60 anni: Diritti umani come discorso

Johan Galtung

Si è appena concluso a Parigi un incontro celebrativo del 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948: il 9° vertice  mondiale dei titolari di Premi Nobel per la Pace, dedicato a “Diritti Umani e un Mondo senza Violenza”; una parata impressionante di 50 contributi, metà dei quali da Nobel e metà da “ospiti invitati”. Allora, come stanno i diritti umani in quanto approccio alla condizione umana, sociale e mondiale, come discorso?

I diritti umani, incorporati nella costituzione francese del 1789 e riformulati come Dichiarazione Universale, sono una importante conquista, prossima a una costituzione mondiale. La Dichiarazione Universale non è diritto internazionale, ma lo sono i Patti integrativi del dicembre 1966 – civili-politici, economico-sociali-culturali. Ma questi non sono stati ratificati dagli USA e, beneficiando essi ancora di una residua egemonia, tale mancata ratifica serve a qualcuno come segnale di semi-validità. Come per l’Articolo 1.2 che afferma chiaramente che i ricavi delle risorse di un paese competeranno al popolo di tale paese – non a stranieri, non solo alle élite: molto significativo in Nigeria, Sudan, Congo, ecc.

E questo ci porta dritti al punto: il discorso sui diritti umani afferma valori morali derivati da una cultura dei diritti umani che favorisce quelli con un deficit di diritti umani. Un valore può tradursi in una pretesa e divenire una forza sociale, e dove c’è una forza c’è di solito una contro-forza seppure non necessariamente commisurata. Magari più forte, si spera equilibrata dalla legittimità degli obiettivi di diritti umani, attribuiti a ognuno. C’è molta forza morale cui attingere e una tradizione ricchissima.

Ma il discorso conflittuale aggiunge qualcosa che spesso rende il discorso sui diritti umani somigliante a un ingenuo moralismo disegnato per sollevare l’oratore piuttosto che coloro che sono in condizione di deficit di diritti umani.

Alla base di questo approccio c’è l’idea che in qualunque tematica ci sia più che il solo obiettivo dei diritti umani. Possiamo simpatizzare con i reietti con un catalogo di diritti umani inadempiuti non solo definendo i loro obiettivi ma anche attribuendo loro una legittimità che li renda non-negoziabili. Ma che ne è stato dell’altra parte o delle altre parti e dei suoi o dei loro obiettivi? Dobbiamo supporre che non ci sia nessuno i cui obiettivi possano differire dai diritti umani al punto di essere incompatibili con essi? L’alto livello morale dei diritti umani ha forse reso gli obiettivi incompatibili non solo illegittimi ma anche invisibili e impronunciabili come quelli dei “terroristi”?
Un discorso sui diritti umani è essenzialmente moralistico e fonda la legittimità degli obiettivi. Un discorso sul conflitto è essenzialmente discorsivo, analitico, identifica le parti coinvolte e i loro obiettivi e procede quindi a discutere la legittimità di tali obiettivi e il modo per superare i divari fra tutti gli obiettivi legittimi delle parti stesse.

La legittimità data ai diritti umani tende implicitamente a far considerare gli obiettivi di chiunque illegittimi, d’intralcio. La non-ratifica USA rende automaticamente tale posizione illegittima? Nel senso di “investimenti che legittimino l’incameramento sempiterno dei profitti”, sì. Ma c’è una qualche legittimità nella compensazione, nel pagamento della R&S (ricerca e sviluppo) iniziali e nello sviluppo dei mezzi di produzione – un dibattito ben noto.
Passiamo a uno meno noto. I diritti riferiti agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, come l’acqua, il cibo, l’abitazione, l’alfabetizzazione-istruzione, la sanità, l’energia, si possono tutti facilmente soddisfare se c’è la volontà di farlo. Ma questa manca molto spesso. C’è greve inerzia, perfino pesante azione contraria. Perché, e che cosa si può fare?

Primo, a causa di un forte interesse a mantenere la violenza strutturale, tenere la gente in abietta miseria, altamente sfruttabile e aggrappata alla minima possibilità di un brandello di lavoro, qualunque istruzione la renderà più costosa, e allora li si tenga dove stanno, usando la “bellezza” di un capitalismo che genera ricchezza per alcuni ma anche povertà per molti, riproducendo in tal modo la violenza strutturale. La si chiama “libero mercato”, “libertà” addirittura.

Secondo, a causa di una gran paura della violenza diretta se la gente dei bassi strati sociali dovesse uscire dall’apatia della miseria, capace di trattare gli altolocati come essi sono stati trattati da loro. Un’ansia esistenziale. Pensiamo ai cinesi timorosi dei contadini oppressi per millenni, che si sollevino in una Rivoluzione Culturale, un po’ come negli anni 1966-73. Pensiamo agli hindu di casta superiore timorosi dei senza casta, i dalit. E pensiamo ai bianchi del Sud degli USA che sanno bene che cosa hanno fatto agli schiavi. Pensiamo ai latifondisti-militari-appartenenti al clero dei poderes fácticos (poteri di fatto, o poteri forti, ndt) iberici e alle loro vittime fra la gente comune in una Colombia che combatte le FARC ma non le condizioni che le creano.

Ma l’interesse allo sfruttamento e la paura di rappresaglie sono obiettivi legittimi? Riformulandoli come “interesse al sostentamento” e “amore per la sopravvivenza” suonano perfino molto legittimi e inducono a una conclusione: non ci sarà soddisfazione dei diritti umani fondamentali di chi sta più in basso a meno che non si soddisfino pure questi diritti fondamentali di chi sta più in alto. Ma come possiamo conseguire questi obiettivi?

Non è poi così difficile. L’istruzione, con l’alfabetizzazione e l’istruzione permanente per tutti, è basilare. Servirebbe un minimo garantito, come reddito vitale o in misure di welfare; rendendo il lavoro più orizzontale e ad alta intensità di mano d’opera per garantire equità e spazio per tutti. Una formula è quella della “cooperativa”. Per quanto riguarda la paura: con atti di conciliazione, così ben compiuti da un Kevin Rudd verso gli aborigeni in Australia o da un Silvio Berlusconi verso la Libia.

C’è parecchio lavoro da fare. Ma un punto è basilare: per quanto possiamo favorire i diritti umani, essi possono risultare inutili se non ci si cura dei conflitti e delle forze contrarie.


EDITORIAL, 15 Dec 2008

#40 | Johan Galtung

Titolo originale: 60 YEARS: HUMAN RIGHTS AS A DISCOURSE

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis