Obama il re buono

Enrico Peyretti

Sembra buono, ha un viso aperto, serio, responsabile, uno sguardo diritto. Incarna il bisogno di rinnovamento, dopo la sciagura Bush. Un po’ più della metà degli elettori votanti (cresciuti di numero) lo ha scelto. Il sistema dei delegati gli dà un potere ancora maggiore. Soprattutto, rappresenta una vittoria sul razzismo, vecchio cancro degli Stati Uniti d’America. Il suo volto meticcio è emblema dell’umanità di domani, dappertutto. E’ stato facile, ma giusto, per i commentatori, evocare Martin Luther King e il suo sogno. Con singolare autorevolezza, lo ha notato Desmond Tutu, aggiungendo che la convivenza è possibile anche nelle zone di crisi, e chiedendo che gli Usa la finiscano col vedere l’islam come aggressivo, ma stiano tra i popoli in relazioni multipolari.

Obama è un uomo che riapre una speranza, ma è un re, con tanto di famiglia reale. Il sistema statunitense lo elegge come un re temporaneo, all’interno, ma soprattutto all’esterno, sul mondo. Anche questa posizione scricchiola, ma persiste. Attraverso Obama, e al di là di lui, il problema degli Usa è arrivare a rinunciare all’idea di essere un popolo eletto o da Dio, o dalla storia, o dalla forza, un popolo onnipotente: «Per l’America tutto è possibile», ha esordito Obama nel discorso della vittoria. E’ un’idea pericolosa per la pace e la giustizia, perché instilla a questo popolo da un secolo – il Novecento che forse ora finalmente finisce – l’illusione di esonerarsi dagli obblighi internazionali (ambiente, disarmo, alcuni diritti umani) e dalle istituzioni e regole del nuovo diritto planetario (alla cui fondazione, ancora molto imperfetta, gli Usa hanno contribuito nel 1945). L’arroganza della forza ha portato gli Usa negli ultimi anni al peggio della loro storia.

Obama ha detto nel primo commosso discorso, che abbiamo ascoltato con partecipazione, che la forza degli Usa deve essere quella dei loro ideali, non quella militare o economica. Egli non ha rinnegato le due guerre in corso. Ha anche lui la religione di se stessi, che caratterizza gli statunitensi.  Obama, attraverso resistenze e difficoltà (di cui è cosciente), attraverso contraddizioni estreme – Mc Cain che si congratula con lui «ex-avversario, mio presidente», in un popolo unito, ma infestato di armi, dove l’omicidio politico è sempre all’ordine del giorno – potrà portare il suo paese qualche passo avanti, nella direzione della giustizia, perché ha nella pelle la storia delle vittime.

Con lui, gli Usa sono meno odiati nel mondo, di quell’odio che li colpì, nel 2001, senza che essi, stupidamente, sapessero rendersi conto delle cause.  Obama mostra anzitutto nella sua persona che L’America tutta da nord a sud – di cui gli Stati Uniti sono solo una parte – in cui si risvegliano oggi i popoli nativi colonizzati, è anche figlia dell’Europa e dell’Africa, la madre universale a cui Europa e Americhe hanno succhiato il sangue degli schiavi. Se l’Africa arriva ora a dare coscienza alle Americhe, quella coscienza di uguaglianza e di rifiuto della guerra che Martin Luther King profetizzava fino al martirio, allora gli Usa potranno svolgere un buon ruolo nel mondo, insieme e alla pari con tutti i popoli. Non serve un impero buono. Serve una democrazia dei popoli, giusta e pacifica.