Biomasse – Angelo Chiattella

Uno dei primi fondamentali passi della civiltà umana fu l’uso e il controllo del fuoco alimentato da legno e sterpapaglia. L’impiego della biomassa come combustibile è quindi strettamente intrecciato all’evoluzione e alla storia dell’umanità, tanto che ancor oggi molta parte di essa dipende fortemente da questa risorsa energetica.
Diversamente dalle altre fonti d’energia rinnovabile la biomassa non è una risorsa primaria omogenea, ma è disponibile in varie forme ognuna con caratteristiche, sotto il profilo energetico, alquanto differenti l’una dall’altra. Molto schematicamente si possono individuare almeno quattro gruppi principali: residui forestali, residui dell’industria agroalimentare e agroindustriale, colture specifiche per fini energetici ed infine componente organica proveniente dalla raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani
Attualmente si calcola che  le biomasse, principalmente sotto forma di combustibili solidi ma anche di biogas e di biocarburanti,  soddisfino il 12÷15% degli usi energetici primari nel mondo, per un ammontare di circa 55 milioni di TJ/anno (1.230 Mtep/anno). L’impiego di tale fonte, la cui parte attualmente utilizzata rappresenterebbe secondi alcuni solo il 40% circa del potenziale utilizzabile con le conoscenze e le tecnologie di cui attualmente si dispone, mostra, però, un forte grado di disomogeneità tra i vari Paesi.
I Paesi in via di sviluppo, che assorbono l’87% di questo totale,  ricavano, nel complesso, mediamente il 38% della propria energia dalle biomasse, con circa 48 milioni di TJ/anno (1.074 Mtep/anno), ma in molti di essi tale risorsa arriva a soddisfare fino al 90% del fabbisogno energetico interno, in gran parte attraverso la tradizionale, ed sotto il profilo energetico assai poco razionale, combustione diretta di legno, paglia e rifiuti animali [Rapporto ITABIA (Italian Biomass Association)-2003].
Anche nel mondo industrializzato il ruolo delle biomasse come risorsa energetica è, come risulta da queste cifre, tutt’altro che secondario, e questo non solo per il romantico ed alquanto diffuso fuoco del caminetto.
Nell’Unione Europea, per citare il nostro contesto economico seppure con dati non recentissimi, la produzione di energia termica e/o elettrica da materiali di origine legnosa, ovvero oltre che dal legno stesso – sempre meno – dagli scarti, sia solidi che liquidi, delle industrie e dell’agricoltura ha raggiunto nel 2004 i 55,4 Mtep , ovvero il 3,2 %  della produzione totale di energia nell’ambito comunitario, continuando a crescere sensibilmente negli anni successivi (attualmente sembra aver raggiunto il 5% circa).
In particolare, sempre secondo dati di uno studio pubblicato su Systèmes Solaires,
le Journal des Energies Renouvelables, è nella produzione di energia elettrica che l’uso di combustibili di origine legnosa ha segnato, nell’UE, la crescita più rapida raggiungendo, sempre nel 2004, i 35 TWh  grazie in special modo al loro impiego negli impianti di cogenerazione, ovvero di produzione combinata di elettricità e calore sia per usi industriali che civili.
Ovviamente anche all’interno dell’UE il ricorso a questa risorsa energetica non è omogeneo. A farne maggiore uso sono Paesi  come la Svezia, la Finlandia ed l’Austria, dove particolarmente sviluppate sono l’industria del legno e della carta, oppure Paesi come la Francia, la Germania e la Spagna ancora dotate di ampie aree boschive.
In questi Paesi lo sfruttamento dei materiali legnosi a fini energetici ha determinato lo la nascita e lo sviluppo di un’industria hi-tech nel campo della progettazione e realizzazione  di caldaie ed impianti di cogenerazione specifici questo tipo di combustibile. Tali impianti oltre ad essere  in grado di soddisfare le più svariate esigenze di potenza, da quelle di tipo domestico a quelle industriali, sono caratterizzati da una forte componente innovativa interna che favorisce l’introduzione sul mercato di sempre nuovi modelli ad efficienza più elevata.
La penetrazione e l’affermazione di queste nuove tecnologie volte alla valorizzazione energetica  delle biomasse sono allo stato attuale ancora piuttosto lente e faticose, ma i vantaggi economici ed occupazionali, di quelli energetici ed ambientali ce ne occuperemo in dettaglio più avanti, che già si intravedono sono nel complesso promettenti.

Oltre ad essere divenuti concorrenziali con gran parte degli altri combustibili presenti sul mercato, in Francia si valuta, per esempio, che il settore legato all’impiego delle biomasse per la produzione di energia  interessi oltre 20.000 posti di lavoro, in gran parte concentrati, cosa tutt’altro che irrilevante, in zone rurali e montagnose. In Svezia questi posti lavoro sarebbero tra i 15.000 e i 18.000, mentre in Germania supererebbero le 30.000 unità.
Ma cosa significa concretamente l’impiego delle biomasse a fini energetici? Per chiarezza di esposizione possiamo suddividere quelli che sono attualmente i più diffusi impieghi di questa fonte d’energia rinnovabile in tre filoni principali, e cioè:
biomasse per usi termici,
biomasse per la produzione di elettricità,
biocarburanti per i trasporti.

Biomasse per usi termici
L’impiego della biomassa per usi termici, in pratica riscaldamento ambientale e acqua calda per usi sanitari, è, nel caso di impiego di materiali legnosi solidi, assai diffuso nel mondo in quanto richiede mezzi assai semplici e poco costosi. Si tratta però di tecniche che nel complesso presentano rendimenti termici alquanto bassi e che possono spesso essere causa di inquinamenti ambientali non trascurabili, anche se un recente studio dell’ADEME (Agence de l’Environnement et de la Maîtrise de l’Energie), apparso nel 2005, dimostra che, in termini di bilancio d’emissione di gas climalteranti, vi sia un netto vantaggio dell’intero ciclo del legno rispetto ai cicli di tutte le fonti d’energia tradizionali.
Un esempio significativo di uso ancora poco adeguato della risorsa legno è quello della Francia, uno dei più importanti Paesi industrializzati e nel contempo Paese leader in Europa, almeno nel 2004, nello sfruttamento dei materiali legnosi a fini energetici. Dei 9,18 Mtep ricavati attraverso questa risorsa, 7,4 Mtep , ovvero l’80% circa,  risultavano essere essenzialmente dovuti all’uso del legno per il riscaldamento ambientale domestico. In altri termini, circa 5 milioni di abitazioni francesi risultavano, sempre a quella data, riscaldate bruciando il legno nei più diversi modi: dai caminetti aperti o chiusi (72%), alle stufe (21%), alle piccole caldaie individuali (6%).
Caratteristica comune di gran parte questi sistemi il loro scarso rendimento: 40-50 % nei migliori dei casi, mentre i nuovi impianti di combustione di questo materiale presenti sul mercato offrono rendimenti di oltre il 65% ovviamente con prestazioni equivalenti o superiori, e con emissioni di gas climalteranti  più contenute.
Di qui lo sforzo di gran parte dei Paesi dell’UE di incentivare, tramite sgravi fiscali, l’introduzione di questi nuovi impianti individuali di riscaldamento domestico la cui caratteristica fondamentale è l’uso, come combustibili, di pellets standardizzati, ovvero cilindretti di segatura pressata e trafilata ricavata da scarti industriali (2 kg di pellets corrispondono al valore calorifero di circa 1 litro di gasolio), o di cippati, ovvero residui e scarti forestali ridotti in scaglie con dimensioni variabili da alcuni millimetri ad un paio centimetri.
Quasi incredibilmente, il Paese più virtuoso dell’Ue in questo processo innovativo è l’Italia dove, secondo dati del 2008, le stufe e le caldaie che fanno uso di questi tipi di combustibile hanno conosciuto, negli ultimi anni, una notevole diffusione nel riscaldamento ambientale di piccola taglia raggiungendo il primato europeo di oltre 700 mila unità.
Il successo di questo tipo di impianti è dovuto a diversi fattori. Il pellet è nel complesso economico, di facile stoccaggio ed impiego, e  la sua combustione  è particolarmente efficiente. Si tratta infatti di un prodotto molto standardizzato con un’umidità stabile, attorno all’8-9%, che rende il processo d’incenerimento semplice ed con una resa termica sensibilmente maggiore rispetto al legno naturale, che spesso presenta caratteristiche di umidità e di resa alquanto variabili.
Sotto il profilo ambientale, l’anidride carbonica emessa nel corso della combustione equivale a quella assimilata dall’albero nella fase di accrescimento, per cui almeno in questa fase il pellet può essere considerato “CO2 neutrale”. Se però si considera la CO2 emessa per la sua produzione e per i vari trasporti, questa neutralità si rivela solo in parte reale.

Inoltre non bisogna dimenticare che la combustione del legno e dei suoi derivati, per quanto ottimizzata, comporta comunque l’emissione, a parte la CO2 , di altri gas inquinanti quali ossido d’azoto,  monossido di carbonio, alcuni idrocarburi, composti organici volatili, particolati di varia natura, ecc. Nel caso quindi di impianti di grossa taglia il ricorso a dispostivi per l’abbattimento fumi è da considerarsi comunque necessario.
Su questa questione dell’impatto ambientale e sanitario va però in conclusione detto che gli studi internazionali sulle emissioni derivanti dalla combustione di biomasse legnose concordano sul fatto che, tra tutti gli impianti che sfruttano tale risorsa, quelli a pellets sono senz’altro i più virtuosi.
L’introduzione di queste nuove tecniche nel riscaldamento ambientale domestico è indubbiamente una cosa molto positiva, ma si tratta anche di un processo di ammodernamento alquanto lento, che richiede tempi lunghi. Preferibile quindi, secondo gli estensori di un recente documento UE (Comunicazione della Commissione: Piano d’azione per la biomassa {SEC(2005) 1573), concentrare le risorse per espandere l’impiego della biomassa nel teleriscaldamento (riscaldamento collettivo), di cui in Europa già usufruiscono oltre 61 milioni di cittadini, e che meglio si presta, nel caso di impianti di media-grande taglia che usano combustibili fossili, alla riconversione nelle nuove tecnologie di combustione di questa risorsa rinnovabile.
Le potenze degli impianti di questo tipo che producono solo energia termica possono variare da alcune centinaia di kW ad alcune decine di MW: il limite della taglia superiore degli impianti industriali a biomasse deriva da fattori sia di carattere tecnico sia organizzativo-gestionale della filiera legno o di altri tipi di biomasse.
I vantaggi offerti dagli impianti di teleriscaldamento, rispetto a quelli individuali, sono molteplici, e tra essi i più importanti sono: i minori costi di gestione e produzione del calore, i minori consumi complessivi di combustibile e le maggiori possibilità di controllo dell’inquinamento ambientale attraverso il  controllo centralizzato  del processo di combustione. Ma oltre a  tutto ciò di grande importanza sotto il profilo energetico è la possibilità che  essi offrono di poter ricavare dal processo di combustione non solo calore, ma anche elettricità. Si tratta in questo caso dei cosiddetti impianti di cogenerazione, che sempre più si stanno diffondendo nell’ambito UE e nel mondo industrializzato.
E ciò non solo grazie alla loro capacità di essere facilmente adattabili ad  una vasta gamma di combustibili tra cui, appunto, la biomassa, ma anche grazie alla loro convenienza economica. A seconda infatti del tipo di impianto e della relativa tecnologia impiegata, i rendimenti netti termici variano tra il 50% e il 60%  a cui vanno sommati quelli elettrici che variano tra il 18% e il 25%.

Biomasse per la produzione di elettricità
Sulla spinta dell’esigenza, sempre più pressante per il mondo industrializzato di trovare,  per le ragioni ben note, quante più alternative possibili ai combustibili fossili, negli ultimi venti anni sono state messe a punto e rese operative svariate tecnologie in grado di ricavare in modo efficace calore ed energia elettrica dalla combustione di quasi tutti i tipi di biomasse.
Queste tecnologie possono essere, allo stato attuale, raggruppate nelle seguenti principali tipologie:

impianti a ”griglia” (fissa o mobile) solitamente impiegati per la combustione di paglia, cippato e rifiuti. La potenzialità di questi impianti è relativamente bassa, con taglie che partono da circa 2 MWe per arrivare a poco oltre i 20 MWe. Questi impianti si sono dimostrati particolarmente vantaggiosi sotto il profilo ambientale e per lo sviluppo delle zone rurali.
Impianti a ”tamburo rotante”, utilizzati per applicazioni in cui il combustibile ha caratteristiche termo-fisiche particolarmente povere e contiene elevati carichi di inquinante.
Impianti a ”doppio stadio”, in cui si attua preliminarmente la gassificazione e la pirolisi del materiale in una prima camera, a cui segue una completa combustione dei prodotti gassificati in una seconda, costituente il corpo principale del trasferimento dell’energia al fluido vettore.
Impianti a”letto fluido”.  Questo  tipo di tecnologia è molto diffusa nei grandi impianti industriali di cogenerazione per la sua flessibilità nell’impiego di combustibili a seconda della convenienza economica e che può riguardare non solo biomasse di vario genere, ma anche carbone, ligniti, olii di scarto, rifiuti urbani.

La produzione di bioelettricità che avviene nell’area UE, grazie a queste tecnologie, è riassunta nella sottostante tabella dove si può osservare quest’attività è particolarmente sviluppata nei Paesi centro-settentrionali, dove sono anche maggiormente sviluppate l’industria del legno e della produzione di carta, e che il tasso di crescita di quest’applicazione è alquanto promettente.

Produzione elettrica da biomassa nell’UE (in TWh)
2003     2004     Crescita %
1.Finlandia             9,385     9,858     5,0
2.Svezia                 5,267     6,091     15,6
3.Germania            1,500     3,900     160,0
4.Spagna                2,116     2,214     4,6
5.Gran Bretagna     1,539     1,949     26,6
6.Olanda                1,400     1,834     31,0
7.Danimarca           0,962     1,760     83,0
8.Francia                1,714     1,737     1,3
9.Austria                1,590     1,663     4,6
10.Portogallo         1,112     1,082     -2,7
11.Ungheria           0,109     0,664     509,2
12.Polonia             0,398      0,610     53,3
13.Rep. Ceca         0,373     0,593     59,0
14.Belgio               0,377     0,417     10,6
15.Italia                 0,347     0,400     15,3
…….            …….    ……..    …..
……..            …….    ……..    ……
Tot. Europa a 25.   28,370     34,965     23,2
(EurObserv’ER 2005)

Se, per quanto riguarda la produzione di bioenergia, la situazione dei Paesi industrializzati del resto del mondo è grosso modo confrontabile con quella dell’UE, ben diverso è quanto accade nei Paesi del terzo Mondo. Qui, come accennato, la biomassa costituisce ancora la principale,  e talvolta unica, risorsa energetica per il soddisfacimento di bisogni primari quali la cottura dei cibi ed il riscaldamento ambientale che avviene quasi sempre attraverso il ricorso a tecniche assai poco efficienti(< 20% di resa), quando non addirittura rudimentali.

L’introduzione delle tecnologie, di cui si è accennato in precedenza, in questi Paesi, nella maggioranza dei quali la biomassa è potenzialmente una risorsa energetica importante, potrebbe dare un impulso fondamentale al loro decollo economico, mitigando la carenza energetica che li affigge e che quasi sempre è alla base di gran parte delle loro difficoltà strutturali. Ma questo  argomento dello sfruttamento delle fonti d’energia rinnovabile nei Paesi del Terzo Mondo, è una questione assai vasta e complessa che non è possibile affrontare in questa sede, ma che forse meriterebbe di essere essa stessa uno specifico argomento di un seminario dedicato al trasferimento in generale delle tecnologie appropriate .

Sotto il profilo ambientale anche la bioelettricità non è per definizione priva di conseguenze. Come già accennato in precedenza, la combustione di biomassa comporta comunque l’emissione di  gas nocivi per l’ambiente e per la salute collettiva, che però i grandi impianti di cogenerazione sono in grado di contenere ed abbattere assai più efficacemente che nel caso dei combustibili fossili.

In particolare occorre ricordare che, oltre alla riduzione di CO2, l’uso della biomassa comporta soprattutto una minore emissione di SO2 (biossido di zolfo) che significa una riduzione delle piogge acide. Secondo alcuni, infine, i boschi creati a fini energetici  favoriscono una crescita della biodiversità della fauna e della flora locali rispetto alle tradizionali destinazioni a pascolo o a coltivazioni varie.

Biocarburanti per i trasporti
Gli usi a fini energetici delle biomasse fin qui considerati sono in definitiva del tutto analoghi a quelli che si hanno con le altre principali fonti d’energia rinnovabile. Calore e/o energia elettrica, sia pure con rendimenti, costi e quantità assai  differenti l’una dall’altra, sono forniti dal solare termico e fotovoltaico, dall’idroelettrico, dall’eolico e dalla geotermia.
Rispetto a queste fonti, la biomassa presenta però un’ulteriore potenzialità che ha contribuito non poco negli ultimi tempi a porla al centro dell’attenzione e del dibattito mondiale sulla questione energetica: la possibilità, unica finora in questo campo, di fornire un’alternativa reale all’uso della benzina come carburante del trasporto su gomma.
Non si tratta certo di una scoperta recente. Non bisogna infatti dimenticare che i primissimi motori a combustione interna (Barsanti-Matteucci, Lerner) erano alimentati non da benzina, che ancora non esisteva, ma da gas e da alcol, e che il primo motore realizzato da Diesel era alimentato da olio di arachidi, mentre la prima macchina realizzata da Ford, agli inizi del ‘900, funzionava anch’essa ad alcol.
Come ben noto, l’alcol etilico, o meglio etanolo, è una sostanza liquida che si ottiene attraverso il processo di fermentazione di diversi prodotti agricoli ricchi di carboidrati e zuccheri quali i cereali (mais, sorgo, frumento, orzo), le colture zuccherine (bietola e canna da zucchero), la frutta, le patate ed infine per distillazione del mosto fermentato.
Nonostante i suoi positivi esordi, l’interesse della nascente industria automobilistica mondiale per il bioetanolo scemò però rapidamente in conseguenza della crescente ed enorme disponibilità di benzina a basso costo, determinata dalla scoperta di grandi giacimenti petroliferi e dalla messa a punto di più convenienti processi di raffinazione del greggio.
A parte quindi la parentesi costituita dalla Seconda Guerra Mondiale, in pratica solo dopo lo shock petrolifero del 1973-74 l’interesse per questo biocarburante ricominciò ad emergere. Dopo tale data, a seconda degli andamenti del mercato del petrolio, alcune compagnie petrolifere  iniziarono a mettere in commercio benzina contenente  il 10% di etanolo, il cosiddetto gashol, avvalendosi delle agevolazioni fiscali, a fini anche di tutela ambientale, di volta in volta offerte dai governi di molti Paesi per l’impiego di carburanti alternativi al petrolio.
L’etanolo infatti presenta allo stato attuale un costo di produzione mediamente più elevato, come vedremo meglio in dettaglio più avanti, rispetto a quello della benzina. Inoltre il contenuto energetico di un’unità di etanolo è solo il 67% di quello di un’unità di benzina, mentre nel caso del biodiesel questo rapporto sale all’86% rispetto al gasolio.
Con l’impennata del prezzo del petrolio dell’ultimo decennio lo sforzo per sostituire la benzina con il bioetanolo da sporadica e marginale pratica aziendale è diventato, in alcuni Paesi, un obbiettivo nazionale, sulla scia anche di quanto successo in Brasile, dove circa trenta anni fa era stato avviato  un vasto piano di sviluppo della produzione di bioetanolo dalla canna da zucchero.
Attualmente in questo Paese le auto alimentate a bioetanolo rappresentano una grossa parte del mercato e, per la prima volta, la vendita di etanolo, intorno ai 16 miliardi di litri, ha superato quella della benzina, contribuendo in modo determinante  a rendere il Brasile autosufficiente per quanto riguarda il suo fabbisogno petrolifero.
Nel 2007, sotto la spinta della perdurante instabilità del Medio Oriente e della sensibile crescita dei prezzi del petrolio, il Congresso degli Stati Uniti , sollecitato fortemente dal governo Bush, varò un nuovo imponente piano di incentivazione della produzione di bioetanolo ricavato dal mais al fine dichiarato di alleggerire la dipendenza del sistema dei trasporti del Paese dal petrolio e nel contempo conquistarsi il favore degli agricoltori interessati. Le nefaste e devastanti conseguenze di tale decisione sul mercato modiale dei cereali,  e di conseguenza, sulla vita di centinaia di milioni di persone sono ancor oggi sotto gli occhi di tutti, anche se in parte attenuate dalla crisi finanziaria  scoppiata nel 2008 e dalla diminuita capacità speculativa del capitale finanziario internazionale.
Purtroppo non è possibile in questa sede  affrontare ed approfondire come si dovrebbe questa questione. Tuttavia per evidenziare l’irrazionalità almeno tecnico-scientifica di tale decisione ritengo sia suffiente riportare alcuni dati tecnici  che, secondo me, dovrebbero dovrebbero contribuire non poco far chiarezza, sia pure solo sotto il profilo energetico,   su quelle che allo stato attuale sono le reali potenzialità dei biocarburanti, nonché soprattutto su quelli che sono i loro limiti strutturali.
Questi dati sono tratti da alcune interessanti schede tecniche, preparate da autorevoli istituzioni statunitensi, come ad esempio il Department Of Energy,  e pubblicate  sul numero di Ottobre  del 2007 della famosa rivista National Geographic  ad integrazione  di un servizio svolta su tale argomento.
Iniziamo dal bioetanolo da mais, che è stato in definitiva il pretesto scatenante della speculazione cerealicola dello scorso anno. I dati sono purtroppo espressi nel sistema di misura statunitense, per cui occorre tener presente che un gallone equivale a 3,79 litri, mentre una libbra equivale a 0,45 kg .
Nel luglio del 2007 il prezzo al dettaglio della benzina era negli USA pari a 3,03$ al gallone, mentre il prezzo di un gallone di etanolo da mais era pari a 2,62$ ; per avere però la stessa equivalenza energetica della benzina (ricordate? il contenuto energetico di un’unità di etanolo è solo il 67% di quello di un’unità di benzina) occorre una maggiore quantita di etanolo, che tradotto in dollari significava  salire da 2,62$ a 3,71$.
Per quanto riguarda il decisivo aspetto del  confronto tra energia complessivamente spesa ed energia ricavata,  la scheda rivela che  per ogni unità di energia fossile impiegata si ricava dall’etananolo da mais che ne deriva una quantità di energia  pari a solo 1,3 volte quella immessa.
Per quanto riguarda infine le emissioni di gas causa dell’effetto serra,  l’intero ciclo di produzione e consumo della benzina ne produce, sempre secondo la scheda, 20,4 lbs/gallon , mentre il corrispondente ciclo dell’etanolo da mais ne produce 16,2 , ovvero il 22% in meno.
Ben diversi da quelli dell’etanolo da mais sono i dati riguardanti  l’etanolo da canna da zucchero. In Brasile nel giugno del 2007 il prezzo al dettaglio della benzina era pari a 4,91$ al gallone, mentre il prezzo di un gallone di etanolo da canna da zucchero era pari a 2,92$ che salivano a 3,88 per l’equivalenza energetica.
Per quanto riguarda  il confronto tra energia complessivamente spesa ed energia ricavata,  la scheda rivela che  per ogni unità di energia fossile impiegata si ricava dall’etananolo da canna da zucchero che ne deriva una quantità di energia  pari ad 8 volte quella immessa.
Per quanto riguarda infine le emissione di gas causa dell’effetto serra,  l’intero ciclo di produzione e consumo della benzina ne produce, come si è visto, 20,4 lbs/gallon , mentre il corrispondente ciclo dell’etanolo da canna da zucchero ne produce 9 , ovvero il 56% in meno.
Terzo biocarburante considerato, il biodiesel ricavato dalla canola (Canadian oil), ovvero da un tipo di  rapa geneticamente modificato, di cui la Germania è la maggiore produttrice mondiale.
In Germania nel giugno del 2007 il prezzo al dettaglio del gasolio era pari a 6,15$ al gallone, mentre il prezzo di un gallone di biodiesel da canola era pari a 6,80$ che salivano a 6,83 per l’equivalenza energetica.
Per quanto riguarda  il confronto tra energia complessivamente spesa ed energia ricavata,  la relativa scheda rivela che  per ogni unità di energia fossile impiegata si ricava dal biodiesel da canola prodotto una quantità di energia  pari ad 2,5 volte di quella immessa.
Per quanto riguarda infine le emissione di gas causa dell’effetto serra,  l’intero ciclo di produzione e consumo della benzina ne produce, come si è visto, 20,4 lbs/gallon , mentre il corrispondente ciclo del biodiesel da canola ne produce 7,6   ovvero il 68% in meno.

Sotto l’aspetto ambientale il biodiesel sembrerebbe il più virtuoso, ma attenzione i dati riguardano solo i gas causa dell’effetto serra. Probabilmente se si considerassero le polveri sottili  questa considerazione cambierebbe non poco.
L’ultima scheda riportata dal National Geographic riguarda un progetto di ricerca su cui sono impegnati molti grandi laboratori mondiali, ovvero la produzione di etanolo non da una singola coltura, ma dalla cellulosa in generale.
In questo caso  potrebbero essere utilizzati a tal fine qualsiasi scarto agricolo e forestale, rifiuti urbani, scarti delle cartiere, erbe di prateria a rapida crescita che richiedono poca energia, in termini di trattori e fertilizzanti, e possono crescere su terreni marginali. Ma questa non è la sola prospettiva allettante di tale ricerca.
Per quanto riguarda  il confronto tra energia complessivamente spesa ed energia ricavata,  la scheda rivela che  in questo caso per ogni unità di energia fossile impiegata si potrebbe ricavare dall’etanolo da cellulosa una quantità di energia  da un minimo di 2 ad un massimo di 36 volte di quella immessa, e ciò a seconda del procedimento che si riuscirà a mettere a punto.
Per quanto riguarda poi le emissione di gas causa dell’effetto serra,  l’intero ciclo di produzione e consumo della benzina ne produce, come si è visto, 20,4 lbs/gallon , mentre il corrispondente ciclo dell’etanolo da cellulosa dovrebbe arrivare a produrne solo 1,9   ovvero il 91% in meno.
Molto ci sarebbe ancora da dire sui biocarburanti, ma temo di aver già troppo abusato della vostra attenzione, per cui mi limiterò ad un’ultima considerazione che riguarda non solo i biocarburanti ma la biomassa in generale.
La biomassa è giustamente considerata una fonte d’energia rinnovabile, ma attenzione, il suo sfruttamento è limitato, come tutto, da importanti vincoli. Innanzi tutto la stretta concorrenza  che nel caso di sfruttamento intensivo potrebbe avere con le colture destinate all’alimentazione umana, ma non solo (fibre tessili), e sotto questo aspetto occorre tener conto che il terreno coltivabile, anche a livello planetario, è una risorsa finita e per di più minacciata dalla desertificazione indotta dall’effetto serra.
In secondo luogo occorre tener conto che qualunque specie si intenda coltivare, questa non vive e cresce  con sola energia solare, ma necessita anche di una gran quantità di sostanze nutrienti contenute nel suolo. Anche queste però, come qualsiasi coltivatore ben sa, sono tutt’altro che illimitate ed il loro reintegro attraverso i fertilizzati chimici  e/o la rotazione delle colture costa o parecchia energia o finisce per entrare in conflitto con quelle che sono le necessità alimentari di un’umanità, la cui crescita demografica contribuisce ad aggravare non poco, anche sotto il profilo energetico, il circolo vizioso della finitezza delle risorse planetarie.

7 marzo 2009