Azione nonviolenta e lotte per la democrazia

Stephen Zunes

Gli Stati Uniti hanno fatto per la causa della democrazia quello che l’Unione Sovietica fece per la causa del socialismo. L’amministrazione Bush non solo ha dato alla democrazia una cattiva reputazione in gran parte del mondo, ma la sua vistosa e molto sospetta agenda di “promozione della democrazia” ha fornito a regimi repressivi e loro apologeti un pretesto per etichettare da agenti provocatori esterni qualunque movimento popolare per la democrazia, anche quando condotto da attivisti di base nonviolenti e indipendenti.

Negli ultimi mesi, i governi di Zimbabwe, Iran, Bielorussia e Birmania , fra gli altri, hanno maliziosamente preteso che le insurrezioni civili popolari nonviolente del tipo di quelle che in anni recenti sono riuscite a sgominare i regimi autocratici corrotti di Serbia, Georgia e Ucraina – e che potrebbero altresì minacciare loro stessi – siano in qualche modo parte di uno sforzo dell’amministrazione Bush e alleati di istigare colpi di stato “morbidi” contro governi ritenuti ostili agli interessi degli USA per sostituirli con regimi più accomodanti.

Ma questa tesi confonde due fenomeni ben distinti. Il governo USA ha innegabilmente fornito modeste somme di denaro a vari gruppi e partiti politici d’opposizione mediante il National Endowment for Democracy (NED), l’International Republican Institute (IRI) e altri organi. Tale finanziamento ha talvolta contribuito a coprire alcuni costi operativi di un certo numero di gruppi d’opposizione, mettendoli meglio in grado di permettersi computer, accesso Internet, fax, materiale di propaganda, uffici e altri materiali.

L’assistenza di governi esteri ha anche facilitato la presenza di osservatori elettorali e di supporto logistico tali da assicurare elezioni libere ed eque. Inoltre gli USA hanno pure fornito, mediante il NED, l’IRI e altri progetti a finanziamento pubblico, seminari e altra formazione a leader dell’opposizione sulle strategie per le loro campagne.
Ciò che è controverso in questi sforzi è che siano stati essenzialmente diretti ad aiutare partiti conservatori filo-occidentali con orientamento liberista e generalmente non partiti della sinistra democratica. Né solo per lotte democratiche contro regimi autocratici, bensì anche partiti d’opposizione in paesi già democratici come il Venezuela.

Alcuni gruppi d’opposizione di taluni paesi hanno accolto l’aiuto USA mentre altri l’hanno rifiutato per principio. Non ci sono tuttavia prove per suggerire che – neppure nei casi dove ha effettivamente avuto luogo questo limitato sostegno USA a organizzazioni d’opposizione – il governo USA o altre entità da esso finanziate abbiano mai fornito formazione, consulenza o assistenza strategica per il tipo di campagne popolari nonviolente di massa che hanno rovesciato governi o minacciato la sopravvivenza di regimi ancora in essere.

Come avviene il cambiamento democratico

Gli Stati Uniti rimangono il fornitore numero uno a livello mondiale di armamenti e assistenza securitaria alle dittature. C’è poco da sperare nell’idea che la politica estera USA, a guida sia repubblicana sia democratica, si sia basata su una sincera fede nell’avanzamento della libertà e democrazia come questione di principio. La storia ha più volte mostrato che gli USA, come quasi tutte le potenze occidentali, sostengono la democrazia solo se percepita a favore di presunti interessi economici e strategici. Per contro, il governo USA ha spesso contrastato la democrazia se considerata sfavorevole alla propria percezione degli interessi economici e strategici.

Poiché tuttavia la vasta maggioranza della popolazione USA, a quanto risulta da sondaggi d’opinione, è effettivamente per la democrazia per principio, il sostegno alla “democrazia” viene da tempo usato come razionalizzazione di varie iniziative di politica estera USA, anche quando tali politiche risultino poi a sostegno dell’autoritarismo e della repressione. Pertanto, benché il sostegno al cambiamento democratico in paesi dal regime autoritario sia certamente un fine degno, è del tutto giustificato lo scetticismo sulla retorica democratica del governo Bush.

In ogni caso, un cambiamento democratico genuine proviene dall’interno. In anni recenti abbiamo assistito all’emergere di una serie di movimenti sociali nonviolenti a base ampia che sono riusciti a rovesciare dittature e imporre riforme democratiche in paesi svariati come le Filippine, il Cile, la Bolivia, il Madagascar, il Nepal, la Cecoslovacchia, l’Indonesia, la Serbia, il Mali e l’Ucraina.

Anche la Freedom House di Washington, relativamente conservatrice, dopo l’esame di 67 paesi passati dall’autoritarismo a vari gradi di governo democratico negli ultimi decenni, ha pubblicato uno studio (How Freedom is Won, www.freedomhouse.org/uploads/special_report/29.pdf) nel quale si afferma che tali transizioni non sono sopraggiunte per effetto di interventi stranieri e solo di rado con una rivolta armata o riforme indotte volontariamente dalle élite al potere. Secondo tale studio, nella stragrande maggioranza dei casi il cambiamento è avvenuto mediante l’impegno di organizzazioni della società civile in massicce dimostrazioni nonviolente e altre forme di resistenza civile quali scioperi, boicottaggi, obiezione fiscale, occupazione di spazi pubblici e svariate tecniche di non-cooperazione.

Ogniqualvolta i governi siano sfidati dalle rispettive popolazioni, tendono ad asserire che chi lotta per la libertà e la giustizia sia un traditore della nazione e un agente di nemici esterni. Nei decenni precedenti, gli attivisti d’opposizione a dittature sostenute dagli USA in America Latina, Asia sudorientale e altrove venivano di norma etichettati come “agenti comunisti” e “simpatizzanti URSS”. Oggi, i movimenti democratici degli stati-clienti USA in Medio Oriente vengono dipinti come “fondamentalisti islamici” e “agenti iraniani”. Così come gli oppositori in Iran, Bielorussia, Birmania e Zimbabwe sono stati denominati “sostenitori dell’imperialismo occidentale” e “agenti americani”.

In realtà, il limitato sostegno finanziario fornito ai gruppi d’opposizione dagli Stati Uniti e altri governi occidentali in anni recenti non può causare l’erompere di una rivoluzione democratica liberale nonviolenta più di quanto un analogo sostegno finanziario sovietico in passato potesse causare una rivoluzione socialista armata. Come riconosciuto da tempo da marxisti e altri con familiarità per i movimenti popolari, le rivoluzioni sono il risultato di certe condizioni oggettive. Davvero nessuna somma di denaro potrebbe indurre centinaia di migliaia di persone a mollare lavoro, casa, famiglia e scuola per affrontare una polizia in pieno assetto antisommossa e carri armati a rischio della propria incolumità fisica senza un motivo genuino per farlo.

Teorie cospiratorie

Vari regimi di fronte all’opposizione popolare sono arrivati al punto di asserire che certe piccole organizzazioni non-profit indipendenti e sostenitori di azioni nonviolente dell’Europa e degli Stati Uniti che hanno provveduto a seminari e laboratori sulla storia e la dinamica della resistenza nonviolenta per attivisti dell’opposizione, siano in qualche modo attivi come agenti del governo Bush. Alcuni blogger e altri autori occidentali critici del governo Bush e comprensibilmente preoccupati dell’intervento USA in nome della “democrazia” si sono effettivamente accodati ad alcune accuse del genere e tali teorie cospiratorie sono state a loro volta riprese in alcuni siti web e periodici progressisti e perfino da qualche media mainstream che li ripetono come dato di fatto.

Virtualmente tutti quei seminari e laboratori, comunque, hanno luogo per richiesta diretta di organizzatori dell’opposizione; ed almeno altrettanti si sono tenuti per attivisti democratici in lotta contro dittature di destra quanto contro dittature di sinistra. Per esempio, nell’ultimo anno insieme ai miei colleghi abbiamo lavorato con egiziani, maldiviani, palestinesi, papua occidentali, saharawi, azerbaigiani e indios del Guatemala in lotta contro governi repressivi di destra appoggiati dagli USA.

Per giunta, virtualmente tutti questi gruppi hanno per propria severa linea di condotta il rifiuto di profferte dal NED o altri enti finanziati dal governo USA. In base al mio coinvolgimento in molti di questi gruppi e alla mia personale conoscenza di quasi tutti i loro leader principali, posso ben riconoscere la completa infondatezza delle accuse di essere in qualche modo in combutta con la CIA o di agire per conto dell’imperialismo USA rivolte a soggetti come Gene Sharp, Jack DuVall, Bob Helvey, Ivan Marovic, l’Albert Einstein Institution, l’International Center on Nonviolent Conflict (ICNC), e il Center on Applied Nonviolent Action and Strategies (CANVAS).

Purtroppo lo stesso presidente venezuelano Hugo Chavez – echeggiato da qualche suo sostenitore nordamericano – è apparentemente caduto in tali false accuse a qualcuno di costoro di complottare con i suoi oppositori per rovesciarlo. Chavez ha ogni diritto di essere un tantino paranoide, dati gli sforzi assolutamente reali del governo USA di sovvertire il suo regime, ivi compreso il sostegno a un effimero colpo di stato nel 2002.

Tuttavia l’unica visita in Venezuela resa effettivamente per conto di tali gruppi protesi in campagne di istruzione sulla nonviolenza strategica è stata all’inizio del 2006 con lo svolgimento, da parte mia e di David Hartsough – il pacifista radicale direttore di Peaceworkers – di una serie di laboratori nell’ambito del Forum Sociale Mondiale di Caracas: conferenze, seminari sul potere della resistenza nonviolenta e una selezione di scene di un film che l’ICNC aveva aiutato a realizzare sul movimento democratico in Cile contro l’ex-dittatore Augusto Pinochet sostenuto dagli USA.

L’unico riferimento al Venezuela in tale occasione fu la modalità con cui un azione nonviolenta di massa potesse adottarsi per resistere a un possibile colpo di stato contro Chavez, non per fomentarne uno. Di fatto, Hartsough e io incontrammo alcuni funzionari venezuelani in merito a proposte di formazione da parte governativa della popolazione a vari metodi di difesa civile nonviolenta per resistere a possibili futuri tentativi di rovesciare Chavez.

Laboratori di nonviolenza strategica

I gruppi europei e nordamericani che condividono un’informazione generica sulla storia e la dinamica della nonviolenza strategica con organizzazioni della società civile all’estero non sono diversi dalle organizzazioni volontarie private che condividono tecnologie ecosostenibili e tecniche agricole con agricoltori di paesi in via di sviluppo. Entrambi offrono strumenti utili che, se applicati con coerenza ed efficacia, potrebbero migliorare la qualità della vita per milioni di persone. In questo non c’è nulla di “imperialistico”.

Proprio come metodi e tecnologie agricole sostenibili sono più efficaci a far fronte ai bisogni umani e a preservare il pianeta rispetto alle strategie convenzionali di sviluppo promosse dai governi occidentali, l’azione nonviolenta si è dimostrata più efficace nel promuovere un cambiamento democratico rispetto alle minacce di intervento militare esterno e ad altri metodi tradizionalmente istigati dagli Stati Uniti e dai loro alleati. E proprio come l’applicazione di tecnologie appropriate può anche essere un mezzo di contrasto ai danni causati da modelli economici neo-liberisti promossi dai governi occidentali e dalle istituzioni finanziarie internazionali, l’uso dell’azione nonviolenta di massa può permettere di contrastare parte dei danni dovuti al commercio delle armi, all’interventismo militare e alter manifestazioni nocive del militarismo occidentale.

Di solito, lo sviluppo basato su modelli occidentali implica che le multinazionali e i governi dei paesi capitalisti ricchi finiscono per esercitare un ampio margine di comando su queste società, mentre tecnologie appropriate permettono una vera indipendenza e autosufficienza. Analogamente, invece di fomentare un colpo militare o imporre un’occupazione militare – il che si basa sulla capacità di esercitare il controllo sulla popolazione e sui potenziali oppositori politici – le insurrezioni civili nonviolente per avere successo si debbono necessariamente basare su un’ampia coalizione di movimenti popolari e pertanto è impossibile esercitare un potere di controllo dall’esterno.

E’ ironico, quindi, che alcuni elementi di sinistra attacchino proprio coloro che a livello individuale o di gruppo stanno tentando di disseminare questi strumenti di empowerment popolare contro le forze di oppressione e imperialiste.

Potere popolare

Un‘altra differenza fra questi sforzi didattici fra persone comuni e l’intervento USA è che, a differenza delle azioni del NED e altre tese alla “democrazia” con sostegno governativo, spesso concentrate sullo sviluppo di iniziative politiche convenzionali guidate da elite filo-occidentali, questi laboratori sulla nonviolenza strategica sono essenzialmente ricolti ad attivisti di base senza affiliazione partitica che cercano di indurre il cambiamento dal basso.

Storicamente, persone singole e associate con esperienza di campagne nonviolente efficaci tendono a provenire da tradizioni di sinistra e pacifiste con un’opinione scettica sul potere governativo, tanto più se i governi hanno alle spalle una storia di militarismo e conquista. Per esempio, la mia provenienza in quanto ad azione nonviolenta deriva dal mio coinvolgimento come formatore nonviolento verso la fine degli anni ’70 per la Clamshell Alliance antinucleare e per il gruppo rivoluzionario nonviolento Movement for a New Society, entrambi radicalmente decentralisti per struttura e decisamente d’orientamento anticapitalista e antimperialista. Più di recente, i miei colleghi che hanno condotto i laboratori di formazione comprendevano un veterano sudafricano dell’United Democratic Front anti-apartheid, un responsabile della prima intifada palestinese ed ex-leader studenteschi dell’opposizione serba di sinistra a Milosevic.

Per contro, grossi governi burocratici adusi ad estendere il proprio potere politico con la forza militare o canali diplomatici elitari hanno scarsa comprensione o apprezzamento per l’azione nonviolenta o altri tipi di lotta popolare di massa. In realtà, che cosa conoscerebbero di nonviolenza degli agenti CIA, tanto meno di organizzazione di base?

In breve, non solo è ingenuo supporre che una potenza esterna possa provocare una rivoluzione di qualunque genere, ma dovrebbe essere chiaro che il governo USA non conosce le cose fondamentali necessarie per fomentare un’insurrezione civile nonviolenta. Pertanto, il dilemma per i decisori politici USA – e la speranza per tutti noi che sosteniamo la democrazia per principio anziché per espediente politico – è che il modo più realistico per rovesciare i restanti regimi autocratici è mediante un processo che il governo USA non sia in grado di controllare.

Storicamente il governo USA ha promosso il cambiamento di regime con l’invasione militare, colpi di stato e altri tipi violenti di presa del potere che insediano una minoranza non-democratica. I movimenti nonviolenti di “potere popolare”, invece, rendono possibile il cambio di regime mediante l’assunzione di potere da parte di maggioranze democratiche. Quindi la speranza migliore per far progredire libertà e democrazia nei restanti stati autocratici risiede nella società civile, non nel governo USA, che non merita né il credito né la colpa per il crescente fenomeno delle rivoluzioni democratiche nonviolente.

Rafforzare l’agenda di Bush

L’emergere di organizzazioni della società civile e la crescente consapevolezza del potere dell’azione nonviolenta negli ultimi anni sono stati fra gli sviluppi politici più positivi in un ambito per il resto ampiamente deprimente. E’ quindi tanto più deprecabile che presunte voci “progressiste” abbiano scelto di attaccare questo fenomeno di base popolare come una qualche cospirazione del governo Bush.

E’ anche paradossale che tanti della sinistra nordamericana – dopo anni di romanticismo sulla lotta armata come il solo mezzo per sconfiggere le dittature, sminuendo in tal modo il potenziale dell’azione nonviolenta nel rovesciare governi repressive e trascurando del tutto la nozione di rivoluzione nonviolenta – esprimano adesso allarme per quanto le insurrezioni popolari nonviolente possano invece riuscire, perfino al punto di credere che siano così facilmente innescabili e quindi organizzate da capitali stranieri.

In effetti, ogni insurrezione popolare nonviolenta riuscita è stata un movimento locale radicato nella consapevolezza da parte di intere masse dell’illegittimità dei propri governanti e dell’incapacità del sistema politico esistente di correggere l’ingiustizia. Invece nessuna insurrezione nonviolenta è riuscita quando la guida e l’agenda del movimento non avevano l’approvazione della maggioranza della popolazione: che è il motivo del fallimento del tentativo dell’industria petroliera venezuelana nel 2002-3 di far cadere Chavez, quando invece danni e disfunzioni equivalenti altrove hanno spesso costretto al ritiro leader meno popolari.

Le critiche “di sinistra” dei movimenti democratici nonviolenti vanno di pari passo con i sostenitori di destra dell’intervento USA in quanto tutti e due denigrano il potere degli individui di prendere il proprio destino in mano rovesciando capi e istituzioni oppressive, e credendo entrambi, a quanto pare, che le persone siano vittime passive e che il cambiamento sociale e politico possa solo venire dalla manipolazione operata da potenze esterne.

La morsa di Reagan

Per esempio, nonostante l’insistenza del presidente Ronald Reagan per tutti gli anni ’80 che le insurrezioni armate popolari che sfidavano i regimi oppressive sostenuti dagli USA in Centro America fossero dovute a una lista di disturbo sovietica, la realtà era che le rivoluzioni in Nicaragua, El Salvador e Guatemala erano movimenti popolari interni. I sovietici fornirono una modesta dose d’assistenza volendo ovviamente trarre vantaggi politici dall’eventuale rovesciamento di oligarchi filo-USA ottenendone la sostituzione con rivoluzionari di sinistra meglio disposti verso i loro interessi. Ma quei contadini e operai oppressi non seguivano il dettato di Mosca; stavano lottando per diritti essenziali e la fine della repressione.

Affermazioni simili, diffuse attualmente, secondo cui gli USA sarebbero un elemento principale dietro i movimenti popolari contro le dittature in Birmania, Iran, Zimbabwe e Bielorussia o che avrebbero avuto un ruolo determinante nella precedente riuscita in Serbia, Georgia o Ucraina sono ugualmente grottesche. E’ un atteggiamento equivalente a quello che a destra maliziosamente diede il merito della caduta del comunismo in Europa orientale alle pericolose politiche militariste da guerra fredda di Reagan cercando al tempo stesso di far passare sindacalisti, contadini, studenti preti e quant’altri martirizzati nel corso delle lotte popolari in Centro America come agenti sovietici.

Inoltre è importante ricordare che la gran maggioranza delle insurrezioni civili nonviolente riuscite non sono state contro dittature avversate bensì sostenute dal governo USA. Fra gli autocrati di destra rovesciati da tali movimenti di “potere popolare” compaiono: Marcos nelle Filippine, Suharto in Indonesia, Duvalier ad Haiti, Pinochet in Cile, Chun in Corea del Sud e Nimeyri in Sudan, per citarne solo alcuni.

Un altro problema con questo riduzionismo semplicista è che quando le insurrezioni civili nonviolente riescono effettivamente a portare al potere governi democratici in paesi precedentemente sotto dittature anti–USA, i nuovi capi, spesso inesperti, si trovano di fronte il plauso della destra statunitense e il sospetto della sinistra europea e degli Stati Uniti, cosa che li potrebbe indurre a chiedersi chi siano i veri amici e avvalorare il mito che i veri campioni della libertà siano quelli di destra piuttosto che di sinistra.

Il pensare cospirativo e il denigrare genuini movimenti popolari come avviene sempre più sovente in certi circoli di sinistra serve a rafforzare la mano dei regimi oppressivi, indebolire le forze democratiche e avvalorare l’argomento neo-conservatore USA che solo il militarismo e l’intervento USA possano liberare chi soffre sotto governi oppressivi, anziché la lotta nonviolenta degli oppressi stessi.

Come avviene il cambiamento

Le rivoluzioni nonviolente riuscite, come quelle armate, richiedono spesso anni o decenni per svilupparsi come parte di un processo organico nel corpus politico di un dato paese. Non c’è una formula standard cui ricorrere da parte di un governo o una ONG straniera, poiché storia, cultura e allineamenti politici di ogni paese sono unici. Né un governo straniero o una ONG possono reclutare il gran numero di comuni cittadini necessari a costruire un movimento in grado di sfidare effettivamente la leadership insediata al potere, ancor meno di rovesciarla.

Formatori e conduttori dei seminari come me e i miei colleghi danno risalto a certe strategie e tattiche riuscite altrove per premere sui governi affinché cambino politica e per minarne il sostegno che permette loro di sopprimere agevolmente l’opposizione. Talora, alcuni attivisti possono tentare di emularne qualcuna. Tuttavia, un regime perderà potere solo se tenterà di imporre un sistema avversato dalla gente, non perché qualche straniero ha raccontato, a un piccolo gruppo di oppositori, le tecniche che sono state usate con successo in altri paesi e in altri momenti.

Nel mantenere la nostra risoluta opposizione all’interventismo USA e nell’esporre l’ipocrisia e i doppi parametri della retorica del governo Bush a sostegno della democrazia, dobbiamo anche vedercela con coloro che denigrano i movimenti popolari indigeni come creazioni di Washington o calunniano oneste organizzazioni non-profit che scambino conoscenze generiche su strategie e tattiche nonviolente con gruppi ideologicamente affini all’estero.

Infine, sia per mantenere la nostra credibilità, sia perché è giusto così, i progressisti dovrebbero riconoscere l’imperativo morale di opporsi a regimi oppressivi senza badare alla loro ideologia o alle loro relazioni con gli Stati Uniti; e dovrebbero altresì abbracciare l’azione strategica nonviolenta per la causa della libertà come alternativa etica e realistica all’interventismo USA.

Stephen Zunes è editor per il Medio Oriente di Foreign Policy in Focus e professore di scienze politiche all’Università di San Francisco. E’ il principale curatore di Nonviolent Social Movements (Blackwell, 1999) e coordina il gruppo di consiglieri scientifici dell’International Center on Nonviolent Conflict.


Titolo originale: Nonviolent Action and Pro-Democracy Struggles, January 24, 2008
http://www.fpif.org/fpiftxt/4923
traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis