La condizione dei Papua – Jake Lynch

L’Indonesia sta avanzando in direzioni promettenti. Il trionfo del partito democratico del presidente Susilo Bambang Yudhoyono (SBY) nelle elezioni parlamentari nazionali equivale a un pieno avallo a un generale divenuto politico, che è, sotto vari aspetti, un significativo riformatore. Fra i risultati conseguiti c’è l’accordo di pace che ha portato un barlume di speranza alla provincia di Aceh da tempo tormentata, e la ratifica indonesiana di due strumenti chiave per i diritti umani, le Convenzioni Internazionali rispettivamente sui Diritti Civili e Politici, e sui Diritti Economici, Sociali e Culturali.
Che questo avvenga nel paese musulmano più popoloso al mondo mostra che la democrazia e i diritti umani non sono incompatibili con l’Islam, contrariamente a quanto suggeriscono periodicamente i vari più eccitabili commentatori culturali conservatori occidentali. Conferma un benvenuto cambiamento di rotta dopo il repressivo regime Ordine Nuovo del presidente Suharto, e i massacri di membri del partito comunista che lo portarono al potere su un’ondata di sangue.
C’è tuttavia una pecca in questo quadro generale positivo. La gente di West Papua ha dovuto sopportare quattro decenni di soggiogazione, per tutto il periodo di Ordine Nuovo e oltre, senza veri segni di alcun miglioramento. La pace in Aceh e la secessione di Est Timor, fra le rovine del regime di Suharto nel 1999, privarono le forze armate indonesiane – TNI – di due importanti zone di conflitto interno dove agire. Da quel momento il numero di truppe impegnate in West Papua è andato aumentando senza ripensamenti.
West Papua è ora stata suddivisa in due province, e una terza in programma. L’immediato successore di Suharto, B.J. Habibie, approvò un grado considerevole di decentramento nazionale, e nel 2002 a West Papua fu concesso lo status di Autonomia Speciale, uno dei cui effetti intenzionali era che la provincia trattenesse una quota maggiore dei ricavi dalle ricche risorse in corso di sfruttamento da parte di grosse aziende che avevano raggiunto accordi con Jakarta. Però, la proliferazione dei livelli di amministrazione ha fatto sì che parecchio denaro venga invece dirottato su una fiorente classe clientelare di burocrati, anziché investita in un autentico sviluppo.
Un’area in cui c’è disperato bisogno di sviluppo è la fornitura di servizi sanitari, specialmente ampliandoli alle zone rurali, dove i tassi di mortalità infantile e materna sono tremendamente alti e la diffusione di HIV/AIDS ha decimato intere comunità. Ricercatori del West Papua Project (WPP) hanno raccolto prove per il Centro Studi sui conflitti e per la pace dell’Università di Sydney sulla complicità dell’esercito nella crisi HIV/AIDS in Papua, con ufficiali che fanno profitti su bordelli legali e illegali, dove procedure inadeguate d’esami sanitari permettono la rapida diffusione della malattia (1).
Per una legge approvata nel 2004, all’entrata in carica di SBY, ci si attende che entro quest’anno il TNI ceda tutti i propri interessi economici. Ma una relazione provvisoria degli osservatori dell’Human Rights Watch (HRW), ha concluso due anni fa che non c’era alcun progresso. Tradizionalmente, metà del bilancio militare o anche meno proviene dalle casse dello stato, mentre toccava agli ufficiali stessi provvedere al resto. “L’attività militare di procacciamento di denaro crea un ovvio conflitto d’interesse con il suo ruolo proprio” disse allora Lisa Misol, ricercatrice presso il Programma Attività Economica e Diritti Umani di HRW. “Invece di proteggere, le truppe indonesiane usano violenza e intimidazione per assecondare i loro interessi d’affari; e siccome il governo non controlla i cordoni della borsa, non controlla in effetti neppure loro”.
Il caso più noto indicato dalla relazione è il racket di protezione gestito dall’esercito attorno alla gigantesca miniera di proprietà americana d’oro e rame McMoRan di Freeport, vicino a Puncak Jaya sugli altopiani centrale di Papua. Protezione da che cosa e chi? Proteste pacifiche contro la miniera di Freeport, da molto tempo motivo focale di scontento, hanno prodotto carcerazioni, torture e uccisioni extra-giudiziarie. Un secondo rapporto WPP (2)documentava casi in cui il TNI era accusato di provokasi (provocazione, ndt), cioè di mandare finti combattenti per l’indipendenza in zone da cui era stato fino ad allora assente, per far nascere lo spettro della violenza come pretesto per ampliare le proprie attività in Papua.

Crisi umanitarie
E intanto insorgono regolarmente crisi umanitarie locali, con abitanti dei villaggi in fuga davanti a unità dell’esercito, che per paura cercano rifugio nella foresta. Isolati dalla possibilità di ricevere medicinali nonché dalle proprie coltivazioni, molti semplicemente periscono. Il rapporto WPP documentava casi attorno la città di Mulia, che “(erano pronti) a essere ripetuti in tutto il West Papua”. Le attività del TNI “blocca[ro]no l’intero processo di democratizzazione indonesiano” e consolidarono “corruzione, militarizzazione e cultura dell’impunità per la prosecuzione dei crimini da parte dei militari e della polizia”.
Il periodo intercorso fino alle elezioni di questo mese è stato connotato da una nuova marea montante di rapporti su violenze in West Papua. Nonostante i disposti delle due Convenzioni sui diritti umani, le autorità indonesiane continuano a reprimere anche espressioni nonviolente di sostegno all’indipendenza. Ci sono almeno diciotto prigionieri politici in prigione per casi senza alcun dubbio pacifici, compreso il presenziare all’alza-bandiera del Movimento Papua per l’indipendenza con il drappo della Stella Mattutina.
Venerdì 3 aprile scorso si sono tenuti imponenti raduni pro-indipendenza nella città di Nabire e nel distretto di Wamena, sfidando tentativi della polizia di impedirli. Un terzo raduno, tenuto a Nabire il lunedì susseguente, degenerò in violenza, con nove dimostranti feriti da spari. Paula Makabory, esiliata a Melbourne, da dove gestisce l’Istituto per il Patrocinio e i Diritti Umani dei Papua, racconta:
“Rapporti ricevuti da Nabire indicano che lo scontro violento avvenuto lunedì 6 aprile fra le forze di sicurezza e i dimostranti pro-indipendenza è stato effettivamente istigato da un miliziano pro-indonesiano e altri papua che lavorano con le forze di sicurezza indonesiane. Che ci fosse personale delle forze di sicurezza posizionato negli edifici circostanti e armato, suggerisce chiaramente che lo scontro, la sparatoria e il ferimento di civili è stato programmato e attuato dalle forze di sicurezza indonesiane.”
Questo si verificò poco dopo  che rare immagini raggiunsero il mondo esterno,  mostrando autentici combattenti per l’indipendenza nell’atto d’issare la bandiera della stella Mattutina dichiarandosi pronti a morire per la loro terra se necessario. L’OPM, Organisasi Papua Merdeka (Movimento per un Libero Papua) fondato negli anni 1960 in opposizione al dominio di Jakarta su West Papua, fu rapidamente sopraffatto dall’apparato militare indonesiano e si ridusse a poca cosa, diventando solo fonte di occasionale irritazione. Tuttavia un film di 11 minuti sul programma della BBC Newsnight (3) li mostrava intenti a radunare un gran numero di uomini per essere ripresi dalla videocamera, e mentre marciavano in fila nella boscaglia per confluire in una postazione rurale sull’altipiano, la cui ubicazione rimaneva, per ovvie ragioni, segreta.
Il comandante ribelle, Goliat Tabuni, diceva all’intervistatore: “Questa è la nostra terra … quanti di noi sono morti? Siamo così pochi ormai”. Secondo il commento della reporter Rachel Harvey, l’esperta ex-corrispondente BBC da Jakarta, la resistenza armata era “frammentata e male equipaggiata”, ma significativa per il suo “simbolismo” più che per “la sua capacità di combattere”.
Il film di Newsnight ripercorre brevemente la storia del conflitto. “Strati successivi di ingiustizie si sono accumulate nei decenni” dice Harvey, a cominciare dal cosiddetto Atto di Libera Scelta che permise a Suharto d’impossessarsi sin d’allora del territorio. Quarant’anni fa un migliaio di papua furono costretti a votare pubblicamente in favore dell’integrazione con l’Indonesia. Questo avvenne parecchi anni dopo che gli USA avevano sponsorizzato colloqui fra l’Indonesia e gli olandesi, che possedevano il territorio come colonia nei primi anni ‘60. L’Accordo di New York del 1962 doveva provvedere a che tutti i papua votassero in un atto di auto-determinazione, ma l’effettiva procedura, attuata dopo anni di repressione politica, era un’impostura, e gli americani lo sapevano.
Fra i documenti ottenuti dal National Security Archive (NSA) degli USA c’è un telegramma dell’ambasciata USA del luglio 1969:
“L’Atto di Libera Scelta (AFC) in West Irian [il nome indonesiano per Papua] si sta svolgendo come una tragedia greca, con la conclusione predeterminata. Il principale protagonista, il governo d’Indonesia, non può né vuole permettere altra risoluzione che l’inclusione continua di West Irian nell’Indonesia. E’ probabile che aumenti l’attività dissidente ma le forze armate indonesiane saranno in grado di contenerla e, se necessario, sopprimerla”.
L’ambasciatore USA a Jakarta, Frank Galbraith, annotava il 9 luglio 1969 che passati abusi avevano stimolato un intenso sentimento anti-indonesiano e pro-indipendenza a tutti i livelli della società in Irian, lasciando intendere che “forse dall’85 al 90%” della popolazione “solidarizza con la causa di Papua libero”. Inoltre, osservava Galbraith, recenti operazioni militari indonesiane che avevano portato alla morte di centinaia o forse migliaia di civili, “avevano stimolato paure e voci di tentato genocidio fra la gente d’Irian”.
A quel tempo, l’ONU “annotò” l’Atto di Libera Scelta, col che il mondo esterno in effetti accettò la sovranità indonesiana su Papua. Uno dei primi atti di Suharto alla presa del potere era stata l’approvazione di una legge sugli investimenti stranieri, il cui primo beneficiario fu l’azienda di Freeport, che intendeva sviluppare la prospezioni di rame e oro. Quel che andava bene a Freeport andava apparentemente bene a Washington, la cui principale priorità diplomatica al tempo era che Papua fosse integrata nell’Indonesia. L’allora segretario di stato Henry Kissinger diede un consiglio segreto, come risulta dai documenti NSA, al presidente Lyndon B. Johnson, affinché non sollevasse alcuna questione in merito con il governo indonesiano.

Il Trattato di Lombok
E’ stata la posizione politica basilare degli USA e alleati a livello governativo, da sempre. Il secondo rapporto WPP succitato si concentra sul cosiddetto Trattato di Lombok, il nuovo accordo sulla sicurezza fra Indonesia e Australia, che arriva a proporre che ogni espressione di sostegno all’ indipendenza papua – anche entro l’Australia – si consideri come “una minaccia alla stabilità, sovranità o integrità territoriale dell’altro Contraente”, e qualcosa che l’Australia è pertanto impegnata a impedire.
Il trattato fu redatto apparentemente per riparare le relazioni con Jakarta dopo che l’ambasciatore indonesiano era stato richiamato da Canberra per protesta contro la decisione australiana di concedere lo status di profugo a un gruppo di 43 capi della lotta papua giunti in Australia in barca e richiedenti asilo. Tale decisione, nel 2006, confermava il riconoscimento da parte australiana che – secondo la dizione della Convenzione sui Profughi del 1951 – essi avevano di fronte “una fondata paura di persecuzione” nel proprio paese. Comunque, il trattato non reca menzione di diritti umani, libertà politica o libera espressione – tutti, apparentemente, esclusi dalla [nuova] relazione.
Per quanto riguarda la politica australiana prevalente, in effetti, la questione West Papua comincia a somigliare a quella dello Schleswig-Holstein del XIX secolo in Europa, della quale, secondo un detto famoso, tre soli uomini conoscevano la risposta: uno era pazzo, l’altro morto e il terzo aveva dimenticato. Quando il West Papua Project lanciò il suo rapporto sul Trattato di Lombok al parlamento di Canberra nel 2007, dei tre deputati che si degnarono di presenziare, uno si è dimesso, uno è morto e l’altra ha perso lo scranno.
I legislatori di altri paesi hanno dimostrato di essere persone dotate di maggior senso dei principi. Al parlamento britannico l’anno scorso ci fu il varo di International Parliamentarians for West Papua, sotto la guida di Andrew Smith (ex-ministro anziano, mio deputato locale a Oxford quando vivevo in GB). A Washington, la sotto-commissione per gli affari esteri della Camera per l’Asia e il Pacifico ha scritto recentemente a SBY nei seguenti termini:
“Egregio Presidente:
Nel 2005, su sua richiesta, sospendemmo il nostro sostegno al diritto all’auto-determinazione di West Papua al fine di darle tempo di attuare la legislazione sull’Autonomia Speciale approvata dal parlamento indonesiano nel 2001. Accogliemmo la promessa di tale legislazione e la sua personale assicurazione che il suo governo avrebbe finalmente accordato al popolo papua un’ equa porzione della grande ricchezza derivata dalle risorse Papua. Tuttavia, dopo tre anni, notiamo che il popolo di Papua, per voce di capi della società civile e religiosi papua come pure in ampie manifestazioni pubbliche, ha dichiarato l’Autonomia Speciale un fallimento.
Siamo anche delusi che il suo governo non abbia fatto sostanziali progressi nell’attuazione dell’ Autonomia Speciale. Mentre la sua amministrazione ha allocato fondi d’Autonomia Speciale per lo sviluppo papua, tali fondi non sono giunti al popolo papua che dopo oltre quattro decenni manca ancora perfino di rudimentali servizi sanitari e d’istruzione”.

Diversamente dal governo australiano, i membri della sotto-commissione cercarono di collegare i diritti dei papua con il protratto sostegno USA all’“integrità territoriale” indonesiana, un’espressione di rito per l’opinione nazionalista indonesiana. La lettera continua sostenendo che “Fare la cosa giusta con Papua vuol dire: a) attuare un piano di successo; b) aprire le vostre porte permettendo a parlamentari USA, personale ONU, e ONG l’accesso a Jayapura e al resto della provincia; e c) demilitarizzare il vostro approccio”. Questo avvenne dopo che era stato negato da truppe TNI l’accesso a West Papua al presidente della sotto-commissione, il parlamentare Eni Faleomavaega.
“Basarsi sulla forza per il mantenimento del controllo è controproducente per l’Indonesia” prosegue la lettera “e abusi di lunga data da parte delle forze di sicurezza hanno eccitato sentimenti di indipendenza fra la maggioranza dei papua”.

Discussione e dialogo
Domande, intanto: come si possono portare tali sentimenti in discussioni significative sul futuro di West Papua? Potrebbe esserci un modo di procedere efficace come quello che ha effettivamente portato autentica e ampia autonomia ad Aceh, all’estremità opposta dell’arcipelago? Ciò era argomento di un rapporto dichiaratamente umano e intelligente, edito l’anno scorso dall’Istituto Indonesiano delle Scienze, o LIPI, un ente sostenuto dal governo indonesiano, e intitolato Papua Road Map. Uno dei più grossi ostacoli a un autentico “dialogo” su una sistemazione giusta e durevole del conflitto, diceva, era la mancanza di alcuna conversazione di sostanza fra gli stessi capi papua, espressamente fra i capi provinciali e quelli “esterni al settore statale”.
Si sarebbe potuto nominare una terza parte internazionale come mediatore, suggeriva il LIPI, per dare potere a coloro che attualmente sono relegati nelle proteste di strada, del tipo visto a Nabire, perché si uniscano a un ampio dialogo su “questioni di violenza e abusi nei diritti umani, fallimento dello sviluppo e marginalizzazione dei papua indigeni”.
Il West Papua Project all’Università di Sydney sta ora preparando il suo contributo a questo processo con il progetto Papua Desk Survey, che documenta le esperienze specifiche di razzismo e violazione dei diritti umani nei confronti dei papua, nonché delle loro percezioni di come funziona il processo politico nell’ambito dell’Autonomia Speciale, e le loro aspirazioni per il futuro della provincia. Sono programmate pubblicazioni che almeno metteranno queste indicazioni sulla mappa, per coloro che si preoccupano di mantenersi informati.
L’azione di stimolo che il tema può arrivare a esercitare sul dibattito pubblico in generale – e la pressione, quindi, sui politici perché rimangano impegnati – dipenderà in parte dai giornalisti, seguendo l’esempio di Rachel Harvey e insistendo a filtrare le valutazioni dell’Indonesia attraverso la sua condotta storica e attuale in West Papua. Sono molti gli auspici promettenti che provengono dal paese proprio ora, certamente se si confrontano con i tempi bui del regime di Suharto. Il presidente Yudhoyono ha promesso, in alcuni suoi interventi del passato, di affrontare la problematica di Papua “pacificamente, giustamente e dignitosamente”. La comunità internazionale deve unirsi alla sotto-commissione parlamentare [USA] per indurlo a rispettare tali promesse, e “comunità” deve voler dire tutti, compresi giornalisti , sindacalisti, agenzie di soccorso e università – non solo governi.

Note
(1) Genocide in West Papua? Scaricabile da: http://www.arts.usyd.edu.au/centres/cpacs/docs/WestPapuaGenocideRpt05.pdf
(2) Blundering In. Scaricabile da: http://www.arts.usyd.edu.au/centres/cpacs/docs/blundering_in.pdf
(3) Per vedere il film: http://news.bbc.co.uk/1/hi/programmes/newsnight/7941787.stm (durata 11’ 31’’, ndt)

13.04.09
Traduzione italiana a cura di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: THE PLIGHT OF THE PAPUANS
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=1107