Ineguaglianza: la nuova (vecchia) dinamica del conflitto – Jake Lynch

Ho cominciato a insegnare il primo corso in assoluto di giornalismo di pace nell’ottobre 2000, giusto pochi giorni dopo lo scoppio di quella ormai nota come l’Intifada di Al-Aqsa. La trattazione a tappeto da parte dei media di scontri fra israeliani e palestinesi mise a disposizione una ricca fonte di materiale per permettere agli studenti di immergersi nell’argomento, con gli schemi tipici dell’omissione e della distorsione presentati come giornalismo bellico, bene in evidenza.
In retrospettiva, lo si direbbe l’avvio di una serie di vistosi sviluppi nei primi anni del secolo, che ci insegnava a cercare manifestazioni di mancanza di pace principalmente in eventi di violenza diretta, aventi luogo fra nazioni e/o stati. Dopo un anno o giù di lì, molte redazioni erano al punto di saturazione (o oltre) con tutte quelle storie di esplosioni suicide e incursioni militari – tant’è che era in corso il consueto orribile gioco all’inflazione delle vittime con incidenti sempre più grandi necessari per mantenere la stessa rilevanza alle notizie, quando improvvisamente l’attenzione si volse all’altra sponda dell’Atlantico.
Gli attacchi dell’11 settembre furono immediatamente tradotti in termini realistici da quasi tutti i media. Proiettate sullo sfondo degli studi delle principali reti USA di notiziari via etere come via cavo stavano le parole “Attacco all’America”, rapidamente volte in “l’America reagisce”. Contro quale paese? Perfino già in questa prima fase la reazione istantanea del governo Bush – puntare il dito sull’Afghanistan – fu messa in discussione, anche da due prominenti giornalisti di media mainstream USA, Thomas Friedman del The New York Times e Seymour Hersh di The New Yorker.
E l’Arabia Saudita, si chiedevano? Dopo tutto, fu immediatamente chiaro che 15 dei 19 dirottatori noti erano sauditi. Il rapido cestinamento di questa importante domanda – sebbene non ci fu allora né mai una risposta soddisfacente – fu un esemplare caso di studio di come costruire una cornice per ciò che interessa e imporre un’agenda. L’accademico dei media, Robert Entman, coniò perfino  un nuovo termine, attivazione a cascata, per tale modo di procedere che permise alla Casa Bianca di prevalere mediante una “rete di élite non governative” articolate con le strutture e i processi di formazione delle notizie.
Le invasioni dell’Afghanistan prima e dell’Iraq poi hanno fornito immagini e narrazioni drammatiche per portare il conflitto nei salotti della gente. Eppure, la singola immagine più coinvolgente fra quelle trasmesse a livello internazionale in quel periodo si può ben dire che non fosse affatto di una guerra ma dello tsunami asiatico, l’onda che avanzava per la strada principale di Banda Aceh, travolgendo letteralmente ogni cosa davanti a sé. Nelle prime settimane del 2005 i giornali australiani, in particolare, recavano ogni giorno in prima pagina le ultime notizie sullo tsunami, spesso come stima delle vittime, che alla fine esplose a 250.000 o più.
Il primo ministro John Howard promise all’Indonesia, il paese più colpito, un miliardo di dollari in aiuti e garanzie su prestiti, con la motivazione esplicita di voler fare il pari con la generosità degli australiani che offrivano donazioni mediante enti caritatevoli.
Questo tenore di notizie era ancora nel pieno quando le Nazioni Unite pubblicarono la loro stima più recente del numero di bambini al mondo che muoiono per mancato accesso al cibo, all’acqua potabile e alla medicina di base – circa 11 milioni all’anno. Questo avvenne il 17 gennaio 2005, 22 giorni dopo l’abbattersi dell’onda gigantesca sugli stati rivieraschi dell’Oceano Indiano, periodo in cui il macabro tributo della privazione cronica sarebbe aumentato di altri 660.000 bimbi, che sminuivano anche i pronostici più pessimistici sulle vittime dello tsunami. E attenzione che questi dati riguardavano solo i  bambini.
Eppure i principali giornali australiani non ne presero assolutamente nota; solo il Canberra Times di modesta tiratura ne scrisse due settimane dopo. Né fu più saggio il pubblico dei vari show d’attualità radio o televisivi. L’ONU usava le cifre come grido per chiamare a raccolta i governi e raddoppiare i loro sforzi nel perseguire i MDG (Millennium Development Goals, Obiettivi di Sviluppo del Millennio) miranti ad alleviare la povertà estrema. A tale scopo era stata anche lanciata una campagna affinché il gruppo di nazioni ricche del G8 cancellasse ampie porzioni del debito contratto dai paesi poveri. Campagna  che fu contrastata, allora, dal presidente G.W.Bush, con il sostegno dello stesso John Howard.
In breve, c’è una profonda inclinazione arbitraria dei media a favore dell’evento rispetto al processo, e, che si tratti di guerra o disastro naturale, questo fa scrivere invariabilmente la prima riga di un dramma di interventi. L’evento, l’emergenza, è un disturbo alla normalità, a un sistema che deve pur aver funzionato bene fino a quel momento, dato che non s’è sentito nulla in contrario. Ci si chiede: Che cosa dobbiamo fare per riportare la normalità?, marginalizzando le domande sulle ingiustizie prodotte dal sistema, che fanno parte della normalità. Le élite, che generalmente prevalgono come fonti per le notizie – che avvengano sia per attivazione a cascata o meno – sono dopo tutto ai comandi della normalità, sicché non ci può essere niente di intrinsecamente sbagliato in quanto alle notizie in sé.
E’ il pane dell’analisi accademica dei media che la critica al sistema entri in ballo solo quando e nella misura in cui diventi argomento di discordia tra élite, come dimostrato dalla guerra USA al Vietnam verso la fine degli anni ’60. Di recente, la campagna delle organizzazioni internazionali d’aiuto per la remissione del debito senza condizioni nel mondo in via di sviluppo – riconoscendo le ingiustizie sia storiche sia perduranti – ha trovato ascolto presso il governo britannico, che sollevò la questione al vertice G8 di Gleneagles del 2005. In quella sede apparve insolito il dissidio fra la Gran Bretagna e il suo alleato tradizionale, gli USA: ecco un esempio di discordia tra élite. La serie di concerti pop Live8, tenuti in ciascuno dei principali paesi industrializzati mondiali, servì a coinvolgere nel dibattito una sezione trasversale di pubblico più ampia.
Sul piano dell’immagine, la campagna riuscì. Il governo Bush fu apparentemente “convertito” e le dichiarazioni da Gleneagles furono incoraggianti. Tuttavia, il G8 non è un’organizzazione con vincoli istituzionali, trasparente, coerente; s’atteggia a componente di buona fede della governance globale, ma non lo è. E in effetti i paesi poveri altamente indebitati (HIPCs) trovarono ben presto che i debiti sarebbero stati cancellati solo adempiendo a condizioni severe, condizioni che non sarebbero state accettate almeno in quanto imposte proprio dai paesi stessi del G8.
La medicina approvata ammannita dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) è che tutto venga monetizzato, liberalizzato e deregolamentato, in modo da scatenare i presunti poteri guaritori del mercato sui redditi dei poveri. Invariabilmente i mercati creano vincitori e perdenti – merci e servizi vengono dati a prezzi che qualcuno può permettersi e altri no.
C’è un presunto effetto sgocciolamento o una “marea crescente che solleva tutte le imbarcazioni”. Anche se il piano funziona, ugualmente comporta che qualcuno sia posto in yacht di lusso, mentre altri possono forse rimediare rattoppi più grossi per le proprie canoe. Si tratta in breve di una ricetta per ampliare l’ineguaglianza. Ed è un problema? L’ineguaglianza di reddito è meno importante che l’ineguaglianza d’opportunità, si argomenta: sempre che voglia dire qualcosa. A questo proposito, una volta, Margaret Tatcher spiegò che deve voler dire l’opportunità di essere ineguale. Questo è il toccasana del neoliberismo, il credo economico e politico dominante degli ultimi decenni.
Infatti, ci sono sempre più prove che l’ineguaglianza è qualcosa che ignoriamo a nostro rischio, un sintomo di una normalità in serio deragliamento. Una volta intervistai Richard Wilkinson, professore di Sanità Pubblica all’Università di Nottingham, in Gran Bretagna, riguardo ai vincitori e perdenti che vengono creati dalla privatizzazione del sistema pensionistico britannico. Nel suo libro, The Impact of Inequality, egli mostra come le società ineguali siano più conflittuali e più violente. L’ansia di appartenere a un basso status sociale, in un ambiente sempre più conscio dello status, sta uccidendo persone. I poveri muoiono più giovani, non perché abbiano stili di vita meno sani ma perché passano decenni portandosi appresso livelli eccessivi di ormoni correlati allo stress.
Wilkinson si sofferma su una categoria nota come lo “psico-sociale … gli stati psicologici della gente sono altamente situazionali e pertanto strutturati socialmente”. Società più ineguali hanno tassi maggiori di assassinio, il che non sorprende pensando a qualcosa denominato, niente meno-che, la Scala Cook-Medley di Ostilità nel Repertorio di Personalità Multifase del Minnesota! Per quanto suoni astruso, tale strumento di ricerca ci permette di calibrare le cause psico-sociali degli atteggiamenti violenti – il razzismo e il sessismo aumentano pure essi con l’ineguaglianza – e dei comportamenti.
Wilkinson presenta anche prove che il tasso di partecipazione elettorale cala con l’ampliarsi dell’ineguaglianza. In Gran Bretagna, un’eminente figura del governo neolaburista, Peter Mandelson, ha detto che il partito era “intensamente rilassato riguardo al diventare disgustosamente ricchi”. Il sostegno ai bassi redditi ha impedito un netto sprofondamento dello standard di vita dei più poveri, che tuttavia sono scivolati ancor più in basso. E’ una coincidenza che il tasso partecipativo alle ultime elezioni del 2005 sia finito al minimo storico del 59%?
Queste non sono dinamiche conflittuali nuove, ma possono essere rilevanti come non mai. La ribellione Naxalita in India, menzionata la volta scorsa, non è che uno dei conflitti dove si affronta direttamente lo schema di compensare i ricchi mentre i poveri, nel migliore dei casi, tirano avanti, mediante una campagna di resistenza violenta. Paul Rogers, il professore di studi per la pace a Bradford, che collabora regolarmente con un editoriale al sito web Open Democracy, ne cita parecchi altri dove bersagli economici si focalizzano su istanze di ineguaglianza – il nuovo esercito popolare comunista nelle Filippine, i talebani il cui bersaglio primario è ora la rotta principale dei rifornimenti a Kabul localmente nota come Autostrada # 1, e gruppi ribelli in Messico e Nigeria che attaccano installazioni petrolifere e oleodotti. Tutti segni, dice Rogers, di una guerra economica globale.
Nonostante gli scontri in Palestina, Afghanistan e Iraq, che s’impongono nei titoli, i primi anni di questo secolo sono un periodo di declino delle guerre convenzionali per numero e intensità. Il Human Security Brief (Compendio sulla Sicurezza Umana), pubblicato nel 2006 dall’Istituto Liu in Canada, ha rilevato che il numero di guerre fra nazioni e stati è calato del 40% nel periodo fra il 1992 e il 2005. Benvenuto e utile correttivo ad affermazioni fuorvianti di capi politici in cerca di giustificazioni all’aumento delle spese in armamenti, per cui abiteremmo un mondo più pericoloso, pieno di insidie.
Le quali tuttavia oggigiorno provengono dall’interno. La parola neoliberista affiora di rado nelle notizie. I reporter possono raccontarci della globalizzazione, privatizzazione, dei profitti e delle perdite e – più attualmente – delle crisi economiche. Dovrebbe parlarne più sovente, anche solo per permettere una maggiore critica al sistema. La normalità sta andando nel senso sbagliato e ha bisogno di essere ripensata, riprogettata e ristrutturata. Dobbiamo intensificare la discussione in merito, e il giornalismo può contribuire – ma solo se acquisisce un po’ più di pratica nell’uso degli strumenti concettuali necessari per delineare le istanze conflittuali del nostro tempo.

8 dicembre 2008

Traduzione italiana a cura di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

Titolo originale:     INEQUALITY: THE NEW (OLD) DYNAMIC OF CONFLICT
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