A proposito della guerra di Gaza – Jean-Marie Muller

La violenza non è una fatalità, ma …

La violenza non è una fatalità. Non impone mai da sola le sue leggi. Ma, dal momento che gli uomini l’hanno scelta, è fatale che essi subiscano le sue leggi. Che sono leggi implacabili, inflessibili, schiaccianti, crudeli, feroci, immorali, insomma inumane. Gli effetti della violenza sono scandalosi, orribili, vergognosi. Questa è la sua logica. Una logica fredda che non si lascia ostacolare dalle grida di indignazione.

Simone Weil sottolinea che, nell’Iliade, «i guerrieri risultano simili all’incendio, all’inondazione, al vento, alle bestie feroci, a qualunque causa cieca di disastro» (La source grecque, Paris, Gallimard, 1953, p. 32; tr. ital. parziale, La Grecia e le intuizioni pre-cristiane, Borla, Torino 1967). Effettivamente, la violenza è una causa cieca di disastro. Agisce come un flagello della natura. Appartiene alla natura stessa della violenza di essere un meccanismo cieco che trascina l’uomo in una fuga in avanti verso l’orrore. Gli uomini credono di maneggiare la violenza, ma in realtà sono loro maneggiati dalla violenza. Essa li sottomette e li strumentalizza al proprio esclusivo servizio. Hanno l’illusione di servirsene e invece la servono. Tra l’uomo e l’atto violento, non rimane nessuna distanza. Ora, solo la presa di distanza permette la coscienza. Nella brutalità della violenza non c’è posto per il pensiero. E «dove il pensiero non ha spazio, neppure la giustizia e la prudenza ce l’hanno. Per questo gli uomini armati agiscono duramente e follemente» (ibidem, p. 21). Anche quando, nota ancora Simone Weil,  «io voglio infliggere al nemico solo un danno limitato, (…) io non posso, perché l’uso delle armi contiene l’illimitato»  (Simone Weil, Cahiers III, Paris, Plon, 1956, p. 47; Quaderni III, Adelphi, Milano 1988). Paul Valery ha messo in luce anche lui l’ingranaggio cieco della violenza: «La violenza, scrive, si riconosce da questo carattere che essa non può scegliere: si dice tanto che la collera è cieca; un’esplosione o un incendio attaccano un certo volume e tutto ciò che vi è contenuto. È un’illusione di chi immagina una rivoluzione o una guerra come soluzioni a determinati problemi, credere che soltanto il male sarà soppresso» (Paul Valery, Regards sur le monde actuel, Paris, Gallimard, Coll. Idées, 1962, p. 86).

Il discorso corrente dei commentatori politici patentati della guerra di Gaza – sia esperti, sia uomini politici, sia giornalisti – ha ripetuto a non finire che l’azione militare dello Stato di Israele è stata «sproporzionata». Col dir questo, attribuiscono al limitarsi una bella e grande verità, incontestabile, e forti di questa verità invitano Israele a dare prova di «moderazione». Ma tanto questa constatazione quanto questo invito non possono avere alcuna presa sugli avvenimenti, i quali se ne infischiano altamente. In realtà quei commentatori ignorano ciò che presumevano di commentare. Ignorano la natura stessa della violenza, che si caratterizza per la sia smodatezza.

Certo, è evidente che i mezzi militari di Israele sono «sproporzionati» rispetto a quelli di Hamas. I bombardamenti aerei su Gaza sono «sproporzionati» rispetto ai lanci di razzi su Israele. I morti palestinesi sono «sproporzionati» rispetto ai morti israeliani. Ma è ridicolo e vile brandire la contabilità dei morti per far valere un argomento. Ogni uccisione è una violenza sproporzionata, illimitata. Le leggi della violenza non hanno il senso della proporzione, privilegiano la dismisura. La violenza si serve di tutti i mezzi alla sua portata. Quello che accade è molto semplice : la violenza di Israele è proporzionata alla sua capacità di violenza, così come la violenza di Hamas è proporzionata alla sua capacità di violenza. Cedendo alla pura logica della violenza, ciascuno fa tutto quello che può, dato che il desiderio di violenza è ugualmente ardente da una parte e dall’altra. E allora necessariamente quello che accade è il peggio. Ciascuno corre alla propria distruzione, al suicidio. Questo non significa in alcun modo che il conflitto sia simmetrico. Infatti, è perfettamente asimmetrico per il fatto stesso che, da più di sessant’anni, il popolo palestinese è l’oppresso e lo Stato di Israele è l’oppressore. È a questo livello che sta la grande sproporzione. L’asimmetria è essenzialmente politica.

Dopo aver incontrato i principali responsabili politici israeliani, Nicolas Sarkosy ha dichiarato in una conferenza stampa a Damasco, il 6 gennaio 2009: «Ho detto loro che le violenze devono cessare al più presto». Certo! Ma chi poteva convincere con discorsi di una tale piattezza? Erano solo vane parole senza alcuna ampiezza di visione. Con grande perspicacia Pétillon in una vignetta (Le Canard enchaîné, 7 gennaio 2009) rappresenta Sarkozy che corre più che può dicendo: «Bisogna ottenere un cessate il fuoco prima della fine dell’offensiva!». Disgraziatamente, il cessate il fuoco verrà solo dopo la fine dell’offensiva.

Così, la risoluzione 1860 votata l’8 gennaio dal Consiglio di sicurezza dell’Onu non ha alcuna credibilità politica. Il testo «invita ad un cessate il fuoco immediato, duraturo e pienamente rispettato». Esso «domanda agli Stati membri di intensificare i loro sforzi per prendere provvedimenti e dare garanzie che assicurino a Gaza un cessate il fuoco duraturo e calmo». In realtà, tutti gli appelli al cessate il fuoco rivolti dopo l’inizio delle ostilità non potevano restare che lettera morta. La violenza, in effetti, è un fuoco. Il fuoco non è mai una fatalità, ma, una volta acceso, è incontrollabile. A che serve, davanti ad un incendio, supplicare il fuoco che cessi di bruciare? Esso brucia a sazietà. Le proteste morali, le indignazioni virtuose, gli esorcismi incantatori restano senza la minima efficacia, cadono nel vuoto. Tuttavia, non conviene assolutamente rassegnarsi alla tragedia, né soffocare la propria emozione e rivolta. La manifestazione più giusta è la manifestazione silenziosa in segno di lutto. A cosa serve andare per le strade gridando la propria collera, cioè l’odio per il nemico? Queste grida sono fuori luogo. Sono parte anch’esse del processo di violenza.  Sono ancora parole di guerra. Stringono ancora un po’ di più il nodo del conflitto, che invece bisognerebbe sciogliere. Quello di cui l’umanità malata di violenza ha un bisogno da morire, sono parole di pace, di umanità.

La questione del lancio di razzi è al centro delle controversie molto emotive attorno a questa guerra. La propaganda israeliana non ha smesso di ripetere, dall’inizio delle ostilità, che lo Stato d’Israele non faceva altro che difendere i suoi cittadini contro i razzi palestinesi. Se ci mettiamo dal punto di vista dei cittadini israeliani bersagliati da questi tiri, l’onestà intellettuale ci porta a riconoscere la parte di verità di questa affermazione. Ed è chiaro che la grande maggioranza degli israeliani condivide questo punto di vista, compresi quelli che appartenevano prima al “partito della pace”. Questo è un fatto non eludibile. Da parte loro, i responsabili di Hamas non hanno smesso di dire che il lancio di razzi era il solo mezzo di cui disponevano per lottare contro il blocco di Gaza che affama un milione e mezzo di civili. Se ci mettiamo dal punto di vista degli abitanti di Gaza, dobbiamo ugualmente riconoscere la parte di verità di questa affermazione. Tuttavia, queste parti di verità non sono tutta la verità. Due mezze verità non fanno una verità, ma finiscono per diventare due controverità.

Da una parte, i lanci di razzi palestinesi non possono dare la minima giustificazione intellettuale e morale alle azioni militari punitive condotte dall’esercito di Israele a Gaza. Al contrario, queste azioni devono essere chiaramente identificate come crimini di guerra. Ma, d’altra parte, i tiri di razzi sul territorio israeliano violano anch’essi il diritto internazionale – non dico in modo uguale, non dico in modo simile, non dico in modo paragonabile, ho detto anch’essi …  Non è una questione di proporzione, ma di principio. Il 30 dicembre 2008, l’organismo di difesa dei Diritti dell’Uomo Human Rights Watch ha pubblicato un comunicato in cui afferma: «I tiri di razzi puntati sulle zone abitate da civili con lo scopo di ferire e terrorizzare gli israeliani non sono in alcun caso giustificabili, qualunque sia l’azione condotta da Israele nella striscia di Gaza». E precisa: «Utilizzare sistematicamente e deliberatamente armi a effetto indiscriminato in zone di popolazione civile costituisce un crimine di guerra». (Questo organismo precisa che dal 2005, diciannove civili israeliani sono stati uccisi, comprese le quattro persone che hanno perso la vita negli scontri attuali fino al 2 gennaio 2009).  Questa presa di posizione è la sola sostenibile rispetto al diritto internazionale, al quale si riferiscono quegli stessi che condannano le estorsioni dell’esercito israeliano. È la sola presa di posizione possibile rispetto ai Diritti dell’Uomo. Coloro che intendono trascurare la capacità di nuocere dei razzi palestinesi col pretesto che è «sproporzionata» in confronto alla capacità di nuocere delle bombe israeliane, sono semplicemente irresponsabili. Non è vero che i razzi non uccidono. Uccidono e minacciano di uccidere. Notiamo che il Presidente Mahmoud Abbas ha chiaramente sconfessato Hamas, ma questa sconfessione probabilmente non è altro che un episodio della rivalità che oppone i due partiti palestinesi.

Se lasciamo il registro del diritto per metterci su quello dell’efficacia, appare chiaro che questi lanci di razzi costituiscono un grave errore strategico dei dirigenti di Hamas. Uno dei principi essenziali della strategia è, prima di ogni decisione, valutare, prevedere e anticipare le reazioni dell’avversario, per assicurarci che i costi che lui è in grado di farci pagare siano minori dei benefici che su cui noi possiamo ragionevolmente contare. Per poter lottare contro la propria oppressione, è un imperativo categorico per gli oppressi sventare la repressione degli oppressori. Da questo punto di vista, nessuno poteva dubitare che la ripresa dei lanci di razzi avrebbe soltanto provocato una violenza estrema da parte dell’esercito israeliano, di cui tutti i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania sarebbero state le vittime. È proprio la considerazione della sproporzione – ritorniamo su questo – tra i mezzi militari di Israele e quelli di Hamas che avrebbe dovuto convincere i dirigenti palestinesi a rinunciare a mettersi sul terreno della violenza. A quel punto, la decisione di Hamas appariva chiaramente come un errore fatale, irresponsabile. Questo errore palestinese non giustifica per nulla la colpa israeliana. Ma quell’errore permette a Israele di pretendere, e lasciar credere e, in larga misura, di far credere, che la sua azione sia giustificata.

Del resto, la superiorità militare schiacciante di Israele, se gli permette di accumulare le distruzioni e i morti a Gaza, non può certamente permettergli di vincere la pace. Ciò che rende giusta una guerra non è una causa giusta, ma una pace giusta. «Una vittoria, scrive Simone Weil, è più o meno giusta non in funzione della causa che fa prendere le armi, ma in funzione dell’ordine che si stabilisce una volta deposte le armi. Schiacciare il vinto è non solo sempre ingiusto, ma anche sempre funesto per tutti, vinti, vincitori e spettatori». Quando le armi taceranno a Gaza  – infatti, finiranno per tacere quando la violenza avrà compiuto la sua opera – non sarà l’ordine che regnerà, ma un immenso disordine.

Questa guerra non è la continuazione della politica con mezzi diversi da quelli della diplomazia, ma l’interruzione della politica. Lo Stato di Israele invoca il suo diritto a difendere la sicurezza del suo popolo. Ma, nella misura stessa in cui questo scopo è legittimo, i mezzi della violenza messi in atto non soltanto lo pervertono, ma lo cancellano e si sostituiscono allo scopo. Questo rovesciamento del rapporto tra il mezzo e il fine conduce al punto che il mezzo prende il posto del fine. La violenza, allora, è ricercata per se stessa. Diventa un meccanismo cieco di distruzione, di devastazione e di morte. Israele non protegge la sua popolazione, ma aggredisce il popolo palestinese. E, così facendo, distrugge se stesso.

Ciò che caratterizza in modo essenziale questa guerra è che non soltanto non apre alcuna prospettiva politica verso la soluzione del conflitto che oppone da più di sessant’anni i due popoli avversi, ma che, per ora, chiude tutte quelle prospettive. Nella sua conferenza stampa a Damasco il 6 gennaio 2009, Nicolas Sarkozy ha perorato in favore dell’«apertura rapida di prospettive per riprendere il cammino dei negoziati di pace». In un tale contesto, discorsi di questo tipo sono privi di ogni realismo. Sono davvero surreali. La causa di questa guerra è proprio questa, che, in tutti questi ultimi anni, non ci sono stati reali negoziati di pace. Se Hamas ha vinto le elezioni perfettamente democratiche del gennaio 2006, è anzitutto perché i palestinesi hanno voluto punire lo scacco politico di Fatah, che, pretendendo negoziare con Israele, non ha ottenuto rigorosamente nulla. Tutto, sul terreno, portava la più sferzante delle smentite ai pretesi avanzamenti diplomatici ottenuti sulla carta. Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità palestinese, non presiede più niente e non ha più alcuna autorità. I suoi abbracci col Primo ministro israeliano sono diventati indecenti.

Bisognava che Nicolas Sarkozy mancasse straordinariamente di discernimento politico e ignorasse tutto della realtà sul terreno, per potere affermare, il 23 giugno 2008, durante la sua visita ufficiale nei territori palestinesi: «Io credo alla pace, credo alla fine di questo conflitto, che è durato fin troppo e dunque credo all’obiettivo prossimo di un accordo sullo statuto finale. Questa pace è oggi a portata di mano. (…) La Francia vuole incoraggiare i governi palestinese e israeliano a proseguire risolutamente i negoziati e andare avanti in vista di una regolazione finale prima della fine dell’anno 2008» (intervista al quotidiano Al-Quds, 23 giugno 2008). Un tale linguaggio politichese diplomatico non soltanto non dice la verità, ma impedisce di vederla e comprenderla. È una negazione della realtà.

Così, si può ripetere sempre che la soluzione del conflitto consiste nella creazione di uno Stato palestinese vitale e sovrano nelle «frontiere» del 1967 con Gerusalemme-est come capitale. Questo finisce per diventare un puro parlare come un pappagallo. Il fatto è che la situazione reale sul terreno rende un tale progetto sempre più irrealizzabile.

In quella stessa dichiarazione, Nicolas Sarkozy affermava a proposito di Hamas: «Non c’è alcuna relazione politica, nessun negoziato, nessun contatto tra la Francia e Hamas. Il governo francese non intende allontanarsi dalla sua posizione, che è anche quella della comunità internazionale, e che vuole che nessun dialogo sia possibile con Hamas fin quando questo non avrà rispettato le tre condizioni del Quartetto, in primo luogo la rinuncia alla violenza e il riconoscimento di Israele». E il Presidente francese non si rendeva conto che, dicendo questo, enunciava una delle principali ragioni per la quale precisamente non poteva esserci un accordo di pace. Una posizione come la sua è perfettamente insostenibile, totalmente insensata. In definitiva è criminale. Se potessi usare un linguaggio molto “politicamente scorretto”, oserei far notare che la Francia accetta bene di dialogare con lo Stato d’Israele senza esigere che rinunci preliminarmente alla violenza …  Non ci sarà nessun processo di pace in Palestina fin quando si rifiuterà di parlare con Hamas. Il più grosso errore politico, che spiega oggi la guerra di Gaza, è proprio l’avere rifiutato ogni dialogo con Hamas dopo la sua vittoria elettorale del gennaio 2006. Su questa questione, l’Europa non avrebbe mai dovuto allinearsi alla politica degli Stati Uniti e, eventualmente, la Francia non avrebbe mai dovuto allinearsi alla politica dell’Europa. Questo rifiuto di ogni dialogo non poteva avere altro effetto che rinchiudere Hamas nella posizione più estremista. È stato un perdere l’occasione unica di permettere a questa organizzazione di rinunciare alla violenza e di scegliere anch’essa una via politica per affrontare il conflitto.

Al di là delle considerazioni elettoralistiche, che sono certamente quelle dei dirigenti israeliani; al di là della volontà di riparare lo scacco di Tsahal (l’esercito israeliano) nella guerra del Libano nel 2006, lo scopo reale di questa guerra è certamente eliminare in modo definitivo Hamas dalla scena politica palestinese. Rispetto a questo obiettivo, i lanci di razzi diventano in effetti un pretesto. Ma, da questo punto di vista, si può fin d’ora scommettere che Israele ha perduto la guerra.

Sono intimamente convinto che solo la rinuncia alla violenza da parte dei palestinesi permetterebbe di creare un vero processo di pace. Sono consapevole che, per ora, questa scelta non è probabile.  A un certo punto potrà apparire come la sola scelta possibile. (Ho sviluppato a lungo questa possibilità in un testo precedente intitolato Le meurtre est la question posée, Les Palestiniens et les Israéliens face au  défi de la violence, consultabile nel sito del MAN). Questa scelta aprirebbe allora uno spazio per attuare metodi di resistenza nonviolenta, unica fonte di speranza e di umanità.

Una delle conseguenze probabili di questa guerra è che susciterà in Francia delle reazioni identitarie e comunitaristiche nella popolazione musulmana e in quella ebrea, che si potrebbero esprimere con atti violenti. Solo il rifiuto dell’ingranaggio delle violenze laggiù come qui da parte dei cittadini appassionati per la giustizia permetterà di salvaguardare la convivenza di tutti in una Francia multiculturale.

Pensare la violenza vuol dire riconoscerla come inumana, come la negazione e il rinnegamento dell’umano nell’uomo. Quello che accade a Gaza non è una catastrofe umanitaria, ma una catastrofe umana. È una sconfitta della civiltà. Le macerie delle case di Gaza, ma anche delle case della città di Sderot in Israele, sono le macerie dell’umanità dell’uomo. In simili circostanze diventa ridicolo pretendere che siano i principi del diritto internazionale e le leggi della guerra ad essere violate. Sono in realtà le leggi dell’umanità ad essere negate. Le conseguenze di questa guerra sono già incalcolabili. Le ferite profonde che avrà provocato in seno ai due popoli nemici saranno a lungo inguaribili. Quanto odio devastante in tutto il mondo? Quanto rancore tra i musulmani? Quanta amarezza tra gli arabi? Quante infanzie sconvolte? E, tra queste, bisogna includere anche i bambini dei soldati israeliani. Quante lacrime e sofferenze nel cuore delle donne? Quanti traumi profondi tra i guerrieri quando si accorgeranno che sono coperti di vergogna e non di gloria? Nessuno lo saprà mai.

14 gennaio 2009

* Jean-Marie Muller è il portavoce nazionale del Mouvement pour une alternative non-violente (MAN, email : [email protected] ; sito : www.nonviolence.fr). Filosofo e scrittore, è autore ultimamente di Il principio nonviolenza, (trad. italiana, Pisa University Press 2004) e del  Dictionnaire de la non-violence (Le relié Poche, 2005).

(traduzione di Enrico Peyretti)