Spesa militare in Italia

Nanni Salio

Niente di nuovo sotto il sole: la spesa militare in Italia è considerata un tabù come in tutti i principali paesi, democratici o meno che siano. Avete mai visto un programma elettorale di centro sinistra o di centro destra che metta in discussione la spesa militare e ne proponga la riduzione? I due schieramenti si rincorrono per vedere chi fa meglio nell’aumentare il budget della difesa. (A titolo di esempio, si vedano i seguenti contributi: Stefano Milani: “Al voto al voto. Per la maxispesa militare”, http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/04-Marzo-2008/art59.html; Giorgio Beretta: “Spese militari. Quattro domande ai politici”, http://unimondo.oneworld.net/article/view/118489/?PrintableVersion=enabled; Luca Kocci, “Finanziaria 2008: ancora un’impennata delle spese militari” http://www.adistaonline.it/?op=articolo&id=38678).

Eppure risalgono a oltre mezzo secolo fa, il 15 aprile del 1953, le sagge parole di Dwight D. Eisenhower, ex generale diventato poi presidente degli USA:
“Ogni cannone che viene costruito, ogni nave da guerra che viene varata, ogni razzo che viene preparato rappresenta un furto a coloro che hanno fame, a coloro che hanno freddo e non hanno da coprirsi. Infatti un bombardiere pesante costa quanto trenta scuole o due centrali elettriche capace ognuna di fornire luce a una città di 60 mila abitanti, o a due ospedali; un solo aeroplano da caccia costa come 150 mila quintali di grano; con i dollari necessari per allestire un cacciatorpediniere, si potrebbero costruire case per 8.000 senzatetto….”. (Per un approfondimento dei “costi di opportunità” si veda: Nanni Salio, “Cosa faresti con un trilione di euro all’anno? Costi di opportunità e alternative al complesso militare-industriale-scientifico-corporativo”, in: Massimo Zucchetti, a cura di, per il Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra, “Il male invisibile, sempre più visibile. La presenza militare come tumore sociale che genera tumori reali”, Odradek, Roma 2005). Esse riecheggiano le altrettanto sagge parole del nostro presidente della Repubblica, Sandro Pertini “svuotare gli arsenali, riempire i granai”, rimaste purtroppo inascoltate.

Analisi dei dati

Pur nell’incertezza che sempre caratterizza questa materia, i dati sull’andamento della spesa militare in Italia e nel mondo sono sufficientemente noti, sia in valore assoluto sia nelle voci che la compongono.

In dieci anni la spesa militare italiana è quasi raddoppiata, passando da 16 a 30 miliardi di euro (previsti per il 2008) in valori correnti. La percentuale rispetto al PIL è valutata intorno all’1,5% dal Ministero della Difesa e al 2% secondo i dati dell’autorevole istituto di ricerca svedese SIPRI. Tale percentuale è di poco inferiore a quella della spesa sociale (2,7%) relativa all’assistenza (maternità, disoccupazione, handicap, edilizia popolare ecc.) e corrisponde a poco meno di 500 euro all’anno pro-capite, ovvero un euro e mezzo al giorno pro capite.

Gran parte della spesa è relativa a stipendi e pensioni, ma negli ultimi anni è aumentata la quota dedicata agli investimenti in nuovi sistemi d’arma offensivi.

Mentre sino a qualche anno fa ci si doveva riferire prevalentemente alle pubblicazioni di istituti specializzati stranieri, oggi disponiamo di una buona documentazione prodotta da gruppi di ricerca italiani. (Da segnalare l’annuario “Armi-Disarmo Giorgio La Pira”, pubblicato dalla Jaca Book e giunto alla terza edizione, 2008. Si vedano inoltre i rapporti annuali “Economia mano armata” curati dalla campagna “Sbilanciamoci”, disponibili in rete all’indirizzo www.sbilanciamoci.org/docs/II_rapporto_Economia_a_mano_armata.pdf).

Alcuni miti sulla spesa militare

Proviamo a rispondere a una domanda che solo apparentemente può sembrare provocatoria, ma in realtà è tutt’altro che ovvia: “A cosa servono le spese militari?”. La risposta scontata è che servono a mantenere gli eserciti i quali, a loro volta, dovrebbero difenderci. Secondo un altro modo di rispondere, oggi di moda, spese militari ed eserciti servono a garantire e creare la sicurezza. Con questo termine si intende di solito la “sicurezza nazionale”, oppure la difesa degli “interessi nazionali”. Cosa siano gli interessi nazionali e da chi vengano definiti è una questione che non viene quasi mai sollevata. Ma qualcuno ogni tanto ha l’onestà di esplicitarli, almeno da un punto di vista personale, come il generale Giuseppe Cucchi, secondo il quale “Si tratta di preservare a ogni costo il livello di benessere acquisito dal paese. In altri termini, di salvaguardare quel tasso di sviluppo annuo del 2-3% cui la popolazione italiana è talmente abituata da considerarlo ormai come diritto acquisito. Un compito che può essere assolto soltanto garantendo la continuità del flusso di materie prime, in primo luogo di petrolio, che alimenta a un prezzo accettabile la nostra industria.

Cosa che può comportare, in particolari momenti, pesanti intromissioni nella politica di altri paesi, in particolare dell’area araba”. (Piero Maestri, “Il modello di difesa italiano”, Guerre&Pace, n.140-141, giugno luglio 2007., p. 6. Per completare il quadro, si veda anche la gustosa ricostruzione di una gaffe dell’allora presidente del consiglio D’Alema, di cui Cucchia era consigliere militare: “D’Alema e il suo consigliere militare. Da chi siamo governati veramente?” 24 novembre 1999 – Alessandro Marescotti, http://www.peacelink.it/editoriale/a/959.html). In che cosa consistano le “pesanti intromissioni” ne sa qualcosa la popolazione irakena, dopo le guerre per il petrolio scatenate dalla famiglia Bush, padre e figlio, e dalle altre amministrazioni statunitensi, sin dai tempi del colpo di stato in Iran, mezzo secolo fa. Tutto questo non dovrebbe stupire, se si pensa che fu il presidente Roosvelt, nel 1945, ad associare la”sicurezza nazionale” alla “sicurezza energetica”, come ben documentato criticamente da Michael Klare nei suoi numerosi e autorevoli lavori (“Garrisoning the Global Gas Station”, 13 giugno 2008, http://www.antiwar.com/engelhardt/?articleid=12981). Quale conferma maggiore del nesso inscindibile tra modello di difesa e modello di sviluppo? Tuttavia, è una questione a dir poco ignorata nel dibattito politico. Non solo, ma nessuno si interroga sulle conseguenze. Infatti, nonostante l’ingente spesa militare la “sicurezza nazionale” non solo non è aumentata, ma è drasticamente diminuita, sia per quanto riguarda gli stati presi nel loro insieme, sia per quanto riguarda i singoli cittadini.

Modelli di difesa e modelli di sviluppo

Se si assumono come variabili la crescita quantitativa (misurata attraverso il famigerato PIL) per i modelli di sviluppo e l‘intensità crescente della reazione per i modelli di difesa, si può ipotizzare una correlazione empirica degli uni con gli altri, secondo la classificazione rappresentata schematicamente in fig. 1.

Oltre a quanto abbiamo già riferito con le parole del generale Cucchi, una espressione molto efficace ed esplicita con la quale è stata riconosciuta questa correlazione è quella usata dall’ex segretario della difesa USA, Margaret Albright: “Per avere McDonald ci vuole McDouglas”, ovvero per sostenere la globalizzazione economica liberista (crescita illimitata) è necessario esportarla e difenderla manu militari, come è sempre avvenuto storicamente da parte delle potenze imperiali capitaliste (si veda, per tutti, William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, Fazi, Roma 2003). Che non si tratti soltanto di una indebita illazione, è confermato dall’ampia letteratura sull’argomento nonché dai documenti pubblicati da vari organismi ufficiali USA e dalla teoria neocon “del nuovo secolo americano” (vedi la documentata analisi sul “Progetto per un nuovo secolo americano” o PNAC Project for the New American Century. su http://it.wikipedia.org/wiki/Project_for_the_New_American_Century. Vedi anche l’ampia riflessione svolta da Giuliano Pontara in L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, EGA, Torino 2006. Pontara individua delle esplicite tendenze naziste nell’attuale politica internazionale).

Fig. 1 Correlazioni tra modelli di sviluppo e modelli di difesa

Ma non tutti i paesi capitalisti hanno una politica così aggressiva e un’economia così vorace come quella statunitense. Sin dal 1972 con il famoso rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo (Mondadori, Milano 1972. Il titolo dell’originale inglese era, più correttamente: Limits to growth, limiti della crescita. Lo studio è stato riproposto in versione aggiornata: Donella e Tennis Meadows, Jorgen Randers, I nuovi limiti dello sviluppo. La salute del pianeta nel terzo millennio, Mondadori, Milano 2006. Per una rilettura critica si veda infine: Dennis L. Meadow, “Evaluating Past Forecast: Reflection on One Critique of The Limits to Growth”, in: Robert Costanza, Lisa J: Graumlich and Will Steffen, eds., Sustainability or Collapse. An Integrated Historyand Future of People on Earth, MIT Press, Cambridge-London 2007) si è sviluppato un ampio e controverso dibattito che ha portato alcuni paesi a elaborare l’idea di uno sviluppo sostenibile che, pur mantenendo ancora una ambiguità non pienamente risolta tra sviluppo e crescita, ha consentito di avviare alcuni processi di razionalizzazione, o quanto meno di messa in discussione del paradigma dominante. Parallelamente, di fronte alla manifesta follia della dottrina nucleare MAD (Mutua Distruzione Assicurata) è sorto, intorno agli anni ‘70 del secolo scorso, un movimento di “generali per la pace” che ha teorizzato un cambiamento di modello, passando dalla difesa offensiva a quella puramente difensiva. Questo è il modello applicato da vari paesi, tra i quali spiccano i seguenti: Svizzera, Austria, paesi scandinavi, Costarica, Canada. Così come lo sviluppo sostenibile si propone di mantenere quanto meno sotto controllo i processi di crescita dell’economia riducendone i tassi e l’impatto ambientale, anche nel caso della difesa si propone una riduzione dell’intensità distruttiva, mantenendola entro i limiti delle armi convenzionali difensive.

Il passaggio da un modello di difesa all’altro viene chiamato transarmo, un termine che, a differenza di disarmo, si propone innanzi tutto il cambiamento della dottrina militare, per rendere possibile anche operazioni di disarmo, per quanto limitate ad alcuni sistemi d’arma.

Il passo successivo, o parallelo, è quello della transizione a un modello di sviluppo basato su un’economia nonviolenta, stazionario, in cui l’impatto ambientale sia autenticamente sostenibile, ispirato a uno stile di vita che si richiama alla scelta della “semplicità volontaria” (per una introduzione, vedi Giovanni Salio, Elementi di economia nonviolenta, Quaderni del Movimento Nonviolento, Verona 2001). Ad esso è associata l’idea di una difesa popolare nonviolenta, che si ispira alle molteplici lotte nonviolente, su varia scala, avvenute nel corso di tutta la storia umana e in particolare nel Novecento.


Fig. 2 Punti nodali di attacco per le misure di disarmo

Lo schema in figura 2, proposto da Johan Galtung in Ambiente, sviluppo e attività militare (EGA, Torino 1984), è un utile punto di partenza per individuare i “punti nodali di attacco per le misure di disarmo”, per capire perché molto spesso le azioni sia degli organismi internazionali (ONU) sia dei movimenti per la pace sono poco efficaci e per introdurci criticamente all’idea di DPN (vedi Antonino Drago, Difesa popolare nonviolenta. Premesse teoriche, principi politici e nuovi scenari, EGA, Torino 2006). Il più delle volte, il movimento per la pace interviene nell’ultima fase del processo, quando la potente macchina da guerra è già avviata, pronta per l’uso. Non ci si deve stupire se di solito si fallisce, anche quando si è in presenza di movimenti tanto vasti come quelli che culminarono nelle manifestazioni del 15 febbraio 2003 e che furono nientemeno definiti dal New York Times, con molta enfasi, come “seconda superpotenza mondiale”. Si interviene troppo tardi e solo nelle fasi ultime del processo, per fermare una macchina da guerra che funziona ventiquattrore al giorno, con decine di milioni di persone a tempo pieno e più di mille miliardi di euro/dollari a disposizione. Il processo messo in moto da questa gigantesca megamacchina diventa inarrestabile, se ci si limita a intervenire all’ultimo minuto.

Si capisce quindi perché le misure di puro e semplice disarmo sortiscano risultati modesti. Si prenda il caso, pur interessante, del trattato contro le mine antiuomo. E’ stato un successo (sebbene alcuni dei paesi più importanti non l’abbiano sottoscritto), tuttavia oggi ci accorgiamo che una nuova categoria di armi, le cluster bombs, agiscono a tutti gli effetti come mine antiuomo, e si sta faticando per tentare di metterle al bando con un nuovo trattato. Questa situazione è ricorrente in tutta la corsa agli armamenti. Se si lasciano immutate la dottrina militare e la ricerca militare, esse si industrieranno nel cercare nuovi sistemi d’arma con cui aggirare gli ostacoli posti dalle leggi e dai trattati internazionali.

E’ una sorta di corsa tra guardie e ladri, con questi ultimi che corrono più veloci e non vengono quasi mai acciuffati. Se vogliamo realmente estirpare la guerra dalla storia umana, dobbiamo andare alle radici, culturali e teoriche, dei modelli di difesa e di sviluppo che stanno a monte dell’intera “catena di comando” della macchina da guerra. Le dottrine del falso realismo che vengono insegnate nelle accademie sia civili, le università, sia militari, le scuole di guerra, sono inadeguate e continuano a provocare il sacrificio incessante di vite umane con la violenza diretta della guerra e con quella strutturale dei modelli di sviluppo, delle spese militari, delle priorità che ignorano i bisogni fondamentali delle popolazioni. Gli attuali modelli di difesa adottati da gran parte dei paesi sono in realtà modelli di offesa, che basandosi su sistemi d’arma oggettivamente offensivi (a largo raggio e ad alto potenziale distruttivo) comprendono ogni possibile arma di distruzione di massa, senza alcuna soglia superiore che ne limiti la distruttività. Come abbiamo già osservato, questi modelli creano insicurezza invece che sicurezza, instabilità invece che stabilità (vedi Johan Galtung, Ci sono alternative!, op. cit.).

Mentre, dopo la fine della guerra fredda, nel mondo della peace research si è accentuata l’attenzione sul concetto di conflitto e sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti, più che sulla difesa, l’establishment politico-militare-accademico ha riproposto il concetto di sicurezza, inteso in senso globale, con sfumature e giochi linguistici di tipo orwelliano che hanno comunque come conseguenza una crescente insicurezza e instabilità dei sistemi. Il modello di difesa offensivo ha reso paesi come gli USA meno sicuri, non solo rispetto a possibili rappresaglie con armi nucleari da parte di grandi potenze, ma anche attivando il fenomeno del blowback, di cui gli attentati dell’11 settembre 2001 sono un clamoroso esempio, previsti con acutezza e lungimiranza da Chalmers Johnson (Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001, lavoro “profetico” pubblicato nell’originale nel 2000. Il secondo volume della trilogia, Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, è anch’esso pubblicato da Garzanti, Milano 2005, come pure il terzo, Nemesi, Milano 2008. In questi lavori, l’autore analizza, tra l’altro, con una imponente quantità di dati il pericolo che il complesso militare industriale USA costituisce non solo per la situazione internazionale ma anche per il futuro e la stabilità degli stessi Stati Uniti).

La scelta dei paradigmi di difesa e di sviluppo che si richiamano alla nonviolenza sono la coerente conseguenza di uno stile di vita e di una politica che vogliano realizzare una società nonviolenta, della quale per il momento si vedono solo alcuni esperimenti in corso, purtroppo ancora troppo minoritari sebbene di grandissimo valore sperimentale e profetico.
Infine, si possono associare le società tradizionali, basate su un’economia di sussistenza, che non conoscono l’idea di sviluppo, con l’assenza di un’organizzazione collettiva della difesa (livello zero di reazione), che pertanto le rende più esposte a essere travolte in caso di aggressione.

Nello schema di fig. 1 è indicato anche, sulla linea verticale dello sviluppo, il caso del “mattatoio” per evidenziare il fatto che una conseguenza dell’attuale sistema economico è la miseria estrema, uno sviluppo negativo, vera anticamera della morte, in cui versa almeno un sesto dell’umanità: una violenza strutturale pari a circa centomila vittime al giorno per la fame e le malattie connesse. E’ una strage pari a una Hiroshima quotidiana prodotta da una violenza strutturale di intensità almeno dieci volte superiore a quella diretta di tutte le guerre in corso.

Come ridurre la spesa militare, aumentare la sicurezza e vivere più felici

Il paradosso dell’attuale ossessione securitaria, sia su scala internazionale sia su scala interna (Su quest’ultima si vedano i lavori di Zygmunt Bauman, Paura liquida, Laterza, Bari 2008 e Jonathan Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, Cortina, Milano 2008) comporta che più si spende in misure repressive, militari verso l’esterno di un paese e poliziesche all’interno, più diminuisce la sicurezza. Le Nazioni Unite hanno proposto di passare dal concetto di sicurezza nazionale, relativo solo agli stati, a quello di “sicurezza umana” (che riprende e amplia quello dell’indice di sviluppo umano) da intendersi come piena realizzazione dei bisogni umani fondamentali di ciascuna persona, sui quali si fondano i diritti umani.

Ovviamente, la questione non è tanto quella di aumentare o diminuire le spese militari, ma piuttosto accrescere la sicurezza reale, quella umana, di ciascuna persona. Si può fare un paragone con la spesa per la sanità. Gli abitanti di un paese sono tanto più in buona salute quanto meno hanno bisogno di ricorrere alle cure mediche. L’indice di questo stato di salute non è solo la speranza di vita, ma la speranza di vita buona, che non necessita interventi di natura medica.

Analogamente, la condizione di sicurezza positiva, umana, di un paese è tanto maggiore quanto minore è la necessità di ricorrere a forme di coercizione, interna ed esterna, poliziesca e militare. Per avviarci in questa direzione e invertire l’attuale tendenza negativa e distruttiva, occorre progettare una transizione dal modello di sviluppo basato sulla crescita continua, che crea instabilità economica, insicurezza sociale, caos climatico e ambientale, a un modello centrato sulla semplicità volontaria, l’equa ripartizione delle risorse e l’equilibrio ambientale, nel quale sia possibile trasformare e mediare i conflitti, dal micro al macro, mediante modalità nonviolente.

Come ha ampiamente argomentato e dimostrato Dietrich Fischer, mettendo a confronto casi di mediazione con altri di intervento militare, un siffatto modello consentirebbe anche una forte diminuzione della spesa militare per quanto riguarda gli interventi esterni, sia dei singoli paesi, sia delle Nazioni Unite. (“On the relative cost of mediation and military intervention”. The Economics of Peace and Security Journal, ISSN 1749-852X www.epsjournal.org.uk – Vol. 1, No. 2 (2006). Traduzione italiana a cura del Centro Sereno Regis: “Confronto tra il costo della mediazione e quello dell’intervento militare”  http://www.cssr-pas.org/notizia.php?id_notizia=633)

Anche nel caso della sicurezza urbana, oggi al cento di strumentali esagerazioni, invece che proporre nuove misure repressive e una ulteriore militarizzazione del territorio e della società, occorre avviare un processo diffuso di formazione alla mediazione e alla trasformazione nonviolenta dei conflitti che coinvolga cittadine e cittadini, associazioni e movimenti di base e forze di polizia. (Si vedano a questo proposito: Johan Galtung, Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, PLUS, Pisa 2008; Andrea Cozzo, Gestione creativa e nonviolenta delle situazioni di tensione. Manuale di formazione per le Forse dell’ordine, Gandhi Edizioni, Quaderni Satyagraha, Pisa 2007.) La prevenzione della violenza costa meno della repressione e produce risultati migliori qualitativamente e quantitativamente.

Le risorse così liberate permetterebbero inoltre di ridurre i “costi di opportunità” e avviare a soluzione i grandi problemi che l’umanità intera deve affrontare nei prossimi decenni, dal cambiamento climatico globale alla fame, dall’esaurimento delle risorse energetiche alla desertificazione. E gli ambiziosi obiettivi del Millennium (Jeffrey Sachs, La fine della povertà, Mondadori. Milano 2006) potrebbero essere finalmente raggiunti.

Non sarebbe ancora il “paradiso terrestre”, ma per quel sesto dell’umanità che vive nell’indigenza e nella miseria estrema significherebbe l’uscita dall’inferno del “mattatoio” nel quale avviene di giorno in giorno il tragico dramma della morte per fame, inedia, malattia.
Per l’altro sesto, quello ricco e benestante, oggi chiuso dentro la paura dell’altro, del povero, del diverso, sarebbe un’occasione per riflettere criticamente sul proprio stile di vita insostenibile e avviare un processo di transizione e di riequilibrio verso un modo di vivere più sereno e armonioso.

Vivremmo tutti meglio, un po’ più felici, e potremmo dare un senso più pieno al nostro breve passaggio su questo pianeta.