La creazione
Edward O. Wilson, La Creazione. Un appello per salvare la vita sulla Terra, Adelphi, Milano 2008, p. 198
Si potrebbe dire che esistono due Edward O. Wilson. Uno è il padre della sociobiologia, l’altro il cantore della biodiversità. Il Wilson sociobiologo è stato spesso discusso, quello ecologista viene in genere ammirato.
La sociobiologia è un programma di ricerca inaugurato da Wilson nell’omonimo libro del 1975, definito, in estrema sintesi, dall’idea che la sociologia può essere ricondotta nell’alveo della biologia; ovvero, per comprendere il sociale occorre far ricorso ai meccanismi della selezione naturale. Gli stessi principi che spiegano la formazione dei caratteri morfologici servono dunque a rendere ragione degli aspetti essenziali del comportamento sociale, della psicologia umana, delle differenze culturali.
Le tesi sociobiologiche, confluite poi in parte nella psicologia evoluzionistica, che ha provato a rielaborarle con maggior accortezza, sono state oggetto di innumerevoli critiche, le più articolate e convincenti, e in qualche misura definitive, sono forse quelle formulate in Vaulting Ambition di Philip Kitcher, le più virulenti probabilmente quelle contenute in una lettera alla «New York Review of Books», nella quale il gruppo di firmatari, tra cui Stephen Gould e Richard Lewontin, indicava nella sociobiologia una discendente delle prime teorie eugenetiche e del nazismo.
Confessiamo che anche a noi questo Wilson non piace granché. La sociobiologia alimenta fastidiose semplificazioni, se è vero che biologia e selezione naturale possono giocare un ruolo nella decifrazione dei comportamenti umani, è altrettanto vero che un ingenuo adattazionismo e l’ambizione di fornire una spiegazione complessiva dei codici comportamentali su basi rigidamente darwiniane rappresentano un riduzionismo inservibile.
Ma c’è, si diceva, un secondo Wilson, l’accanito difensore della biodiversità, parola che è stato lui ad introdurre nel discorso scientifico durante gli anni Ottanta. Si può gettare un ponte fra questi due Wilson? Forse sì, se è vero che in alcune sue pagine «mostra come sia le propensioni negative della specie umana contro la biodiversità sia le possibili vie d’uscita per la sua salvaguardia siano radicate in comportamenti istintuali e adattivi frutto della selezione naturale.
Pertanto le due dimensioni del suo pensiero non sono in contraddizione, ma fanno parte di una visione selezionista coerente» (T. Pievani, Introduzione alla filosofia della biologia, Laterza 2005, p. 243). Si tratta comunque di terreni di ricerca differenti, per quel che riguarda quello ecologico va tenuto presente che sono ormai parecchi anni che Wilson pubblica libri informati e appassionati sulla necessità di salvaguardare la ricchezza del mondo vivente (limitiamoci a ricordare le traduzioni italiane di La diversità della vita, Rizzoli 1993 e Il futuro della vita, Codice 2004).
La Creazione, appena uscito presso Adelphi, è l’ennesimo appello, come recita il sottotitolo, che Wilson lancia per salvare la vita sulla Terra. La particolarità del libro sta nel fatto che in questo appello viene chiamato in causa come interlocutore un uomo di chiesa, un immaginario, sembrerebbe, reverendo battista del Sud degli Stati Uniti. L’invito che Wilson gli rivolge è quello di accantonare le divergenze metafisiche e coniugare le forze della scienza e della religione «per salvare insieme la Creazione». Salvarla innanzitutto per un nostro concreto bisogno esistenziale, perché «il destino della Creazione è tutt’uno con il destino dell’umanità».
L’uomo è saldamente radicato nella biosfera – nel complesso reticolo del mondo vivente – e da questa dipendente, poiché assieme ad essa si è evoluto nell’arco della sua storia. Il potere distruttivo dell’umanità ha però assunto proporzioni smisurate, nessuna specie è mai divenuta quello che l’uomo è attualmente: una «forza geofisica» capace di mettere a rischio l’esistenza di un gran numero di altre forme viventi.
Sovente le lotte ecologiste prendono a simbolo alcuni grandi mammiferi. Non è sbagliato, certamente, se l’uomo contribuirà all’estinzione di animali intelligenti come gli elefanti, o primati così simili a lui come i gorilla, o specie che incarnano il fascino e il terrore della natura selvaggia quali orsi o tigri, si caricherà di una colpa imperdonabile. Ma occorre uno sguardo più ampio e profondo. Opportunamente Wilson dirotta la nostra attenzione sulle creature che brulicano in un pugno di terra, sul mondo vastissimo degli esseri microscopici, spesso insignificanti ai nostri occhi, sul ruolo essenziale svolto da formiche, bruchi, lepidotteri, piccole erbe per il mantenimento della biosfera, sui servizi che forniscono per la nostra stessa sopravvivenza. Tutto questo può condensarsi in una parola: biodiversità.
Non si tratta di uno slogan astruso, né di un’astrazione incomprensibile, ma di una ricchezza concreta, tangibile: se la biodiversità si impoverirà «avremo perso per sempre l’opportunità di scoprire nuove medicine, nuove varietà di coltivazioni, nuovi tipi di legno, nuove fibre, nuove piante che rigenerano il suolo, nuovi sostituti del petrolio e di altri prodotti». I paleontologi ritengono che in passato si siano succedute cinque grandi estinzioni di massa. Alcuni segnali fanno supporre che possa aver preso avvio la sesta e che l’attività umana giochi in essa un ruolo essenziale. Il tasso di estinzione calcolato ha subito un’accelerazione preoccupante. Dopo «ciascuna delle cinque grandi estinzioni precedenti ci sono voluti circa dieci milioni di anni perché l’evoluzione recuperasse il livello di biodiversità perduta».
Forse il nucleo profondo del pensiero ecologico di Wilson può sintetizzarsi in questa riga: «noi abbiamo bisogno degli insetti per sopravvivere, ma gli insetti non hanno bisogno di noi». Torna in mente il Dialogo di un folletto e di uno gnomo di Leopardi: i due dialoganti constatano che la razza degli uomini si è estinta, eppure il mondo che essi credevano «fosse fatto e mantenuto per loro soli» continua imperturbabile ad esistere.
Contravveleni utili per guarire da un insano antropocentrismo. Conviene all’uomo comprendere di essere parte di un intreccio e non un fine verso cui tutto converge, un detentore di privilegi esclusivi. Di questo tenore è anche l’allarme che James Lovelock ha lanciato con l’«ipotesi Gaia»: se l’agire umano dovesse farsi più invasivo, l’equilibrio vitale potrebbe mutare a suo danno. È inverosimile che l’uomo riesca a sradicare la vita sulla Terra, ma immaginabile che comportamenti sempre più dannosi verso il pianeta portino la vita ad evolversi in forme a lui sfavorevoli, alle quali non sarà capace di adattarsi.
L’invito che Wilson ci rivolge è anche quello della partecipazione ad un’avventura. Un’avventura di conoscenza il cui terreno di esplorazione è la natura stessa, intendendo per natura «tutto ciò che nel pianeta Terra non ha bisogno di noi e può esistere indipendentemente da noi». Più l’educazione naturalistica si diffonderà, più cresceranno le nostre difese immunitarie. Ciò che ignoriamo della biosfera è molto di più di quel che sappiamo.
Si stima che il numero di specie sconosciute sia di gran lunga superiore a quello delle specie note. Ampliare la mappa delle forme viventi è un compito urgente e i finanziamenti necessari relativamente modesti. Lo studio delle possibilità di conservazione della biodiversità e la loro concretizzazione si rivelerebbero «il miglior affare economico che l’umanità abbia mai fatto dai tempi dell’invenzione dell’agricoltura». Per Wilson, nella salvaguardia della Creazione esigenze morali e vantaggi economici si fondono.
Una cosa sembra indiscutibile, la questione ecologica è diventata uno snodo imprescindibile. Chiunque oggi voglia provare a pensare – filosoficamente, politicamente o religiosamente – non può sfuggirla; facendo però attenzione a non incorrere in alcune ingenuità ambientaliste. La più generale consiste forse nella convinzione che esista una sorta di «armonia naturale», concepita come un equilibrio statico e sempre identico a se stesso. Una natura così intesa, nella quale l’uomo si inserirebbe come unico elemento perturbatore, può considerarsi un retaggio creazionista. Va preso atto invece che gli ecosistemi sono caratterizzati da una struttura instabile e soggetta a continue trasformazioni. L’ecologia delle comunità ha constatato che gli ecosistemi più in salute non sono quelli maggiormente stabili.
Un programma ecologico di semplice conservazione della biosfera dunque è di per sé irrealizzabile, un intervento umano volto a ristabilire un equilibrio spezzato condurrà verosimilmente a nuove dinamiche evolutive e non all’equilibrio precedente. Allo sfruttamento esasperato del mondo naturale inteso come bacino di risorse di cui disporre senza limiti, non si può rispondere con l’opposta estremizzazione di una natura intangibile, bensì con la consapevolezza che l’azione umana è una forza che non può evitare di entrare in relazione con gli ecosistemi e di modificarli, ma deve farlo con l’accortezza di non sottoporli a una sovrabbondanza di perturbazioni che finirebbe per impoverirli eccessivamente. Il monito di Wilson a non indebolire la biodiversità è sacrosanto, ma va affiancato ad una piena coscienza delle interazioni evolutive e del concetto di «conservazione».
Ancora un’osservazione, Wilson insiste molto sulla bellezza della natura, sulla meraviglia che suscitano le forme viventi, riecheggiando le «infinite forme estremamente belle e meravigliose» con cui termina L’origine delle specie di Darwin. I prodigi creativi dell’evoluzione e la magnificenza estetica del mondo naturale sono stupefacenti, non si può che convenire. Si eviti però l’errore di una visione idealizzata o edulcorata.
Questa bellezza, non che Wilson lo ignori ovviamente, poggia su catene alimentari nelle quali il tributo di dolore è continuo, inarrestabile. La capacità che gli esseri umani hanno evoluto di avvertire pietà per la sofferenza degli altri, comprese le specie differenti dalla loro, è quasi del tutto estranea al resto dei viventi. L’uomo è strettamente legato alla natura, ne è parte, e da essa emerge con delle qualità che possono trovarsi in nuce anche nel restante mondo animale, ma che solo nell’umanità hanno raggiunto una pienezza riconoscibile. L’uomo è animale dalle potenzialità uniche.
Potenzialità distruttive inedite, ma anche potenzialità di attenzione nei confronti dell’intera biosfera. Un cristiano, visto che Wilson chiama in causa la religione cristiana, spera in un Dio capace di redimere l’intera Creazione, poiché essa, dice Paolo, «geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm, 8, 22). Gli uomini, credenti o meno, dovrebbero essere consapevoli di non poterla redimere, ma consapevoli al tempo stesso di avere la possibilità di attenuarne il dolore: dovrebbero cioè sviluppare la capacità di avvicinarsi ad essa con lo «sguardo» della redenzione, il risvolto tangibile e terreno di questa sta nel prendersi cura.