Intervento o complicità?

Jake Lynch

Che cosa stiamo facendo riguardo alla Somalia? Una domanda che apparentemente sta risalendo la scala delle priorità dei ministeri degli esteri e della difesa preoccupati per le anticaglie dei ‘pirati’, che hanno recentemente aggiunto una petroliera saudita a un bottino che già comprendeva una spedizione di carri armati russi. Essi costituiscono una “minaccia al commercio e alla prosperità globali”, ci viene ora detto, rendendo troppo rischioso il traffico lungo una delle rotte marittime chiave mondiali.

E’ una storia che avrebbe potuto essere fatta apposta per il reportage, dagli editoriali sui capi agitati fra le cancellerie d’Europa agli intrighi su chi primaggerà fra francesi, britannici e da ultimo indiani, insieme ovviamente a racconti di audacie in alto mare. E, come per molte storie, sembra, gran parte dei giornalisti la considerano “troppo valida per doverla verificare” o quanto meno contestualizzare.

Il dizionario telematico di libera consultazione definisce pirata “chi rapini in mare o saccheggi la terra dal mare senza mandato di una nazione sovrana”. Questo potrebbe effettivamente valere per parecchi che hanno solcato le acque al largo della Somalia, ivi compresi battelli da pesca di paesi UE battenti bandiere di convenienza, che hanno stipulato accordi con autorità illegittime in Somalia ed effettivamente distrutto il locale settore peschereccio, così togliendo la principale fonte legale di mantenimento a portata della gente del posto. I pirati potrebbero dire del tutto ragionevolmente di avere più diritto alle acque costiere del paese e a qualunque ricavo derivabile da commerci in tali acque di quanto ne abbiano molti fra quelli che ora ‘intervengono’ per far cessare le loro attività.

Basta fare una puntata di ricerca in rete di notizie sulla Somalia per vedere quante volte i termini fuorilegge e/o anarchia affiorino nei reportage recenti. Il che data secondo molti dal momento in cui cadde il regime del presidente Mohammed Siad Barre nel 1991. Gli USA guidarono un intervento sotto mandato ONU per ristabilire l’ordine, secondo la narrativa tipica, per poi ritirarsi dopo l’incidente al Black Hawk abbattuto, in cui perirono 18 ranger scelti dell’esercito. Da allora, secondo il Daily telegraph di Londra,”il paese è stato diviso in un mosaico di feudi, contesi da signori della guerra”. E’ l’anarchia della Somalia – ha scritto il redattore diplomatico del quotidiano – ad averla “fatta diventare un regno pirata”.

Sempre a Londra, il redattore per la sicurezza del Guardian, Richard Norton-Taylor, ha riferito di un progetto UE per l’invio di una “armada” nel Golfo di Aden per “affrontare e smembrare il flagello della pirateria” – frase altisonante del ministro britannico David Miliband. “I paesi europei per lo più considerano la pirateria intrinsecamente connessa con la crisi economica e politica della Somalia, stato fallito” sempre secondo Norton-Taylor.
E oltre Atlantico, il New York Times ha riportato la notizia di un “dramma nelle acque notturne dell’oceano Indiano” allorché la marina Indiana affondò un vascello sospetto e costrinse l’equipaggio di un altro vascello pirata ad abbandonarlo.

Omissione importante in tali corrispondenze è quella di qualunque resoconto adeguato sul tentativo interno di ristabilire l’ordine in Somalia: ovvero, l’Unione delle Corti Islamiche e la loro ascesa fino al punto in cui, dieci anni dopo, controllavano gran parte del territorio somalo, un’area comprensiva di tutte le città e la vasta maggioranza della popolazione.

Il summenzionato David Blair caratterizza tale momento come prova che “gli islamisti radicali hanno chiaramente identificato la Somalia come obiettivo d’espansione. Nel 2006 un gruppo estremista autoproclamatosi Unione delle Corti Islamiche conquistò Mogadiscio e assunse per breve tempo il controllo della Somalia meridionale”.

Non c’è alcuna curiosità rispetto al fenomeno molto insolito di una presa del potere a livello nazionale da parte di giudici? Le Corti applicavano la shari’a, che per molti in Occidente evoca il taglio di mani e di teste, ma la cui popolarità in Somalia è attestata dall’aver formato centinaia di magistrati per utilizzare la shari’a nell’arbitrare contese di proprietà fondiaria.

Le “complesse alleanze, stabilite e rotte con sorprendente velocità” fra clan rivali, che Blair identifica come il perno dei problemi somali, hanno causato il peregrinare per anni di innumerevoli famiglie da una parte all’altra di Mogadiscio. La consuetudine per cui i detentori delle chiavi mantengono la proprietà delle relative case in zone evacuate da tempo era e rimane un ostacolo principale a qualunque prospettiva di pace. L’Unione delle Corti Islamiche fu il primo e finora solo gruppo ad occuparsene e tentare di affrontare praticamente il problema.

A questo punto, ovviamente, la “guerra al terrorismo” era in piena attività e un governo islamico emergente in un paese strategicamente vitale era evidentemente troppo per lo stomaco di Washington. Steve Bloomfield, in un articolo documentario del mio vecchio giornale, l’Independent, redatto mesi prima dell’attuale eccitazione per la pirateria, riferiva della trama USA per addestrare ed equipaggiare le forze armate della vicina Etiopia come esercito delegato, dato che l’opinione pubblica USA avrebbe rifiutato qualunque coinvolgimento diretto di proprie truppe in Somalia.

Secondo questo resoconto, quando gli etiopi iniziarono l’invasione, nel dicembre 2006, “gli USA avevano dato la loro approvazione all’operazione e fornito intelligence e supporto tecnico chiave”. “Agenti CIA si spostarono con le truppe etiopiche assistendo nel dirigere le operazioni”, dopo mesi di ricognizioni aeree USA su Mogadiscio con aerei done Predator (senza pilota, NdT). Bloomfield aveva parlato con un addestratore militare USA in Etiopia che “diede all’ambasciata USA un elenco di armi utilizzabili dagli etiopi. ‘Hanno avuto quello che gli serviva? Non disse che cosa”.

Gli Stati Uniti hanno una legge per il Controllo delle Esportazioni d’Armi che dovrebbe limitare le vendite di armi ai soli paesi che se ne servano per la sicurezza interna, la legittima difesa, o la partecipazione a una missione di pace ONU. Mentre questo caso era in realtà uno di una lunga serie di esempi di intervento USA dissimulato, per trasformare un problema politico in uno militare. Durante l’ascesa delle Corti, la Somalia ebbe un “governo federale transitorio” che sostanzialmente fece ben poco oltre a starsene inerte al proprio quartier generale nella città di Baldoa. Il ruolo appropriato della “comunità internazionale” sarebbe stato di promuovere negoziati fra le Corti e il governo transitorio, ma questo fu impedito dall’invasione etiopica.

I risultati sono stati disastrosi. Gruppi autorevoli di monitoraggio, compresa Amnesty International e Human Rights Watch hanno condannato lungamente la serie di cospicue violazioni ai diritti umani, di crimini di guerra in forma di bombardamenti a tappeto su villaggi e puro esercizio distruttivo a tutto campo di tale operazione, che ha creato in Somalia la maggior popolazione di profughi al mondo. Attacchi aerei rivendicati dagli USA – e riferiti dai media – come riuscite missioni per espungere bersagli primari di ‘Al Qaeda’ risultano a un’ispezione ravvicinata essere stati aggressioni indiscriminate a zone civili.

Il movimento delle Corti Islamiche si è trasformato in un assembramento di milizie, Al-Shabab, che sta conducendo un’efficace guerriglia contro gli invasori. Una relazione del Senlis Council documenta le conseguenze politiche di tali episodi, equiparando la Somalia all’Afghanistan e facendo notare: “I Talebani e Al-Shabab stanno sfruttando con successo errori di condotta come i bombardamenti aerei, la povertà perdurante, e l’aggressiva presenza militare straniera, al punto di venir sempre più considerati dalle popolazioni locali come rappresentanti delle proprie legittime rivendicazioni politiche”.

Nella misura in cui il problema della pirateria è effettivamente connesso al caos politico in Somalia, trattarlo come questione di quello che adesso noi intendiamo fare, di come interverremo per “affrontarla e smembrarla”, nasconde la nostra complicità nell’arrivare a questo punto. Nessuno in quelle stesse cancellerie d’Europa ha levato il minimo gesto di protesta per l’invasione su delega che ha cancellato ogni eventualità di pace negoziata e di ripristino della legalità e dell’ordine, almeno per il momento.

Nel 2001 ho diretto una serie di conferenze per giornalisti intitolata Reporting the World (Riferire sul mondo), dove fu redatta una checklist (lista di controllo) per le corrispondenze sui conflitti, un punto della quale era il seguente:

Qual è il nostro ruolo in questa vicenda?

Il  messaggio soggiacente o implicito è che questa gente non sarà a posto fino al nostro (benigno) intervento, attualmente in fase di valutazione?

O la corrispondenza suggerisce che sarebbero a posto se non fosse per la nostra consolidata prassi d’intervento (maligno)?

° Ci sono riferimenti a qualche intervento già in corso, sebbene forse non esplicitato

C’è qualche esame dell’influsso di interventi precedenti o prospettati sul comportamento della gente?

° Ci permette di valutare se un maggiore o un minore intervento rappresenterebbe una soluzione, oppure di distinguere fra diversi tipi di intervento?

Questo è ancora uno schema valido da applicare a qualunque analisi dei reportage sui drammi tuttora in corso al largo della Somalia. La prossima volta che ci descrivono il paese come fuorilegge, ricordiamoci di come e perché è arrivato a tanto.


Titolo originale: INTERVENTION OR COMPLICITY?

Traduzione italiana a cura di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis