La medicina e la salute pubblica – Intervista a Enzo Ferrara

Quali sono stati gli sviluppi delle scienze mediche da quando è iniziato lo sfruttamento intensivo delle risorse fossili?
Per tutto il Novecento, periodo contrassegnato da un’enorme disponibilità di energia fossile a buon mercato, nel campo della medicina più che in ogni altro settore si sono avuti ampliamenti dei campi di intervento, con continuità su tutto l’arco del secolo e con contributi da tutte le altre scienze. Si pensi agli usi diagnostici e terapeutici della medicina nucleare, ai raggi-X, all’elettrocardiografia o al perfezionamento dell’anestesia che ha permesso importanti progressi della chirurgia. La lotta contro le malattie endemiche fu possibile grazie agli sviluppi della batteriologia e alle scoperte dell’immunologia che portarono all’uso dei sieri per indurre immunità contro le malattie infettive.
Il Novecento, insomma, ha segnato una svolta per le scienze mediche: con l’ausilio di nuove tecnologie e conoscenze le possibilità di riconoscere una patologia e di indicarne la terapia più adatta hanno cominciato a farsi rilevanti. Fino ad allora quasi tutto dipendeva dall’esperienza personale e dalla familiarità dei medici verso le malattie locali e i rimedi naturali: a fine Ottocento erano ancora praticati i salassi. Inoltre, le vaccinazioni di massa, sperimentate per la prima volta sui soldati, hanno cambiato il volto della sanità pubblica. Bisogna ricordare ancora la scoperta dell’azione antibatterica dei sulfamidici, che portò alla produzione industriale della penicillina, strumento clinico di importanza immensa.
Mentre infuriava la Seconda guerra mondiale, fra Gran Bretagna e Usa furono creati consorzi per giungere alla sintesi della penicillina. L’intensa attività di collaborazione sulla penicillina, così come sul progetto Manhattan, è considerata storicamente il momento di nascita della cosiddetta Bigscience, la dimensione fordista della ricerca che portò a sviluppi anche nella fisica nucleare e nelle imprese aero-spaziali. Condotta prevalentemente nei grandi laboratori, legata all’autorità che finanzia i grandi progetti per finalità economiche, politiche o militari, Big-science corrisponde oggi alle multinazionali che operano nei settori dell’energia, del trasporto, della farmaceutica e della finanza. Exxon Mobil, Chevron, Ford, Union Carbide, Novartis, Shell, Bank of America, sono tutte legate all’economia del petrolio. Fra queste, i grandi gruppi farmaceutici di Big Pharma, che si spartiscono il 50 percento del mercato dei medicinali, fatturavano fino alla Guerra del Golfo tanto quanto le restanti 100 principali compagnie del mondo, poi sono stati superati dai colossi del petrolio.

Come sono cambiate le aspettative di vita? È possibile identificare una coincidenza negli sviluppi della medicina e della farmaceutica con il prolungamento dell’attesa di vita?
Mentre le tecniche di diagnosi e intervento della medicina andavano affinandosi, in tutto il mondo occidentale si è registrato un calo portentoso della mortalità. Questo sviluppo è stato prodigioso, in Italia si è passati da poco più di quaranta anni di vita media nel 1900 a quasi ottanta nel 2000, e la crescita continua ancora di qualche mese ogni anno che passa. Ma il prolungamento dell’attesa di vita è dovuto soprattutto alla diminuzione della mortalità infantile e allo sviluppo delle misure di profilassi, come la depurazione delle acque e la sterilizzazione alimentare e sanitaria. Sebbene siano derivate da osservazioni mediche, queste misure possono essere attribuite solo in parte ai progressi della medicina.Nella prima parte del secolo la lotta contro le malattie epidemiche fu rivolta alle affezioni organiche ma anche e soprattutto alle condizioni che ne permettevano lo sviluppo: la miseria, la fame e la mancanza d’igiene.
Le scoperte scientifiche aprirono la strada alla medicina sociale con la ricerca principalmente foraggiata dai governi. Grandissima importanza hanno avuto, per esempio, in passato la protezione della maternità e più di recente la lotta contro il fumo. Questa vocazione però ha retto poco, già qualche decennio dopo la fine della Seconda guerra mondiale le finalità di profitto hanno prevalso. Le industrie sono diventate ansiose soprattutto di rispondere ai nuovi bisogni del mercato: produrre medicinali su larga scala e a basso costo indirizzando la ricerca verso le cure con preparati chimici, così gli scienziati si sono specializzati nell’inventare sostanze capaci di distruggere i batteri nocivi senza provocare danni nel malato.Ma quello della disponibilità di farmaci, per quanto importante, è solo uno degli aspetti da osservare.
Lo storico della medicina Thomas McKeown attribuiva la progressiva riduzione della mortalità conquistata nei secoli XIX e XX principalmente alla maggiore disponibilità alimentare, in conseguenza delle nuove rese agricole. La tesi, banalmente, è che una buona nutrizione aumenta di molto la resistenza alle malattie, soprattutto a quelle infettive.Negli Stati Uniti, dove l’uso di medicinali è straripante, l’attesa di vita media è solo al quarantaduesimo posto nel mondo. Intendo dire che la speranza di vita è in aumento anche negli Usa, ma mentre le spese mediche dei singoli sono in continua crescita si riducono le attenzioni per la nutrizione, gli stili di vita e la sanità pubblica, con conseguenze deleterie nonostante la disponibilità di farmaci. Solo vent’anni fa gli Usa erano all’undicesimo posto, oggi sono sorpassati dalla maggior parte dei Paesi europei, dal Giappone, dalla Giordania e perfino dalle isole Cayman. Insomma, per quanto le multinazionali insistano nell’affermare che attraverso i medicinali è possibile controllare ogni problema, non sempre l’affidarsi ai farmaci rappresenta la scelta migliore per la difesa della salute.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, i cardini della medicina nel XX secolo sono stati le vaccinazioni, la clorazione dell’acqua potabile, la sicurezza automobilistica e sul lavoro, il controllo delle malattie infettive, la riduzione degli scompensi cardiocircolatori, l’alimentazione, la pianificazione familiare, la difesa della maternità e il riconoscimento della tossicità del fumo di tabacco.

Come è possibile caratterizzare i vari Paesi in funzione della loro ricchezza economica ed energetica?
La mortalità infantile e la speranza di vita alla nascita sono probabilmente i due parametri principalmente utilizzabili per valutare la qualità della vita in senso fisico, perché riassumono i complessi effetti a lungo termine legati alla disponibilità alimentare, alle cure mediche e alla protezione dell’ambiente.
L’impatto della disponibilità di energia procapite su questi indicatori è stato studiato di recente. Gli statunitensi hanno un consumo procapite di energia pari a circa 380 Giga-Joule (GJ) per anno, giapponesi
e tedeschi 190 GJ, gli indiani 16 GJ. Tenendo conto di questo paragone, si è osservato che nel XXI secolo, su scala mondiale, tassi di mortalità infantile di circa 30 morti ogni mille nascite sono associati a consumi pari a 30-40 GJ. Tassi inferiori,meno di 20 morti ogni mille nati, sono riscontrabili in paesi con consumi procapite pari ad almeno 60 GJ. Tassi ancora più bassi, con meno di 10 morti per mille nati, non si osservano con consumi inferiori a 110 GJ procapite per anno.Consumi di energia oltre questo livello non corrispondono a ulteriori riduzioni della mortalità infantile.
Per quanto riguarda l’attesa di vita, analogamente c’è corrispondenza  con la disponibilità energetica: si arriva sopra i 70 anni nei paesi con 30-40 GJ per anno di consumo procapite, fino a 75 anni sopra i 60 GJ e a 80 anni solo con consumi superiori a 110 GJ. Le correlazioni con la disponibilità di energia alimentare risultano meno significative, una buona distribuzione anche in dosi minime di sostanze nutritive garantisce una buona sopravvivenza. I consumi eccessivi di cibo, invece, aumentano i fattori di rischio come l’obesità e il diabete. La disponibilità di cibo minimo sufficiente è pari a 12 Mega-Joule (circa 2.900 kilocalorie) al giorno, cioè 40 GJ per anno, e non vi è guadagno in salute al di sopra di 13 MJ al giorno.
Le Nazioni Unite combinano i dati dell’attesa di vita, il livello di educazione, la frequenza scolastica e il Pil per costruire l’Indice di sviluppo umano.
Gli indici di sviluppo più bassi si hanno nei Paesi sub-sahariani. La Norvegia è al primo posto, seguita da Australia, Canada e Svezia, tutte alla pari. In questo caso le correlazioni con la disponibilità energetica sono meno evidenti: ottimi indici di sviluppo si ottengono già con consumi procapite pari a 65 GJ per anno e non vi è incremento significativo sopra 110 GJ. L’Italia, al 40esimo posto, ha un indice di sviluppo simile a quello
norvegese. In generale, dall’analisi di questi dati si percepisce che una società che voglia puntare all’equità sociale e alla salvaguardia della qualità della vita dei propri cittadini, assicurando un’adeguata disponibilità alimentare, assistenza medica ed educazione scolastica, dovrebbe mirare a consumi procapite pari almeno a 40-50 GJ procapite per anno. A 60-65 GJ si raggiungono standard superiori, mentre per i livelli eccelsi occorrono almeno 110 GJ. Sotto questi intervalli di consumo la qualità della vita regredisce rapidamente e, sostanzialmente, non si osservano benefici se i consumi aumentano oltre.

In quali Paesi permane un’aspettativa di vita bassa? All’interno dei singoli Paesi è possibile identificare gruppi sociali con differenze importanti? In quali osserviamo un miglioramento della qualità della vita in anni recenti?
La speranza di vita minore, e questo è purtroppo un dato in peggioramento, si regista ancora nei Paesi dell’Africa sub-sahariana, una regione pesantemente colpita dal virus Hiv/Aids, dalla fame e dai conflitti. Lo Swaziland ha il primato negativo con poco più di 33 anni, assieme a Lesotho, Botswana, Zambia,Angola, Liberia e Zimbabwe, tutti sotto i 40 anni. In Africa si era giunti in media a 46 anni, ma l’Aids minaccia di cancellare questi progressi. Basterebbero pochi semplici provvedimenti per ottenere un aumento di almeno 5-10 anni: assistenza alla maternità per ridurre le nascite premature o sottopeso, educazione sessuale, acqua pulita, cibi ricchi in vitamina A.
Le variazioni nell’attesa di vita fra Paesi ricchi e Paesi poveri sono enormi. I Paesi dove si vive più a lungo, come Andorra, San Marino, Singapore e Giappone, superano gli 80 anni di vita media. Tuttavia, esistono variazioni rilevanti anche fra gruppi all’interno di uno stesso Paese. Il discriminante principale è il censo, che è poi un riflesso delle differenze etniche e culturali. In Gran Bretagna si osservano fino a dieci anni di differenza fra zone ricche e povere, e questa disuguaglianza è in aumento.Nei Paesi ricchi è rilevante che le donne vivano in media cinque anni in più degli uomini, questa è invece una differenza in diminuzione. L’inquinamento atmosferico è un ulteriore discriminante, così come il tipo di occupazione: i professionisti vivono più a lungo dei minatori o degli operai. Altri fattori di tipo individuale sono legati alla dieta, alla sedentarietà, al fumo, agli alcolici.Credo che la tendenza alla crescita nei Paesi occidentali potrà continuare
ancora per qualche decennio. Già solo la lotta contro il fumo dovrebbe garantire risultati importanti, come non avverrà purtroppo in Cina, India o Brasile, dove i produttori di tabacco stanno spostando il mercato.
Fra le zone in crescita, in Cina, nonostante l’incertezza dei dati sull’infanticidio femminile, si è passati da circa 60 anni nel 1970 a più di 70 nel decennio 1990-2000 e a 73 oggi. Il confronto con l’India, che è salita
da 45 anni negli anni Sessanta a poco più di 60 oggi, è interessante. L’economia cinese cresce più rapidamente di quella indiana, ma la differenza non sta solo nel Pil. In Cina le disuguaglianze fra zone rurali e urbane sono minori rispetto all’India, inoltre il livello di istruzione è più elevato e i casi di malnutrizione e povertà hanno un’incidenza inferiore. In India, poi, rimane ancora alta la mortalità infantile.

Quanto è importante concretamente il petrolio nella produzione dei farmaci?
Le risorse iniziali dell’industria chimica e farmaceutica sono convenzionalmente costituite da sostanze organiche derivanti dal petrolio, dal gas naturale, dal carbone o da altre risorse disponibili in natura. Inoltre, sono utilizzate alcune sostanze inorganiche, come il cloruro di sodio, il carbonato di calcio, i gas atmosferici e altri minerali. Questa è la via più conveniente, sviluppata fin dall’inizio del Novecento.Comincia però a farsi strada anche l’idea di un’industria chimica da fonti rinnovabili: il caso dei carburanti da bio-masse ne è un esempio, e la strada, per quanto controversa, sembra promettente in termini di innovazione e di distacco dall’economia fossile.Nel corso degli ultimi cento anni si sono avuti sviluppi continui in termini di aumento dell’efficienza di sfruttamento delle risorse fossili, ma l’utilizzo del petrolio nella farmaceutica è stato motivato principalmente dalla disponibilità e dal basso costo. Se la sostituzione delle fonti fossili è problematica per il trasporto e la generazione di elettricità e calore, non è invece una questione insormontabile nella produzione chimica e farmaceutica. Basterebbe modificare le tecnologie di estrazione dei prodotti organici di base, utilizzando materie prime diverse, rinnovabili, e il resto potrebbe essere lasciato inalterato. Sarebbe un cambiamento storico, con forti implicazioni sociali ed economiche perché la chimica è alla base di tutta la produzione industriale, anche dell’agricoltura. Si tratterebbe di avere a disposizione una ventina di prodotti di base, come metano, glucosio, etanolo, ammoniaca, idrogeno, acido nitrico, formaldeide, tra gli altri, per arrivare a produrre qualche centinaio di sostanze intermedie dalle quali si possono derivare l’85 percento circa dei prodotti ora disponibili.

Come è evoluta la ricerca medica negli ultimi trent’anni? A cosa sono dedicati i maggiori sforzi nelle università e nei centri di ricerca?
Fra i principali sviluppi della scienza medica negli ultimi decenni nel mondo ricco bisogna annoverare i trattamenti delle patologie cardiovascolari, in particolare le tecniche di chirurgia che possono risolvere efficacemente e per lungo tempo moltissimi problemi dell’apparato cardiaco. Ci sono stati innegabili successi anche nei trattamenti delle malattie oncologiche: la sopravvivenza in caso di malattia è cresciuta per numerose forme di tumore, anche grazie allo screening di massa che aumenta la possibilità di diagnosi precoci. Inoltre, anche se l’incidenza tumorale è ancora in leggero aumento, si osserva un calo per alcune patologie prevenibili attraverso la riduzione dei comportamenti a rischio o con una maggiore protezione delle condizioni lavorative. Negli ultimi anni moltissimi avanzamenti delle conoscenze si sono avuti nei campi della medicina molecolare, cioè nello studio dei meccanismi cellulari che controllano la genesi di numerose malattie, e negli studi di genetica con la decifrazione del genoma umano e la possibilità di individuare i fattori ereditari di alcune malattie. In questi settori si concentra grandissima parte della ricerca, dei finanziamenti e degli articoli sui giornali. Effettivamente, da questi studi sono attesi importanti sviluppi nella comprensione dei meccanismi di origine delle affezioni e si aprono nuove possibilità di cura farmacologia. C’è invece scetticismo sulla possibilità di sviluppare azioni di prevenzione, legate per esempio ai fattori genetici. Gli epidemiologi sanno che le differenze genetiche emergono soprattutto in assenza di altri fattori di rischio, come quelli ambientali o lavorativi, né si comprende come si possano mettere a punto azioni di prevenzione mirate solo alle categorie sensibili. La prevenzione andrebbe messa in atto in ogni caso.Va detto che anche la parola prevenzione è usata a sproposito: quando si parla di prevenzione oncologica tutti pensano alla diagnosi precoce, perché è su questa che si concentrano tutti gli sforzi e gli interessi economici. L’oncologo Renzo Tomatis ricordava che la prevenzione più importante è quella che si fa cercando non di limitare i danni della malattia, diagnosticandola al più presto, quanto piuttosto di evitarne l’insorgere. La prevenzione vera dovrebbe suggerire la rimozione delle cause delle malattie, così ci si proteggerebbe tutti, ricchi e poveri,ma questa strada è bistrattata da scienziati, politici e autorità sanitarie
perché ad esser messo in discussione sarebbe il nostro stesso modo di produrre e consumare.
Il vero dramma della medicina contemporanea, però, è che su scala mondiale l’ottanta per cento delle spese in ricerca è dedicato ai disagi del venti per cento di popolazione ricca, per gli altri restano solo briciole. Se ci spostiamo a Sud scopriamo che in un ospedale africano si muore soprattutto per le complicazioni dovute all’Aids, per infezioni polmonari, malaria, infiammazioni intestinali o meningite, patologie tutte prevenibili con efficaci azioni di intervento igienico-sanitario e in gran parte curabili con farmaci adeguati.Nei Paesi poveri migliaia di persone muoiono perché è negato loro l’accesso ai farmaci e per l’assenza di prevenzione.

In tema di brevetti, alcuni Paesi poveri hanno cercato di produrre autonomamente dei farmaci essenziali, a che punto sono queste esperienze?
Numerose ong, come Médecins Sans Frontières, continuano a rivolgersi ai governi con preoccupazione per come i brevetti farmaceutici difendono la proprietà intellettuale e i profitti delle grandi compagnie a scapito della vita delle popolazioni povere. Le case farmaceutiche non sono certo colpevoli delle carestie africane, ma il loro senso di responsabilità verso i problemi della salute nel mondo è inversamente proporzionale al profitto ricavabile da ogni malattia. Il problema è il costo dei farmaci prodotti in occidente, inaccessibili per le popolazioni dei Paesi poveri che pagano i medicinali di tasca propria, così ogni minimo aumento diventa proibitivo. La dichiarazione di Doha, nel 2001 in Qatar, sancì il diritto dei Paesi poveri di superare per misure di salute pubblica gli accordi sulla proprietà intellettuale e assicurò ai governi la possibilità di emettere licenze obbligatorie sui brevetti per la fornitura di farmaci, o di provvedere in altri modi alla protezione della salute pubblica. La produzione autonoma in alcuni Paesi del Sud-est asiatico dopo quegli accordi ha permesso un certo contenimento dei prezzi: l’accesso ai farmaci anti-Aids, che negli Usa costa circa 10mila dollari l’anno, è stato reso disponibile attraverso la produzione extrabrevettuale al costo di poche centinaia di dollari. Oggi però, sette anni dopo Doha, i prezzi stanno di nuovo salendo anche perché i Paesi ricchi non hanno rispettato gli impegni né hanno fatto alcun passo nel riconoscimento internazionale del diritto alla salute, hanno anzi lavorato per sminuire gli esiti di Doha. Se non si concederanno licenze per la produzione e l’esportazione autonoma di medicinali, torneremo al punto di partenza. Per esempio il tanto sbandierato regime di competizione liberale, che è un modo efficace per contenere i prezzi, è ampiamente disatteso
nel mercato dei farmaci. Gli interessi della sanità pubblica sono asserviti a quelli delle grandi compagnie e alle politiche internazionali sul commercio. I brevetti farmaceutici sono stati descritti come una nuova forma di colonizzazione per mezzo della proprietà intellettuale anziché attraverso l’occupazione fisica. Però ogni anno ci sono milioni di nuovi casi di infezione da Hiv, e il rischio di pandemie come l’influenza aviaria è una minaccia tanto per i Paesi ricchi quanto per quelli poveri, la lotta contro queste epidemie deve essere comune.

Ivan Illich introdusse il concetto di nemesi medica. Ci può spiegare di cosa si tratta? In questi trent’anni le tesi di Illich sono confermate da riscontri oggettivi?
Illich scrisse Nemesi medica nel 1976. Il libro si apre con le parole: “L’impresa medica è diventata una minaccia per la salute”. Ciò che preoccupava Illich era il tentativo di trasformazione della malattia e della sofferenza da esperienza individuale in un problema tecnico, per molti versi estraneo e non controllabile dal malato. Illich individuava nei paradossi del progresso un’espressione della nemesi moderna: nella maggior parte oggi la miseria umana è un prodotto collaterale di imprese originalmente mirate alla protezione degli uomini dalle inclemenze della natura e dalle ingiustizie sociali. L’incapacità dei moderni di trovare soluzioni alternative all’ossessiva aggressione tecnologico-industriale è parte integrante di questa maledizione. Secondo Illich il concetto di salute stava diventato paradossale, la medicina era essa stessa diventata causa di patologie e infermità prima sconosciute, di origine iatrogena. Illich pensava che la medicina non avesse più in mano il timone dello stato biologico, e accusava le scienze mediche per aver accettato un ruolo di subalternità al potere industriale non dichiarando i pericoli per la salute degli stili di vita ipertecnologici (inquinamento, incidenti automobilistici, malattie del lavoro, stress, disagio, emarginazione), anzi dissimulandone le conseguenze con sempre nuove tecniche e con ansiolitici e antidepressivi. Il riscontro oggettivo delle affermazioni di Illich sta nelle pratiche quotidiane delle aziende farmaceutiche che riservano attenzioni differenti alle diverse categorie di malati: chi guarisce, chi muore e chi, sviluppando un’affezione cronica, continua ad aver bisogno di cure. Quest’ultima categoria, in particolare, sembra quella su cui le imprese si concentrano maggiormente, anzi la tendenza è di ricondurre tutti in questa condizione con la scusa della prevenzione ma per via farmacologia. Le malattie croniche, i trattamenti farmacologici precauzionali, rappresentano la situazione ideale per l’economia della farmaceutica, sono un modo del mercato di lasciare sospeso il bisogno di guarigione, senza mai concederlo definitivamente.

La necessità di ridurre i consumi energetici globali porterà a un’evoluzione della pratica medica in linea con quanto auspicava Illich?
Quasi ogni aspetto della medicina moderna è petrolio-dipendente, come tutta la società. Il costo del petrolio è stato conveniente così a lungo che ogni sistema socio-economico si è strutturato sul suo consumo. Lo stesso è accaduto per i servizi di assistenza, basta guardare ai trasporti necessari per mantenere efficiente il servizio sanitario, tutto si basa sugli spostamenti di persone e cose da un luogo all’altro: auto, ambulanze, elicotteri.
Le grandi strutture ospedaliere per la distribuzione di cure sanitarie, per esempio, rappresentano una delle più centralizzate espressioni della modernità e facilmente saranno fra le prime vittime del picco del petrolio.
Quali saranno i cambiamenti che la transizione porterà è difficile dire. Come per l’impatto sul resto della società, dipenderà dalla velocità con cui si arriverà alla carenza energetica e da quanto saremo preparati.
Nel breve termine ci sarà probabilmente un minore e ineguale accesso ai servizi sanitari e un loro razionamento. Saremo più malati, con più problemi psichiatrici, e non vivremo a lungo come ora. A più lungo termine, la transizione avrà bisogno di coinvolgere una maggiore responsabilità personale di ognuno per la propria salute, così come ci vorranno più strutture sanitarie di piccolo livello, informali e disperse nelle comunità, anche nelle più piccole.
Non so se fosse questo l’auspicio di Ivan Illich quando affermava che la coscienza della fragilità, unicità e relatività dell’esistenza, così come la capacità di affrontare in autonomia l’esperienza della sofferenza e della malattia sono parti integrali della vita, fondamentali per il raggiungimento del proprio equilibrio. Le società moderne continuano ad agire come se lo sviluppo economico e la disponibilità di energia fossero da soli, acriticamente, gli obiettivi unici da perseguire anziché mezzi per raggiungere una migliore qualità della vita.Ma questo concetto riassume tanto il soddisfacimento dei bisogni primari e la disponibilità di risorse tecnologiche quanto lo sviluppo e la gratificazione dell’affettività e delle attività intellettuali di cui sono fondamento l’educazione e la libertà di pensiero. Per il benessere, la disponibilità di tempo e luoghi per incontrarsi e scambiare conoscenze ed esperienze è importante quanto la disponibilità di cure sanitarie e farmacologiche e diventerà presto un bene ancora più prezioso, dato che la possibilità di stare bene grazie alle risorse della tecnologia, eccessivamente energivore, sembra esclusa dalle prospettive per la stragrande maggioranza dell’umanità.

Tratto da: Aa. Vv,, La vita dopo il petrolio, Terre di Mezzo-Altreconomia, Milano 2008, pp. 160, euro 11,00

Enzo Ferrara è ricercatore in Chimica presso l’Istituto nazionale di ricerca metrologica di Torino. Collabora sui temi che trattano di ambiente, salute e tecnologia con le riviste Lo Straniero e Una Città e con l’Ecoistituto del Piemonte.