Aldo Capitini, un profilo
Aldo Capitini, del quale ricorre in questi giorni il quarantesimo anniversario della morte (Perugia, 23 dicembre 1899 – 19 ottobre 1968), non è semplicemente una figura di rilievo della nonviolenza italiana, a lui si deve infatti il contributo determinante per l’introduzione stessa in Italia del pensiero nonviolento e delle sue tecniche e modi di attuazione, oltre che della riflessione sulla rilevanza dell’eredità gandhiana.
Persino la parola nonviolenza è di conio capitiniano (per primo la scrisse infatti senza stacchi, allo scopo di non connotarla come un concetto soltanto negativo). Eppure, anche se gratificato da una cerchia di ammiratori piuttosto solida e duratura nel tempo, continua in linea di massima a essere autore poco letto e poco conosciuto, i suoi libri relegati al margine dell’interesse accademico e editoriale. Nessun editore di rilievo ha finora pensato di “riscoprirlo”, i suoi testi sono stati riproposti soltanto da editori piccoli, quando non piccolissimi, circolati in semiclandestinità.1
Mario Martini, che di Capitini è studioso devoto e scrupoloso, nell’introdurre una recente antologia di scritti capitiniani da lui curata esordisce così: «Come massimo teorizzatore ed attuatore della nonviolenza in Italia, ma forse anche in ambito europeo, Aldo Capitini ne ha pensato e messo in pratica più di tanti altri i principi e i metodi». (2)
Queste righe offrono senza dubbio una chiave di comprensione fondamentale – non l’unica certamente – per cominciare a addentrarsi nella nonviolenza capitiniana: essa rimanda infatti a una dimensione nella quale teoria e pratica sono strettamente, inscindibilmente congiunte. Seguendo il percorso intellettuale di Capitini è inevitabile assistere al prendere corpo e forma di questa teoria: dalla prima formulazione negli Elementi di un’esperienza religiosa, suo testo d’esordio (1937),3 sino al progressivo arricchirsi del discorso filosofico e religioso, consolidatosi in un’elaborazione via via più compiuta.
Altrettanto inevitabilmente però un’occhiata, anche sbrigativa, alle sue pagine autobiografiche rivela immediatamente che questo teorizzare affonda le proprie radici in un’urgenza pratica, nella necessità del fare, del coinvolgimento in prima persona. Instancabile e assidua è l’attività che Capitini affianca allo studio, quasi prodigioso il fiorire di iniziative dovuto a un uomo dalla salute precaria come la sua.
L’attenzione alle vicende politiche nazionali e internazionali si riverbera in un’analisi quasi quotidiana; Capitini non ha mai aderito esplicitamente a un partito eppure, o forse precisamente per questo, la sua biografia è impastata di agire politico: dalla lotta contro il fascismo alla costituzione del Centro di orientamento sociale (C.O.S.) di Perugia, nel quale cercava di coinvolgere il maggior numero possibile di persone per discutere ad ampio raggio di qualunque problema amministrativo e sociale inerente alla comunità, nel tentativo di dar concretezza all’ideale regolativo dell’omnicrazia, del potere di tutti. Del resto il risvolto prioritario della sua lotta nonviolenta è eminentemente etico-politico, animato da un continuo testa a testa contro l’oppressione dell’uomo e la riduzione della sua voce addolorata a trascurabile rumore di sottofondo.
Decisivo è anche il coinvolgimento di Capitini nell’ambito educativo, incluso quello strettamente scolastico – egli stesso è stato pedagogista e docente universitario di pedagogia.4 Consequenziale all’educazione alla nonviolenza è infatti la promozione di effettive azioni di resistenza nonviolenta, fra tutte occupa forse un posto privilegiato l’obiezione di coscienza. L’appoggio dato a Pietro Pinna, l’obiettore di coscienza italiano per antonomasia, e in seguito suo importante collaboratore, divenne anche l’occasione per teorizzare più compiutamente il ruolo dell’obiezione, ulteriore conferma dell’indissolubilità dell’intreccio fra prassi e teoria.
Né si può evitare di menzionare la Marcia della pace Perugia-Assisi, quasi un compendio simbolico del suo impegno e della sua ricerca, perché basata, come l’attività dei C.O.S., sul coinvolgimento dal basso del più alto numero possibile di persone, perché esempio riuscito di lotta attiva non riducibile a semplice resistenza passiva e, infine, perché riflette il posto centrale che nell’universo capitiniano occupa la dimensione dell’incontro. Corposa novità per il panorama italiano, la Marcia s’inseriva peraltro in una tradizione di marce nonviolente che risale sino a Gandhi.
Questa concezione nonviolenta corrisponde dunque a una visione del mondo che tenta di delinearsi filosoficamente, o se si preferisce di giustificarsi razionalmente, in assidua simbiosi con una sperimentazione pratica protesa a risolvere i conflitti in forme incruente. Anche a Capitini si attagliano perfettamente le parole del titolo dell’autobiografia di Gandhi, Storia dei miei esperimenti con la verità. La sua nonviolenza non si deve intendere perciò come un principio statico, e nemmeno come un valore, perlomeno un valore in cui rispecchiarsi oggettivamente, ma è un atto di incessante riformulazione e correzione, nel quale il piano etico e quello conoscitivo si implicano e si alimentano vicendevolmente, sostenuti entrambi dalla necessità della testimonianza continua quale mezzo di analisi e comprensione del proprio agire.
Si eviti quindi l’errore di ridurre la nonviolenza a un semplice metodo di lotta, a una tecnica d’azione, è anche questo naturalmente (Capitini scrive un libro pionieristico su Le tecniche della nonviolenza), ma far risaltare questo aspetto a discapito dell’insieme significa perdere di vista la complessa costruzione filosofica capitiniana e la ricchezza dello sfondo esistenziale di cui la lotta nonviolenta non costituisce che una parte.
Analogamente a quel che accade in Gandhi, in Capitini la dimensione religiosa riveste un ruolo centrale, per rendersene conto può essere sufficiente dare un semplice sguardo ai titoli dei suoi libri e notare quante volte compaia in essi un riferimento alla religione. In una pagina di Aggiunta religiosa all’opposizione leggiamo che la «vita religiosa è essenzialmente unità amore verso tutti, ed apertura a una realtà liberata dai limiti del male e della morte, realtà liberata di cui facciamo parte tutti, di qualsiasi condizione, vivi e morti». (5)
Una tensione escatologica bruciante anima le pagine di Capitini e affiora di continuo in esse, la realtà liberata che si prospetta nella sua opera è una realtà che si proietta in un tempo non solo umano e in uno spazio non soltanto politico-sociale, ma in una redenzione che coinvolge l’intero universo. La salvezza a cui Capitini non cessa di guardare non è perciò limitata alla sola vita umana, ma profondamente legata alla convinzione che si dia una compresenza che accomuna tutti gli esseri in una dimensione ulteriore rispetto alla semplice esistenza visibile. Anche in forza di questa convinzione Capitini sposa pienamente la scelta del vegetarianesimo.
Pietro Pinna si è domandato se questa persuasione «sconcertante» e «paradossale» si leghi inevitabilmente all’esercizio della nonviolenza, se cioè l’agire nonviolento possa conservare del tutto la sua efficacia a prescindere da una simile prospettiva escatologica.6 È certo questo un punto di discussione aperto, la cui risposta va in ultima analisi lasciata alle diverse sensibilità individuali, altrettanto certo è però il dovere di non sorvolare rapidamente su questa opzione spirituale, se si vuole intendere Capitini nella sua interezza.
Un’interezza che forse è causa primaria della sua difficile assimilazione culturale, nella misura in cui egli si muove con medesima disinvoltura tanto sul terreno laico quanto su quello profetico, sa parlare con la stessa passione di riforma scolastica e, magari poche righe dopo, di tramutazione strutturale dell’universo. Insomma, proiettata su questo sentiero sdrucciolevole della teoria-pratica la sua opera corre il rischio di apparire eccessivamente teorica agli uomini pratici e, specularmente, pervasa da una troppo accentuata vocazione all’impegno concreto per i teorici.
È dunque lecito porsi, con giusto pessimismo, il problema dell’eredità capitiniana. Eredità a maggior ragione difficoltosa, se si considera in fondo che per Capitini l’avversario più insidioso non è il suo opposto simmetrico – il bellicista, il guerrafondaio –, ma la sua caricatura: il pacifista. Il pacifismo ideologico, semplicistico, confezionato in pochi frasi fatte, che si limita a proiettare il male all’esterno di sé è il nemico naturale della nonviolenza capitiniana, meditata e quotidianamente sofferta.
Sembra allora inevitabile domandarsi se a Capitini sarà dato avere un’eredità degna di questo nome, se per paradosso a minarla non possa essere la sua stessa ricchezza intellettuale, oppure se la sua figura corra ad esempio il rischio, già in un caso fra i meno penalizzanti, di venire ridotta a un esempio di alto spessore morale e null’altro. Può darsi che questa eredità abbia la possibilità di venire tramandata in modo significativo solo se si rinuncia a qualcosa della pienezza originaria, solo se amputata e magari contaminata con altro. Domande che possono ricevere risposte differenti, ma che non è possibile eludere se si vuole affrontare un discorso su Capitini oggi e sulla sua auspicabile rilevanza per il tempo presente e futuro.
Note
1) Si possono ricordare le edizioni di Vita religiosa, Cappelli, Bologna 1985; di Elementi di un esperienza religiosa, Cappelli, Bologna 1990; di Il potere di tutti, Guerra, Perugia 1999; e poi l’importante, ma purtroppo scarsamente diffusa, pubblicazione degli Scritti sulla nonviolenza, a cura di Luisa Schippa, Protagon, Perugia 1992 e degli Scritti filosofici e religiosi, a cura di Mario Martini, Protagon, Perugia 1994. Una nota lieta è data dall’avvio di una collaborazione tra la Fondazione Centro Studi Aldo Capitini e un editore di media grandezza come Carocci in vista della pubblicazione dell’intero epistolario capitiniano; al momento due sono i volumi usciti: Aldo Capitini, Walter Binni, Lettere 1931-1968, Carocci, Roma 2007 e Aldo Capitini, Danilo Dolci, Lettere 1952-1968, Carocci, Roma 2008. Su supporto non cartaceo si segnalano il cd Incontro con Aldo Capitini, curato dall’Associazione Nazionale Amici di Aldo Capitini (Perugia 2000), e i siti internet www.aldocapitini.it e www.cosinrete.it.
2) Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza, a cura di Mario Martini, ETS, Pisa 2004, p. 9. Non si devono dimenticare due precedenti antologie: Il messaggio di Aldo Capitini, a cura di Giovanni Cacioppo, Lacaita, Manduria 1977 e Opposizione e liberazione, a cura di Piergiorgio Giacchè, Linea d’ombra, Milano 1991 (poi L’ancora del mediterraneo, Napoli 2003).
3) Se si eccettuano una recensione e alcune pagine di versi apparse prima del 1937.
4) Studi recenti sui risvolti pedagogici del pensiero di Capitini sono: Caterina Foppa Pedretti, Spirito profetico ed educazione in Aldo Capitini. Prospettive filosofiche, religiose e pedagogiche del post-umanesimo e della compresenza, Vita e Pensiero, Milano 2005; Massimo Pomi, Al servizio dell’impossibile: un profilo pedagogico di Aldo Capitini, La Nuova Italia, Milano 2005; Marco Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Gruppo Abele, Torino 2007.
5) Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza, cit., p. 128.
6) Cfr. Il messaggio di Aldo Capitini, cit., p. 211 e sg.