Schedatura di minori e adulti Rom. Una “buona pratica” per un censimento etnico – Silvia Berruto

Un censimento.
Etnico.
Per etnia e religione.
In Italia non si vedeva un provvedimento analogo dal 1938, epoca delle leggi razziali.
Se si analizza la scheda che è stata utilizzata nella regione Campania, a Napoli, presso il campo Rom Centrale del latte, la cui intestazione è “Il Commissario delegato per l’emergenza comunità nomadi nella regione Campania OPCM 3678 del 30 maggio 2008. CENSIMENTO” si possono notare alcuni campi del “censimento” che riportano alcuni dati fra cui impronte digitali, fotografia identificativa (o nel linguaggio corrente “segnaletica”), grado di istruzione, attività lavorativa oltre ad altri dati anagrafici. Spiccano, per violazione dei diritti, due campi, incostituzionali, e irricevibili: ETNIA e RELIGIONE, nella non considerazione e nel disprezzo più assoluti della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948), della Costituzione italiana (1948) e dei diritti costituzionali previsti, anche per gli stranieri quand’anche essi siano in una posizione di irregolarità.
Non si tratta di un censimento poiché si tratta di una rilevazione limitata solo a coloro che si trovano nei “campi” e non alla totalità dei Rom e dei Sinti che per l’80% sono stanziali, vivono in Italia, sono Italiani e vivono in alloggi come alcuni di noi e sono “di razza pura ovvero dell’unica razza che esiste: quella umana”. A San Rossore (Pisa) il 10 e l’11 luglio 2008, anno in cui ricorre il 70esimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali del 1938, controfirmate da Vittorio Emanuele III proprio nella tenuta di San Rossore, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, con la Regione Toscana – Diritti, Valori, Innovazione, Sostenibilità, l’Italia civile che ancora esiste si ritrova per l’ottava edizione dell’annuale meeting internazionale il cui tema conduttore è “Contro ogni razzismo, capire le differenze, valorizzare le diversità”. Sarà distribuito un “Manifesto degli scienziati antirazzisti” in risposta al “Manifesto degli scienziati razzisti” pubblicato il 15 luglio 1938 dal Giornale d’Italia.
Lo slogan, quantomai importante e significativo – e direi dedicato a chi ignora fatti e dati storici oltre che agli smemorati – recita: “Di razza ce n’è una sola. Quella umana”. Gli scienziati oggi affermano con autorevolezza che le razze non esistono e concludono che il futuro sarà di coloro che dimostreranno maggiori capacità di adattamento.
Il richiamo ad aderire è forte: “Fatevi vivi, molto vivi: anticipate la vostra presenza con una mail da inviare alla segreteria del meeting. Partecipare per discutere, per confrontarsi per affrontare e per vincere le paure inoculate da quelle culture della sicurezza, che con assiomi e dogmi indiscussi, intenderebbero far convergere in un pensiero e in un’azione unici la maggioranza dei cittadini. Ma i protagonisti, ovvero quei cittadini strumentati che si riappropriano in progress del loro potere e lo agiscono, non ci stanno, e continuano, da attivisti, a riproporre quel leitmotiv secondo il quale più si conosce un problema e più lo si può gestire, coscienti che si tratta sempre di processi e che questi, come l’empowerment dei cittadini, necessitano di tempi assai più lunghi di quelli auspicati delle soluzioni rapide e paventate da chi vorrebbe farle passare come reali, possibili e immediate.
E il ricordo va ineluttabilmente al censimento etnico del 1938 e all’articolo di Gad Lerner “Quel censimento etnico di settanta anni fa”, pubblicato da La Repubblica il 5 luglio scorso, che invita, nel suo essere comunque allarmante, disarmante ma anche così terribilmente lucido, a tenere alta l’attenzione. In uno dei numerosi passaggi nodali dell’articolo, di taglio storico ma anche di grande attualità, Lerner sottolinea che “Il censimento etnico del 1938, “destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare” come ricordava Marie-Anne Matard Bonucci, “non è molto dissimile dal censimento dei non meglio precisati “campi nomadi” del 2008. In conversazioni private lo confidano gli stessi funzionari prefettizi incaricati di eseguirlo: quasi dappertutto le schedature necessarie erano già state effettuate da tempo. L’iniziativa in corso riveste dunque un carattere dimostrativo”.
Il mio pensiero corre allora immediatamente alla schedatura e al rilevamento delle impronte digitali di minori e di adulti di Sinti e di Rom anche se, mentre scrivo è stata approvata una risoluzione europea per la salvaguardia dei diritti dei diritti Rom che esorta le autorità italiane ad astenersi dal raccogliere le impronte digitali dei Rom e chiede alla commissione di verificare la compatibilità delle misure adottate in Italia dall’Unione europea. Secondo il Parlamento europeo, cosa che anche noi, dal basso avevamo segnalato e sostenuto, la raccolta delle impronte digitali dei Rom rappresenta un atto di discriminazione diretta fondata sulla razza e l’origine etnica, vietata dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Ma sul rilevamento delle impronte digitali non si scherza, avremmo dovuto impararlo bene.
Personalmente ho scelto di agire una resistenza nonviolenta nei confronti della sperimentazione della carta d’identità elettronica che ad Aosta, la città in cui vivo, è iniziata nel 2004, decidendo di non partecipare al piano sperimentazione e di non apporre le mie impronte digitali “del dito indice di ogni mano uno “xl” – 500 dpi ove, in una mano, l’impronta del dito indice non fosse disponibile si utilizzerà per la stessa, procedendo in successione: la prima impronta disponibile fra le dita: medio, anulare e mignolo” per comporre la mia carta d’identità.
Questo non tanto e non solo in ragione di una non completa e definitiva comprensione e condivisione delle ragioni culturali e filosofiche sottese alla necessità di apporre le impronte digitali per l’ottenimento di un documento di identità quanto nell’accezione più propriamente strumentale ovvero dell’uso potenziale e reale che delle impronte digitali potrebbe esserne fatto, in termini assoluti, non necessariamente da parte dell’autorità costituita e non necessariamente nei miei confronti, ma nei confronti di tutti. Infine, soprattutto in memoria di “usi altri” come nel caso di censimenti etnici che conosco, ho studiato e che so non appartenere solo al passato.
Per provare a pensare e pensarsi e a pensare il mondo in modo diverso.
Che improntitudine, qualcun* potrebbe asserire a buon diritto.
Ma la minaccia alla democrazia, dovuta ad usi indiscriminati di alcune buone pratiche, è più reale di quanto riusciamo a comprendere, considerato che non abbiamo la sufficiente lucidità, pur sapendo, di vedere e pur vedendo di prevenire.
Ai milioni di cittadini italiani che hanno richiesto una carta di identità elettronica, tra cui ci sono certamente anche dei Rom o Sinti italiani, perché l’80% dei Rom e Sinti che vivono in Italia sono Italiani e stanziali, si potrebbe domandare quanto si è trattato di una scelta consapevole e quanto, invece, di obbedienza e di accettazione di una prassi che, come tale, è in sé, speculativamente e ontologicamente, sempre discutibile e obiettabile in una prospettiva intellettualmente onesta. A quei cittadini italiani si potrebbe chiedere quanto e se si siano interrogati sul senso della scelta, anche storica, di apporre le loro impronte digitali per ricevere la carta d’identità; se, a loro avviso, l’iniziativa di rilevamento delle impronte digitali e di censimento per etnia e per religione in corso nei confronti dei Rom e dei Sinti potrebbe davvero non rivestire un carattere dimostrativo ma veramente protettivo, secondo quanto dichiarato dal Ministro dell’Interno Maroni.
Si potrebbe chiedere loro se conoscono o se ricordano l’Aso-Aktion, la settimana della “pulizia zingara” avvenuta tra il 12 e il 18 giugno 1938, quando la polizia criminale procedette all’arresto e alla messa in “custodia preventiva” di almeno 200 “asociali”: zingari, mendicanti, vagabondi, ruffiani ed ebrei che erano già stati condannati in passato a qualche pena detentiva, tutti rigorosamente maschi e adatti al lavoro, inseriti poi come manodopera nel “piano quadriennale” di Göring e inviati poi a Buchenwald.
Scorgo tra le due prassi, tra il rilevamento delle impronte digitali ai Rom e ai Sinti e l’azione di solidarietà e di dissenso che consiste nel gesto dimostrativo di apporre, ancora e pur sempre, le proprie impronte digitali, delle analogie e una forte contraddizione interna, per me insanabile, e insuperabile soprattutto alla luce dell’uso storico, assolutamente improprio, fatto del rilevamento delle impronte digitali nei confronti di minoranze.
Io dico NO.
Un no assoluto.
No alle impronte digitali.
“Né impronte digitali né foto segnaletiche”
Nonostante questo, pur non condividendo la modalità dimostrativa relativa all’apposizione delle impronte digitali, parteciperò alle manifestazioni di dissenso in piazza nei confronti del censimento etnico proposto dal ministro Maroni.
Ci sarò.
Sarò al fianco di chi è un altro me stesso: sarò al fianco dei molti amici Rom e Sinti per condividere, per simpatia, per quella sorta di “compassione” greca che significa patire insieme, per testimoniare che un altro mondo è possibile ed è già qui nella vita di tutti i giorni, per manifestare la capacità di indignarsi e nello stesso tempo la volontà di costruire una società interculturale e transculturale basata sui valori costituzionali e sui diritti umani per tutt*.
Per una società in cui i conflitti si affrontano e si risolvono in modo nonviolento, in cui la giustizia è uguale per tutt*.
Nella vita di tutti i giorni terrò alta l’attenzione, continuerò ad insistere e ad invocare il rispetto delle leggi, continuerò a scrivere e a intervistare sul censimento etnico gli amici “resistenti”, ovvero coloro che hanno lottato e fatto la Resistenza, che in tanti accompagnano la mia esistenza, continuerò a pormuovere e a sottoscrivere appelli collettivi in difesa dei diritti costituzionali e umani.
Ho sottoscritto l’appello lanciato dai Giornalisti contro il razzismo www.giornalismi.info/mediarom pertanto solleciterò l’ordine dei giornalisti della Valle d’Aosta, al quale appartengo, perché si rifletta e si apra una discussione sul ruolo dei media rispetto all’intolleranza e al razzismo.
Con rispetto