Gli sbagli dell’America | Intervista a Stephen Zunes

Miriam Carraretto, Stephen Zunes

La gelata estiva nei rapporti tra Washington e Mosca in merito alla questione georgiana dimostra ancora una volta l’abilità degli Stati Uniti nel distinguere tra i “buoni” e i “cattivi”, soprattutto quando a farne le spese rischiano di essere i loro interessi. Lo sa bene Stephen Zunes, che da anni si occupa di politica estera americana, indagando i retroscena, spesso troppo oscuri, di una macchina diplomatica abilissima. «Gli Stati Uniti», ha dichiarato, «sono divenuti la potenza che ha raccolto il testimone del colonialismo per governare l’economia del petrolio nel Medio Oriente.

Il supporto e la promozione della funzione coloniale di Israele è parte di una strategia di pressione e del terrore di cui sono tragicamente vittime i palestinesi, e in cui gli israeliani sono intrappolati».

Docente di Politica e Studi internazionali all’Università di San Francisco e membro del comitato direttivo della «International Peace Research Association», Zunes è tra i massimi esperti di terrorismo e Medio Oriente. A Torino per un incontro promosso dal Centro Studi Sereno Regis, ha ribadito ciò che sostiene da sempre: «Nella strategia del divide et impera coloniale, gli Usa sono stati i grandi fomentatori del terrorismo. Dall’Egitto all’Iran la politica estera americana ha creato una catastrofe».

Prof. Zunes, lei definisce la politica statunitense in Medio Oriente una «scatola esplosiva». Cosa intende con questa espressione?

Negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno pesantemente armato tutto il Medio Oriente, con la convinzione che questo li mettesse al sicuro. Invece la crescente militarizzazione di quella regione è andata di pari passo con una minor sicurezza per il popolo americano. Hanno sottovalutato tutti coloro che hanno cominciato ad odiarli, per via della loro arroganza, del sostegno offerto a regimi repressivi e corrotti, dello sfruttamento praticato dalle loro compagnie petrolifere, dell’uso a senso unico del potere delle Nazioni Unite. Le massicce forniture di armi americane al Medio Oriente, e gli interventi militari diretti, non hanno fatto altro che rendere la regione molto più instabile di prima. Tradizione vuole quando la minaccia di guerra si riduce, l’entità degli investimenti militari diminuisca. Invece, nel caso degli accordi conclusi da Washington con Israele e i suoi vicini, soprattutto Egitto e Giordania, è avvenuto il contrario. Perché? Perché gli aiuti militari che Washington assicura a Israele sono anche sovvenzioni a favore dei fabbricanti statunitensi di armi. Ecco allora che la necessità di tenere sotto controllo gli «Stati canaglia» serve a giustificare un budget militare di oltre 400 miliardi di dollari. Da notare, poi, che per chi produce armi il vantaggio viene moltiplicato dal fatto che ogni invio di strumenti bellici a Israele suscita una nuova domanda da parte degli Stati arabi. Questa militarizzazione, inoltre, serve anche a contenere i movimenti radicali nazionalisti e islamici e a mantenere lo status quo, se necessario con la forza, il che rappresenta un interesse comune di Usa, Israele e Stati arabi conservatori.

Storicamente Washington ha sempre avuto un atteggiamento contraddittorio nei confronti del conflitto israelo-palestinese: da un lato sostiene apertamente Israele, mentre dall’altro funge da mediatore del conflitto stesso. In che modo incide questo doppio ruolo?

Proprio il mantenimento di questo ruolo contraddittorio è in gran parte responsabile della violenza del conflitto. Senza contare che gli Stati Uniti hanno contribuito al fallimento delle trattative, soprattutto a Camp David, quando Clinton sostenne con forza la «crescita naturale» delle colonie israeliane nei territori palestinesi. Inoltre, non dobbiamo dimenticare l’appoggio americano alle offensive dell’esercito israeliano e il conseguente scarico di responsabilità sui palestinesi. Tutto questo non fa altro che gettare benzina sul fuoco. Se poi aggiungiamo i massicci finanziamenti all’integralismo islamico, che rappresenta la grande minaccia per i Paesi occidentali, possiamo facilmente comprendere come la politica estera Usa rischi alla lunga di scatenare contraccolpi di portata globale.

Lei sottolinea come la crescente militarizzazione del Medio Oriente sia stata accompagnata da un’altra tendenza, cioè il sostegno di Washington al governo israeliano nello sviluppare armamenti atomici…

È così. Si ritiene che Israele possieda più di trecento testate nucleari, ed è evidente che non avrebbe mai potuto armarsi così senza il finanziamento statunitense. Washington, però, non tratta tutti allo stesso modo: applica la logica del “due pesi, due misure”, minacciando i nemici che producono armi nucleari e tollerando, invece, gli alleati. L’invasione dell’Iraq e le minacce di Bush all’Iran partono proprio da questi presupposti, perché gli Stati Uniti non possono permettere che qualcuno destabilizzi la loro leadership in un’area così strategica. Visti i rischi impliciti in ogni azione militare unilaterale, viene da chiedersi per quale motivo le amministrazioni che si sono succedute negli anni alla Casa Bianca non si siano dedicate piuttosto a un vasto programma di nonproliferazione nucleare. Una possibile risposta è che l’obiettivo principale di Washington è impedire che la sua egemonia militare post Guerra Fredda venga messa in crisi. Le preoccupazioni connesse al pericolo di una guerra nucleare sono quindi anche il pretesto per mantenere una costante presenza militare a stelle e strisce in Medio Oriente e per mettere a tacere chi, come Saddam Hussein prima e Ahmadinejad oggi, osa sfi dare il predominio americano.

Perché Iraq e Iran sono diventati «Stati canaglia» e altri Paesi ugualmente pericolosi no?

Perché sono i soli due Paesi della regione mediorientale che dispongono di una popolazione numerosa, di risorse idriche sufficienti e di una ricchezza petrolifera che dà loro modo di agire autonomamente mettendo in discussione la potenza americana. Per l’Iraq, naturalmente, era così fino al momento dell’occupazione. Di fatto, Baghdad e Teheran hanno rifiutato l’ordine mondiale del dopo Guerra Fredda. E la feroce repressione esercitata da questi due regimi contro i loro cittadini, unita alla politica aggressiva nei confronti dei vicini, ha fornito al governo americano i necessari argomenti per far accettare la sua politica.

Anche se poi l’occupazione dell’Iraq si è rivelata un totale fallimento…

Infatti. E questo dimostra che la politica di Bush di «promozione della democrazia» non è efficace perché viene dall’esterno. Non solo è ingenuo supporre che una potenza esterna possa provocare una rivoluzione, ma il governo americano non conosce neppure le strategie fondamentali necessarie per fomentare un’insurrezione civile nonviolenta. Come quasi tutte le potenze occidentali, anche gli Stati Uniti sostengono la democrazia solo se percepita a favore di loro presunti interessi economici e strategici, viceversa la contrastano. Storicamente hanno promosso il cambiamento di regime con invasioni militari e colpi di stato che insediavano una minoranza non democratica. Sono i movimenti nonviolenti a base popolare, invece, che rendono possibile il cambio di regime attraverso l’assunzione di potere da parte di maggioranze democratiche.

Come cambierà la politica estera americana nelle aree calde del Medio Oriente e del Golfo con l’elezione, ormai probabile, di Obama?

La politica estera di Obama non è molto diversa da quella del suo avversario McCain. È certamente più progressista e più intelligente. E le sue origini musulmane, unite al colore della sua pelle, rappresentano un segno di distensione nei rapporti con i Paesi arabi. Penso che sia il miglior candidato possibile, anche perché è più favorevole ad una politica soft che tiene conto della diplomazia e delle leggi internazionali. Sa che è necessario trattare con l’Iran, e vuole negoziare malgrado le pressioni della destra americana, anche se non ha escluso l’intervento militare. A differenza di Bush non è un petroliere, e probabilmente subirà meno le pressioni delle lobby dell’oro nero. Sta di fatto che sarà comunque a capo di un grande impero, anche se ormai si tratta di un impero in declino.


Fonte: Miriam Carraretto, Gli sbagli dell’America, “Il Nostro Tempo”, 28 settembre 2008

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