosi la realizzazione della profezia di Isaia (cap. 61): «Lo Spirito del Signore … mi ha inviato … a liberare gli oppressi», non fa dello spiritualismo disincarnato, tanto meno propone una “religiosa” rassegnazione alla violenza terrena per guardare solo all’aldilà. Gesù non era né scemo né vigliacco, come dimostrò fino in fondo. Era anche un leader della lotta nonviolenta.

(pubblicato su il foglio, n. 313, giugno 2004; www.ilfoglio.org e www.ilfoglio.info)

 


 

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