Bucare il carapace – Jake Lynch

Stiamo solo sprecando tempo? Ecco la sfida, per quelli fra noi attivi nel campo della costruzione della pace, da parte di due suoi personaggi fra i più rispettati, Simon Fisher and Lada Zimina. La loro Lettera aperta ai Costruttori di Pace (Open Letter to Peacebuilders, dal sito http://lettertopeacebuilders.ning.com si può scaricare sia la versione breve sia quella completa, di 49 pp., ndt) sostiene che questo dovrebbe essere il nostro momento. Le rivalità della guerra fredda sono retrocesse in un lontano ricordo, mentre la guerra calda come strumento di diffusione di pace e democrazia è stata del tutto screditata agli occhi del pubblico mondiale dalle atrocità dell’Iraq e dal pantano dell’Afghanistan. Ci troviamo in una “finestra di opportunità”, sostengono, “affinché il peacebuilding trasformativo diventi maggiorenne e venga preso sul serio da governi, movimenti sociali e mondo degli affari indistintamente, mentre grosse crisi continuano a resistere a soluzioni  militari e i vincoli ambientali globali si aggiungono per produrre nuovi conflitti intrattabili”.
A meno che, essi sostengono, non venga preso seriamente in considerazione. Il problema si presenta sotto forma di un ben noto paradosso: nei due decenni dalla caduta del muro di Berlino, il numero di conflitti violenti è costantemente calato, secondo lo Human Security Report (Rapporto sulla Sicurezza Umana, si può scaricare il rapporto 2005, al quale si riferisce l’autore, all’indirizzo http://www.hsrgroup.org/, ndt) edito annualmente dalla Simon Fraser University del Canada; ma il denaro speso in armamenti nello stesso periodo è spietatamente aumentato, come risulta dalle statistiche redatte dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI). Abbiamo più pace, almeno nel senso ristretto di diminuzione della violenza diretta, ma non ci godiamo alcun dividendo di pace. Gli elementi delle strutture istituzionali in cui agiamo – quelli identificati da Fisher e Zimina – tendono a presentare un impenetrabile carapace alla visione e alle prospettive del peacebuilding.
D’altro canto… ho passato i giorni scorsi a una conferenza a Cleveland, Ohio, per progettare una National Peace Academy (NPA) per gli Stati Uniti. L’intenzione è di creare una base di risorse perché la pace possa portare i propri frutti in qualunque settore d’attività, dalla definizione delle politiche governative al giornalismo, all’industria dei giocattoli (proprio così). Lo scopo principale vuole essere quello di diffondere l’educazione alla pace, sia proponendo specifici corsi accademici, probabilmente a livello post-laurea, sia inserendoli nei curricula scolastici. Ma dovrebbe anche, secondo molti dei partecipanti, rendere disponibili risorse – nella fattispecie di formazione, finanziamenti e connettività trasparente– agli operatori e costruttori di pace degli USA e oltre.
I procedimenti sono facilitati usando una tecnica chiamata Indagine Valutativa (Appreciative Inquiry, AI), dal suo principale esponente, David Cooperrider, che fa parte della Weatherhead School of Management presso la locale Case Western Reserve University. Contrariamente alla frase con cui inizia la Lettera ai Costruttori di Pace, veniamo incoraggiati ad accentuare il positivo; a identificare, di fatto, il “nucleo di cambiamento positivo” alla base del nostro impegno e delle nostre attività. L’entusiasmo mostrato dai circa 150 partecipanti ha comportato più che una flebile eco del grido d’azione per la campagna di Barack Obama, che risuona ancora in America: “Yes we can!”.
In effetti, parte della terminologia di AI suona un po’ diversa quando sia vista attraverso il riflesso ironico che è tradizionalmente più intenso altrove nel mondo anglofono. La conferenza è stata condotta per successive fasi riflessive chiamate Scoperta, Sogno, Disegno e Destino. Abbiamo guardato un servizio speciale del programma ABC Nightline sugli sforzi di un’azienda di design commerciale per concepire ex-novo il carrello della spesa, come esempio dell’approccio di  rapida progettazione di un prototipo che ci veniva chiesto di applicare.

Una preoccupazione crescente

Ma, naturalmente, è facile deridere, meno facile fare. La preoccupazione per la pace sta crescendo nel mondo accademico. Un articolo dell’ottobre scorso nell’International Herald Tribune indicava in oltre 400 i programmi universitari di studi per la pace a livello mondiale, e ognuno di quelli che conosco sta ampliandosi per accogliere altri studenti, un maggior numero di docenti e per fare più ricerca. La creazione di Accademie per la Pace potrebbe accrescere le credenziali e la rispettabilità di questi studi nel mondo accademico e aiutare i costruttori di pace nel mondo reale a trovare il linguaggio, le idee, il sostegno e i contatti per applicare le proprie intuizioni secondo la modalità indicata da Fisher e Zimina.
Abbiamo fatto molta strada da quando costituimmo il nostro centro, all’università di Sydney, che richiese una campagna di promozione da parte degli studenti e del personale. Facemmo notare che dentro le sacre mura dell’università si insegnava ogni sorta di materia, perché quindi non anche la pace? La risposta da parte delle autorità accademiche fu di acconsentire, pur con l’aggiunta del termine conflitto, alla costituzione di un Centro Studi su Pace e Conflitti.
I laureati che hanno seguito questi corsi sviluppano la loro carriera in agenzie di cooperazione, organizzazioni umanitarie, centri di ricerca, dipartimenti governativi e simili, nonché nelle università. E qui in Australia si sta infittendo la rete di contatti con settori governativi, che possono mostrare che la nostra competenza sta finalmente cominciando a essere considerata col dovuto rispetto e serietà. Recentemente, abbiamo perfino ricevuto il primo contatto in assoluto, mediante il servizio carriere universitario, da un datore di lavoro interessato all’opportunità di una presentazione in CPACS, l’organizzazione australiana di intelligence per la difesa (Defence Intelligence Organisation, DIO).
(Ne sono al corrente perché una delle nostre allieve recenti lavora al Servizio Carriere e alla mia domanda su che cosa fare in merito,  ha suggerito di fornire un elenco di studenti degli Studi su Pace e Conflitti al DIO; al che ho replicato che se lavorano bene dovrebbero già averlo…)
Scherzi a parte, l’iniziativa NPA è un equivalente più in grande della nostra attuale serie d’incontri, che hanno lo scopo di rafforzare il senso di coerenza nella comunità accademica di studi per la pace in Australia e Nuova Zelanda, e portarci in contatto con datori di lavoro. Fra i partecipanti, a parte gli universitari, c’erano rappresentanti del Ministero Affari e Commercio Esteri e dell’Accademia Australiana delle Forze di Difesa.
A giudicare dalle apparenze, è una buona notizia, forse non stiamo proprio sprecando il nostro tempo, dopo tutto. Ma il messaggio di Fisher e Zimina è più stimolante: a loro parere, il problema non è il contatto formale con gli ambienti ufficiali, ma il contenuto che riusciamo a far passare. In termini specifici: “molti attivisti nel campo della costruzione della pace non posseggono più la visione che ispirava i pionieri, e si stanno adattando a quello che possiamo chiamare un approccio tecnico alla trattazione del conflitto, in contrasto con l’approccio trasformativo che caratterizzava il settore agli inizi”.
Il che, a loro parere, spesso comporta la “co-optazione” di gruppi per la pace inducendoli a un’ “indebita deferenza al potere politico ed economico”. E’ una sindrome familiare anche agli attivisti ambientalisti. A metà degli anni ‘90, la preoccupazione per i sempre crescenti volumi di traffico insieme all’emergere di prove sulla gravità dei cambiamenti climatici di natura antropica e degli effetti sanitari del vivere nelle città britanniche piene di fumi portò gruppi come Transport 2000 a credere che fosse arrivato il loro momento, che quella fosse la loro finestra d’opportunità. Per di più era chiaramente in corso un cambio di governo e il nuovo partito laburista in ascesa era ora disposto ad ascoltare là dove i conservatori in carica avevano fatto orecchie da mercante.
Questo indusse gli attivisti a dedicare gran tempo ed energia a produrre rapporti informativi per ministri e funzionari, che raccoglievano prove e argomentazioni in favore di politiche urbanistiche e di trasporto più sostenibili. Sebbene ci fosse indiscutibilmente qualche influenza sull’orientamento del governo, molti fra coloro che erano coinvolti pensarono che non ne fosse valsa la pena e che la loro precedente posizione critica fosse risultata fatalmente spuntata. Quindi c’è il rischio che la stessa cosa succeda con il peacebuilding.

La sfera pubblica

Uno schema teorico suggestivo e utile per considerare tale sindrome è stato fornito dal filosofo tedesco Jürgen Habermas nei suoi scritti sulla sfera pubblica, dove sostiene che noi umani condividiamo la proprietà innata della “razionalità comunicativa”. In parole povere, se possiamo sederci attorno a un tavolo su una base grossolanamente uguale liberandoci dai preconcetti, possiamo scambiare “asserzioni giustificate” derivandone fra noi una concorde “cornice morale”. Ecco come formiamo le nostre “opinioni pubbliche”. Il problema, suggerisce Habermas, è che tale sfera pubblica è stata trasformata, sicché può ora essere facilmente dominata da distanti interessi acquisiti che pongono in anticipo le domande per averne le risposte che vogliono per servire alla propria agenda; cosa che chiama razionalità “cognitivo-strumentale” basata su “calcoli d’utilità egocentrici”.
C’è una serie televisiva della ABC australiana che ne cattura splendidamente il senso: The Hollow Men [Gli uomini vacui] segue le avventure dell’Unità, gruppo di consulenti politici del Primo Ministro (che non appare mai, ma al quale si allude solo sempre con le sue presunte preferenze, chieste in aiuto delle intenzioni concorrenti dei vari personaggi). Ogni episodio comincia con Murph, l’eroe, che dà consiglio su una specifica azione governativa deducendolo rapidamente da principi primi. Poi intervengono gli interessi di membri e clienti del governo a far sì che lui e i suoi colleghi debbano metter su un caso proprio per procedere al contrario. I problemi che affrontano hanno una rilevanza anche nella realtà effettiva, compresa la difficoltà di reclutamento per le forze armate e  la scarsa considerazione della minaccia di un qualche importante attacco terroristico.
Qual è la risposta, allora? Deve inevitabilmente arrivare in vari passaggi. C’è qui un trucco difficile di cui abbiamo discusso, che, se può scattare, potrebbe rispondere a Fisher e Zimina, ed espandere le nostre forze esistenti con il metodo dell’Indagine Valutativa. In pratica, chi frequenta queste istituzioni apparentemente impervie sente acutamente il divario fra ciò che è e quel che potrebbe essere. Funzionari pubblici, giornalisti, perfino personale militare, possono essere attirati in conversazioni di critica al sistema, se troviamo il linguaggio giusto per farlo in ciascun caso. Per critica al sistema intendo che ci si ponga in disaccordo con quello che Fisher e Zimina chiamano “il modo di funzionare del mondo, caratterizzabile da due espressioni: egemonia geopolitica e affari globalizzati, alle spese del pianeta e di gran parte dei suoi abitanti”.
Lo scopo del loro testo è esplicitamente di cantare col coro, ovviamente, come suggerisce il nome. Per rivolgerci ad altri settori di pubblico dobbiamo entrare nei gerghi equivalenti e nelle premesse rispettive, e lavorare con loro per trovare o creare punti di forza comuni a partire dai quali si possano fare delle verifiche dall’esterno. Nel mio campo del giornalismo di pace la parola pace non è sempre utile come battuta d’apertura: può sapere infatti di confronto. Da ex-professionista, ho scoperto di poter parlare a redattori professionisti e reporter di altri paesi, e far arrivare le prospettive del giornalismo di pace nella loro agenda – compreso alcune certamente critiche al sistema –  ma questo comporta sovente che la frase iniziale sia più inclusiva. Reporting the World era un progetto del genere, avviato a Londra alcuni anni fa; Media Mirror è quello che viene proposto attualmente a Sydney, e deve ancora trovare un sostenitore.
Un altro nostro collaboratore, l’ex-regista Ari Cowan, rievocava una presentazione da lui fatta a piloti della marina USA – ‘Top Guns’ – quando il suo discorso introduttivo delle prospettive di pace fu sfidato da un aviere anziano che s’intromise con una generosa porzione di gergo impenetrabile ai non iniziati. Fu allora che Cowan se ne venne fuori con il suo trucco di sbarramento sotto forma di  gergo messo assieme anni prima durante il suo addestramento da pilota di caccia, un aspetto della sua formazione precedente che non aveva svelato. Una volta accettato come uno di loro, il suo interlocutore critico arrivò al punto di agire da “sostenitore” del suo messaggio verso il resto del pubblico.
Questo non deve significare co-optamento o compromesso. Kai Jacobsen, direttore del Peace Action, Training and Research Institute (Istituto di Ricerca, Formazione e Azione di Pace) in Romania, anche lui presente alla conferenza di Cleveland, si è abituato ad adattare il suo messaggio a tipi di pubblico diversi, dagli ambientalisti di base al segretariato del Commonwealth. Circa l’85% del contenuto rimane invariato, mi ha detto. Il trucco consiste nel fare quel che ha definito “peacemaking pratico”, che comporta l’ascolto attento delle preoccupazioni espresse dai partecipanti quale punto d’attacco della loro critica al sistema in cui si trovano: come si manifesta nell’attività lavorativa quotidiana?
Muniti di questa consapevolezza e del giusto tipo di nozioni di base sul conflitto, possiamo allora porre la domanda che  David Cooperrider definisce “domanda positiva incondizionale”. AI presuppone che “ogni sistema vivente abbia vari ricchi e ispiranti motivi inutilizzati del positivo. Combinando l’energia di questo nucleo direttamente con qualunque agenda di cambiamento si producono improvvisamente e democraticamente cambiamenti impensabili”.
E’ un’idea davvero ispiratrice e la National Peace Academy dovrà attingervi abbondantemente per prosperare come qui si spera e si crede che possa avvenire. E’ una risposta infine a un ordine mondiale che Fisher e Zimina chiamano “in flusso” e via via “più complesso e meno soggetto alla dominazione di un qualunque gruppo o stato”, qualcosa che “il mondo dei grandi affari e dell’alta politica concorda nel considerare che sta diventando sempre più difficile da gestire”. Il che cambia la logica strumentale che ha finora marginalizzato il peacebuilding, nelle sue forme più stimolanti.
La finestra di opportunità si sta aprendo un po’ di più.

(da Cleveland, Ohio, USA – 09.03.09)
Traduzione italiana a cura di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

Titolo originale: PIERCING THE CARAPACE
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=921