L’Europa e i conflitti armati: prevenzione, difesa nonviolenta e corpi civili di pace
Alberto L’Abate e Lorenzo Porta, L’Europa e i conflitti armati: prevenzione, difesa nonviolenta e corpi civili di pace, Firenze University Press, Firenze 2008
Ci sono volumi che, tratteggiando problemi e dilemmi, delineano delle prospettive interessanti, analizzando una situazione contingente ed indicando orizzonti di futuro. L’ultimo volume, curato da Alberto L’Abate e Lorenzo Porta, “L’Europa e i conflitti armati: prevenzione, difesa nonviolenta e corpi civili di pace” (Firenze University Press, Firenze 2008), si colloca esattamente in questa dinamica.
Lungi dal costituire una semplice ricapitolazione storico-politica o una mera raccolta di atti di una conferenza, pur importante ed impegnativa, il volume prova ad interagire entrambe le direttrici di analisi, interrogando simultaneamente la situazione contingente e l’orizzonte di futuro. La situazione contingente è legata alla registrazione, che nel volume si compie, dello “stato dell’arte”, nel mondo accademico e nonviolento, in relazione alla situazione attuale dei corpi civili di pace e della difesa popolare nonviolenta, come argomenti di riflessioni e come strumenti utili alla prevenzione e alla trasformazione dei conflitti, sia di ordine interno sia di carattere internazionale. D’altro canto, l’orizzonte di futuro è legato propriamente alle prospettive di questi strumenti, alle concrete ipotesi di fattibilità connesse alla loro realizzazione e alla speranza, ugualmente ipotetica, che l’Unione Europa possa dotarsi di programmi e strumenti di azione coerenti con il compito della gestione e della prevenzione dei conflitti: strumenti d’azione per un’azione di pace ovvero programmi politico-istituzionali che diano esito e senso alla possibilità di costruire l’Unione Europea come attore delle relazioni di pace in proiezione internazionale.
Da questo punto di vista, è forse utile premettere un chiarimento: sebbene il volume nasca come raccolta di materiali, contributi ed atti prodotti dentro ed a margine di una circostanza occasionale come quella del seminario su “Europa e Corpi Civili di Pace”, tenuto nel 2004 presso l’Università di Firenze, nel quadro di un progetto di messa in rete di luoghi di elaborazione accademica di livello europeo, esso difficilmente può essere confinato dentro l’angusta categoria degli atti di conferenza, come testimonia la presenza di contributi accademici di ampio respiro (in primo luogo quelli di Alberto L’Abate su “esercito e corpi civili di pace”, di Nanni Salio su carattere e “ruolo dei corpi civili di pace” e di Johan Galtung, tra i massimi teorici di fama internazionale sulla tematica della trasformazione dei conflitti, in relazione alle ipotesi di “trascendimento” del conflitto kosovaro) nonché di tracce di ricerca-azione o contributi teorico-esperienziali come l’intervista a Narayan Desai di Alberto L’Abate e il dialogo istituzionale a livello europeo sulla questione dei Corpi Civili di Pace nella ricognizione sviluppata da Alessandro Rossi. Viceversa, il volume delinea una traiettoria di analisi più complessiva, probabilmente meno organica in virtù della eterogeneità dei contenuti e dei differenti background degli autori delle singole “narrazioni tematiche”, ma certamente più stimolante, proprio in ragione della mole e della qualità degli interrogativi sollevati e delle questioni poste.
Nella sua premessa al volume, Antonio Cassese, già presidente del Tribunale Penale Internazionale ad hoc per la ex-Jugoslavia, parla della costruzione della pace attraverso la dotazione istituzionale dell’Unione Europea come epicentro tematico del volume e del caso di studio kosovaro come architrave di riferimento dell’elaborazione “dal campo”; in realtà, la tesi potrebbe essere, forse più proficuamente, rovesciata ed il volume essere letto nell’ottica delle problematiche sollevate dalla introduzione formale, da parte del Parlamento Europeo attraverso risoluzioni e raccomandazioni al Consiglio e alla Commissione, dei Corpi Civili di Pace Europei e delle questioni poste dalla connessione tra Corpi Civili di Pace, Difesa Popolare Nonviolenta ed altri strumenti, istituzionali e di società civile, funzionali allo scopo della trasformazione dei conflitti, ambito concettuale nel quale la gran parte dei contributi offerti esplicitamente si pone. Sotto questo versante, i due casi di studio più dettagliatamente affrontati (le ambasciate di pace in Kosovo come istanza della diplomazia dal basso per il superamento del conflitto serbo-albanese e le Shanti Sena indiane come paradigma dei Corpi Civili di Pace a livello internazionale) servono ad evidenziare il presupposto del volume: i Corpi Civili di Pace non possono che costituire una istanza di potere reale di base ed incarnare l’istanza della trasformazione dei conflitti e della lotta per la pace e contro la guerra (in forma organizzata, non come semplice pulsione morale) “dal basso”, quale istanza sociale prima ancora che istituzionale.
Tale retro-azione pone problemi evidenti, che peraltro non sfuggono ad una attenta lettura del volume, in ordine al rapporto tra società civile ed istituzioni politiche, alla relazione possibile o antagonistica tra peace-keeping civile e militare (e, di conseguenza, quale, se possibile, relazione “sul campo” tra attori civili e militari dell’intervento internazionale ed attori della conflict management e della cooperazione economica) ed alle stesse modalità di azione “sul campo” a partire (sulla scorta dell’esempio delle Shanti Sena) dalla continuità o dalla dispersione del modello originario gandhiano.
Inevitabile, pertanto, che una tale gamma di problematiche e sollecitazioni sia stata enucleata nella più significativa tra le diverse presentazioni che il volume ha avuto, tenuta a margine dell’assemblea generale della Associazione IPRI (Italian Peace Research Institute) – Rete CCP, presso la sede del Centro Studi Sereno Regis (Torino) lo scorso 18 aprile. Si è trattato, si può dire, di un “evento nell’evento” grazie alla simultanea presenza, oltre all’Autore, di ricercatori e studiosi (da Antonio Drago a Nanni Salio), di attori della ricerca-azione “sul campo” (da Maria Carla Biavati dei “Berretti Bianchi” a Gianmarco Pisa degli “Operatori di Pace – Campania”) e di un pubblico partecipe e numeroso, sinceramente accattivato dall’idea di una riflessione non declamatoria e non apologetica, bensì tutta calata “sulle cose e sui contenuti”, appunto come nello spirito della ricerca-azione cui anche il libro, in qualche modo, si ispira.
La traccia che ha caratterizzato tutti gli interventi, al di là di approcci ed orientamenti differenti, è stata quella della calibrazione strategica della portata dell’operazione CCP: calibrazione entro la quale restano definiti tanto i problemi relativi all’azione dei Corpi Civili di Pace come istanza dal basso di potere diffuso di pace, non “aspettando” i governi nazionali bensì sviluppando buone pratiche di attivazione e di trasformazione nell’ottica della costruzione di esperienze pilota capaci di arricchire il bagaglio teorico-esperienziale degli operatori nonviolenti di pace, quanto le problematiche connesse con la relazione tra civili e militari e, d’altro canto, tra servizi civili di pace e difesa popolare nonviolenta.
Nella traccia offerta da Maria Carla Biavati e confermata in tutti gli interventi successivi, ad esempio, il carattere dell’azione civile di pace non può che essere informato ad una completa autonomia ed alterità rispetto al peace-keeping militare, ciò non solo come elemento di salvaguardia della dimensione nonviolenta entro la quale l’ipotesi della trasformazione costruttiva si muove, ma anche in quanto istanza di tutela tanto degli operatori di pace quanto dei soggetti destinatari dell’intervento, a partire dalle cosiddette “capacità locali per la pace”.
I Corpi Civili di Pace vengono così a situarsi, come ha suggerito anche il contributo offerto da Gianmarco Pisa, ad intersezione tra l’azione civile di pace internazionale e la difesa popolare nonviolenta, il “medio” essendo costituito dalla strategia nonviolenta in quanto ipotesi di relazione e di orizzontalità, sovente in contrasto con la propensione istituzionale alla “parcellizzazione” o alla “verticalità” degli /negli interventi e con la dispersione storica ed evenemenziale dello stesso carattere nonviolento delle prime esperienze pilota, come l’esperienza indiana o, peggio ancora, quella dei Peace Corps statunitensi, ha, purtroppo, in più circostanze evidenziato.
E’ al contempo, problema di termini e di strategie: è stato Antonio Drago a sottolineare il carattere ambivalente, quando non ambiguo o mistificatorio, della definizione stessa di Corpi Civili di Pace (in cui si assume un termine, “corpi”, di eminente provenienza militare e non si manifesta adeguatamente il profilo nonviolento cui tale “engagement” dovrebbe informarsi) ed a mettere in chiaro che, di diverse strategie, orientamenti ed approcci all’azione di pace, è difficile in questa fase venire a capo, se non attraverso un lavoro di approfondimento, elaborazione e sintesi che solo con ulteriore ricerca potrà maturare fino ad esiti soddisfacenti.
Tuttavia, se, al contempo, di istanza di società civile e di compito di responsabilità istituzionale (rientrando qui il tema della difesa, declinata non semplicemente come “difesa civile”, bensì come “difesa popolare nonviolenta”) si tratta, allora gli attori del servizio civile di pace non potranno non interrogarsi anche sulla propria “mission” più complessiva e sulla dinamica politica che fa da sfondo alla loro applicazione. Come ha giustamente messo in rilievo Nanni Salio, traguardando idealmente le conclusioni dell’assise, vi è uno sforzo di approfondimento e di analisi che, per gran parte, è ancora tutto da compiere ed un’acquisizione di responsabilità politica che gli attori internazionali della pace e della nonviolenza non potranno proditoriamente derubricare.
Si tratta di pensare e di agire: forse, la sfida più impegnativa, cui la riflessione contenuta nel volume allude, si può compendiare esaustivamente proprio in queste due nozioni.