Società ed educazione oggi

Nanni Salio

Riflessioni in ordine sparso, a mo’ di brainstorming

I media tendono ad amplificare le cattive notizie e solo raramente danno evidenza a quelle buone. Accanto a molteplici eventi negativi, ne possiamo elencare un numero almeno altrettanto numeroso di positivi. In altre parole, il bicchiere è metà vuoto e metà pieno. Non nascondiamoci la parte vuota ma non soffermiamoci solo su quella. La parte piena è almeno altrettanto importante. Sarebbe bene farne l’inventario.

Quale crisi: dell’educazione, della pedagogia, della società, degli educatori, degli adulti, di un’intera civilizzazione? Anche in questo caso si rischia di fare di tutt’erba un fascio. Nella lingua cinese, c’è un ideogramma che rappresenta sia la crisi sia il conflitto. Il conflitto nasce da una crisi e viceversa la crisi è un conflitto. Ma entrambi costituiscono una opportunità, se sappiamo coglierla e lavorare positivamente, costruttivamente, creativamente.

D’altronde, già Freud sostenne, con una battuta tra il serio e il faceto, che ci sono tre mestieri impossibili: quelli del politico; dell’educatore; del terapeuta (Ma c’è chi invece ritiene che almeno uno di questi sia un mestiere possibile. Vedi: Marco Pollo, a cura di, “L’educazione: il mestiere possibile”, inserto in Animazione sociale, marzo 2007, pp. 29-62). Sono impossibili nel senso che non si stabilisce un rapporto deterministico, meccanicistico, tra ciò che facciamo, tra le nostre buone intenzioni e il risultato che otteniamo. Si opera su una struttura assai complessa, l’essere umano inserito in un contesto sociale, evolutivo e in costante cambiamento, e quello che riusciamo a fare è sempre segnato dalla mancanza di una conoscenza esaustiva che si traduce in incertezza.

Pro-vocazioni

Un libro di molti anni fa, (dei tempi del mitico, si fa per dire, ’68) portava un titolo emblematico: “chi insegna a chi?” (Ada Quazza e Cesare Pianciola, Einaudi, Torino 1972), che si può aggiornare chiedendoci: “chi educa chi?” L’educazione dovrebbe essere un “rapporto”, una “relazione”, ma non sempre è così. Spesso si stabilisce solo una comunicazione unidimensionale, o addirittura nei casi peggiori si interrompe la comunicazione.

Ma era meglio prima? Quando? Durante il fascismo, no certo! Sotto regimi autoritari? Neppure. E quando allora? Gli ufficiali nazisti non erano forse “educati”? Amavano l’arte, la musica, eppure…hanno creato Auschwitz. E gli scienziati che hanno costruito le prime bombe atomiche sperimentandole dapprima ad Alamogordo senza riuscire poi a impedire i crimini di Hiroshima e Nagasaki, non erano forse il meglio della cultura scientifica del tempo? E hanno continuato con la guerra fredda e la corsa agli armamenti nucleari, e continuano tuttora. Che dire? Da dove comincia la crisi?
Che cos’è che ci disturba? Il nostro quieto vivere? Il fatto che dalla scuola del gesso e della lavagna siamo passati al telefonino e al videocellulare senza soluzione di continuità, saltando i laboratori creativi (che alcuni avevano tentato di introdurre come forme di antipedagogia, come Francesco De Bartolomeis, La ricerca come antipedagogia, Feltrinelli, Milano 1969))? E ci ritroviamo spauriti, senza difese.

Allora andiamo alla ricerca dei colpevoli. Fuori il colpevole: noi, gli altri, i massimi sistemi; la televisione “cattiva maestra”, la perdita di valori (ma quali?), il capitalismo, il consumismo, il lassismo dei costumi, la disgregazione della famiglia, i videogiochi, e così via. Una buona analisi di queste cause e dei loro effetti è quella svolta da Franco Berardi Bifo, (“Il dramma dei giovani? Le emozioni simulate. Riflessioni su violenza e video on-line”, Liberazione 21/11/2006) il quale mette in evidenza come “… abbiamo ormai a che fare con una generazione di esseri umani per i quali sta svanendo la distinzione tra esperienza vissuta e simulazione”, avviene una “atrofia dell’emozionalità. L’incapacità di provare piacere ha la sua controparte nell’incapacità di percepire l’orrore come orrore…La tortura è alla portata di mano di tutti”. E tutto questo ha come conseguenza che “l’attenuazione della sensibilità empatica è forse la peggiore delle catastrofi contemporanee”.

Da qualche anno abbiamo scoperto che esiste e sembra diffondersi anche il bullismo (si moltiplicano gli studi e qui ci limitiamo a segnalarne alcuni nella bibliografia). Ma di quale bullismo dovremmo parlare: quello nella scuola, nel quartiere, alla TV, allo stadio, nell’economia, nella politica; il bullismo e/o il machismo, ma oggi crescono anche le bulle femmina. E i bulli internazionali (gli USA di Bush, la Gran Bretagna di Blair, Al Qaeda di bin Laden, per limitarci ai più noti)? Vi ricordate di Columbine, la strage avvenuta ben prima di quella di Blackburg (si veda il documentario di Michael Moore, Bowling a Columbine e, sulla stessa tragedia, il film Elephant del regista Gus Van Sant)? Che nesso c’è tra il micro e il macro, tra il locale e il globale, tra Columbine (30 aprile 1999) e i bombardamenti USA/NATO in Kossovo/ex Jugoslavia? E quelli tra Blackburst (17 aprile 2007) e l’Iraq/Afghanistan? Nessuno? Sono solo coincidenze? Oppure è una società intera che produce violenza, la teorizza, la pratica, la esalta, senza incontrare una significativa resistenza? A questo proposito, la psicologa Silvia Vigetti Finzi osserva: … la frequenza degli attentati nelle scuole americane è tale da render il fenomeno endemico. I giovani uccisi sui verdi prati dei campus, sovrapponendosi ai militari deceduti in missioni belliche, rivelano che la guerra è divenuta merce import-export e che allontanarla, proiettandola dall’altra parte del mondo, non basta per liberarsene. Nell’universo globalizzato non esistono ‘altrove’” (Lettera al direttore, “Dal campus alle guerre il Male assoluto ci riguarda tutti”, pubblicata nel supplemento Io Donna del Corriere della Sera, 28/4/2007, p.27).

Di fronte a queste tragedie non basta l’indignazione del momento. Occorre la compassione profonda del monaco zen dell’”arpa birmana” che si china sui morti e li seppellisce a uno a uno, oppure un certo distacco, che non è cinismo, come quello che Kurt Vonnegut esprime in “Mattatoio n. 5” (Mondadori, Milano 1988; nuova edizione: Feltrinelli, Milano 2003), ripetendo mestamente dopo ogni strage: “così va la vita” (Ricordato in: “Sprofondo americano”, Alessandro Portelli, Il manifesto 17 aprile 2007).

Qualche modesta proposta

Cominciamo col guardarci dentro/lavorare su di noi: genitori, politici, educatori, insegnanti, economisti, imprenditori, chiediamoci quali messaggi abbiamo per i bambini, le bambine, gli adolescenti, i giovani di oggi Che cosa proponiamo loro, quale futuro, quale società? Siamo in grado di rispondere a queste domande, oppure anche noi ci affidiamo a quello che ci viene proposto quotidianamente dalla pubblicità invasiva, dalla televisione, dai modelli di vita banalmente consumistici?

Cosa resta dei maestri del passato? Conosciamo il pensiero e l’opera di alcuni tra i grandi educatori che ci hanno preceduto, come Montessori, Dewvey, Steiner, Capitini, Gandhi, Vinoba Bhave, don Milani. Danilo Dolci? C’è qualcosa che è ancora attuale, che può ispirarci?

Sappiamo che le Nazioni Unite hanno lanciato il “Decennio dell’educazione alla nonviolenza per i bambini e le bambine del mondo”? Che cosa stiamo facendo in merito a questa iniziativa che va dal 2001 al 2010?

La cultura della nonviolenza e più specificamente l’ educazione alla nonviolenza sono “l’antibarbarie” (questo è il titolo di un importante testo di Giuliano Pontara, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, EGA, Torino 2006) l’antidoto più specifico ed efficace alle tendenze regressive, distruttive, che vediamo in opera nella nostra società. E’ sul terreno della proposta della nonviolenza che si passa da considerzioni generiche a un programma che si rivolge a tutta la nostra società, a noi stessi e ci impegna in un percorso di ricerca individuale e collettivo come persone, genitori, educatori, cittadini/e.

Che cos’è la nonviolenza

Per cercare di definire che cosa intendiamo per nonviolenza (nv), possiamo cominciare da un approccio molto pragmatico mediante alcune variabili che ci aiutano a costruire una mappa, come nello schema seguente. Sull’asse verticale indichiamo un approccio individuale (in alto) o collettivo (in basso), mentre su quello orizzontale indichiamo la dimensione religiosa (a sinistra) e quella politica (a destra).

In ciascuno dei quattro quadranti possiamo rappresentare temi ed esperienze che si sono sviluppati nel passato o sono tuttora presenti. Otteniamo non una definizione, ma un quadro quasi fotografico.

Nel quadrante in alto a sinistra (individuale-religioso) la nv assume un carattere prevalentemente di natura esistenziale e filosofico, mentre in quello in basso a sinistra (collettivo-religioso) rientrano le grandi religioni che hanno tutte quante, in misura maggiore o minore, un contenuto di nv più o meno esplicitato e più o meno praticato.

Tutte le principali religioni (islam, cristianesimo, ebraismo, induismo, buddhism) esprimono un contenuto di nv, che pur essendo stato più volte trascurato, calpestato, costituisce una dimensione fondamentale di ogni civiltà e cultura ed è pertanto indispensabile riscoprirne la presenza in ciascuna religione.


Passando ai due quadranti della nv politica, possiamo ricordare come caso significativo a livello individuale Pietro Pinna, che nel 1949 con il suo rifiuto di prestare il servizio militare diede inizio alle lotte per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. (Pietro Pinna, La mia obbiezione di coscienza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1994.) Da solo, ebbe il coraggio, nell’Italia di quegli anni, di rifiutare la divisa. Alcuni avrebbero potuto considerarlo un visionario, un folle, la cui azione era priva di significato. Invece, dopo 23 anni il suo gesto di disobbedienza civile si traduce in una legge dello stato. Il movimento degli obiettori di coscienza nasce, in Italia, proprio dal suo rifiuto, e produce, nell’arco di due decenni, un risultato politicamente concreto.

Infine, nel quadrante in basso a destra ci sono i movimenti nonviolenti, che operano con continuità nel tempo, con alti e bassi e risultati più o meno positivi. Di questa area, che si propone obiettivi politici di cambiamento radicale della società, fanno parte vari gruppi, tra i quali in Italia, oltre ai due movimenti storici, MIR-Movimento Nonviolento, ricordiamo i Beati Costruttori di Pace e Pax Christi.

Ma la persona che più di altre ha contribuito alla diffusione della nv nel secolo scorso è il Mahatma Gandhi, al quale si ispirarono altri maestri della nv: Martin Luther King negli USA, Nelson Mandela in Sudafrica, Aldo Capitini e Lanza del Vasto in Italia. L’eredità di Gandhi appartiene al mondo intero, e uno scienziato come Albert Einstein lo ammirò tanto da affermare che “le generazioni future faticheranno probabilmente a credere che un uomo simile si sia mai realmente aggirato in carne ed ossa su questa terra”. La nv intesa alla Gandhi tende a comprendere tutti e quattro i quadranti, senza alcuna separazione significativa tra individuale e collettivo, religioso e politico. Ma ciascuno di noi si accosta alla nv seguendo percorsi assai diversi e comincia a sviluppare maggiormente gli aspetti che gli sono più congeniali. C’è chi ha più sensibilità per un coinvolgimento nella vita quotidiana, chi è più interessato alla vita politica collettiva, chi all’educazione. Tuttavia, la mappa della nv è più complessa e comprende tutti quanti gli approcci.

Passando a una analisi più formale, possiamo dire che la nv è caratterizzata da due aspetti principali che si integrano tra loro: ahimsa e satyagraha. Il primo è la “legge dell’amore” (Martin Luther King, La forza di amare, SEI, Torino, 2002), il principio del non uccidere, del non commettere violenza, della innocenza, del non aggiungere altra sofferenza a quella già esistente nella condizione umana. Il secondo fu coniato da Gandhi e dai suoi collaboratori in una data fatidica, l’11 settembre 1906 (l’ “altro 11 settembre”) e costituisce una sfida alla cultura politica contemporanea, largamente centrata sulla violenza. Possiamo tradurre il termine satyagraha con “forza della verità”, oppure forza che deriva dalla ricerca incessante della verità, o ancora dal “dire la verità ai potenti”. E’ l’espressione della nv attiva, intesa come lotta contro tutte le ingiustizie senza ricorrere alla violenza e creare altre ingiustizie. Mentre l’ahimsa esprime un rifiuto, un non commettere violenza, il satyagraha si richiama al principio del non omettere, non lasciare che altri facciano violenza e ingiustizia

Nonviolenza =
ahimsa – non commettere
satyagraha – non omettere

Che cos’è la violenza

Perché scegliere la nv? Come atteggiamento ideale, questa scelta è un tentativo di costruire una cultura, una società e delle personalità che rifiutano sempre di più la violenza non necessaria, dove per non necessaria si intende la violenza esercitata dall’uomo. C’è infatti nella nostra condizione umana qualche cosa che percepiamo come una violenza intrinseca, nella sofferenza e nel dolore che sperimentiamo come esseri finiti. Per quel che ne sappiamo, essa ci appare al momento attuale come inevitabile. Ma c’è invece una violenza che connotiamo come violenza intenzionale, aggiunta dall’uomo, sotto forma di violenza diretta, strutturale e culturale. E’ la triade del circolo vizioso della violenza, così come la interpreta Johan Galtung.

La cultura della nv mira a eliminare o quanto meno a ridurre e contenere il più possibile, ogni forma di violenza.

Possiamo tentare di quantificare la violenza diretta utilizzando i dati di un rapporto dell’ OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), World Report on Violence and Health, pubblicato nel 2002 e disponibile interamente su Internet (http://www.who.int/violence_injury_prevention/violence/world_report/wrvh1/en/), relativo alla violenza nel mondo nell’anno 2000).

Si stima (con incertezze molto grosse, perché i vari paesi non impiegano le stesse modalità di valutazione) che la violenza diretta provochi all’incirca 1.600.000 vittime all’anno, suddivise in tre categorie principali: suicidi (violenza intrapersonale, rivolta su di sé), omicidi (violenza interpersonale su piccola scala) e guerra (violenza su larga scala).

Il numero di vittime prodotte dalla violenza strutturale raggiunge un’intensità circa trenta volte superiore a quella della violenza diretta. In un giorno qualsiasi, come quello odierno, 100.000 persone muoiono letteralmente di fame, o per malattie riconducibili alla denutrizione, dopo aver passato un lungo periodo della loro vita nell’anticamera della morte, con grandi e inaudite sofferenze. La violenza diretta è un evento, relativamente circoscritto nel tempo; la violenza strutturale è un processo che dura a lungo, provocato dalle strutture sociali, economiche e politiche di un paese.

Infine, con violenza culturale intendiamo tutto ciò che nelle nostre culture, in nome delle teorie politiche, delle teorie economiche, di particolari interpretazioni delle culture religiose, dell’arte, della scienza e della tecnologia, e di tutte le possibili dimensioni culturali profonde, porta a giustificare le altre due forme di violenza.

A questo proposito, viene spesso sollevata una questione assai controversa: la violenza fa parte della natura umana, ovvero è insita nel nostro DNA, oppure no? Una delle migliori risposte a questo interrogativo è data dalla “Dichiarazione di Siviglia sulla violenza” diffuso dall’UNESCO, in cui vari scienziati di diversa formazione negano che vi sia un istinto violento nell’uomo.

(Il testo completo è pubblicato in vari siti. Si veda ad esempio: http://www.pennabilli.org/CARAPACE/TESTI/SIVIGLIA_DICHIARAZIONE.htm.

Per tentare di chiarire questo dilemma, gli psicologi, come Erich Fromm, distinguono due tipi di comportamento aggressivo

ERICH FROMM – aggressività
A) positiva
B) positiva

Il primo, indicato con A nello schema è benigno e conduce a un atteggiamento assertivo, mediante il quale difendiamo le nostre posizioni cercando di impedire che ci venga fatta una ingiustizia e una violenza senza tuttavia esercitarla a nostra volta nei confronti degli altri. Questo è l’atteggiamento che sta alla base della nonviolenza e del satyagraha.. Ma l’aggressività può diventare maligna (B) se si trasforma in violenza distruttiva.

In realtà non abbiamo una conoscenza esaustiva della natura umana e le scienze neurologiche stanno avendo nuovi importanti sviluppi e forse ci permetteranno in futuro di venire a capo di alcuni problemi. E’ tuttavia sbagliato metodologicamente partire da un’ipotesi che rischia di trasformarsi in profezia negativa che si auto avvera.

Gli studi più autorevoli ci permettono quindi di sostenere che la violenza è un prodotto culturale e sociale non è da attribuirsi primariamente alla natura umana, che invece è plasmabile: l’uomo può diventare sia violento, sia trasformarsi in un maestro della nonviolenza. Il Novecento ha visto la presenza sia di Hitler sia di Gandhi, le due guerre mondiali, Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki e le lotte di liberazione nonviolenta in India, negli USA, in Sudafrica, nei Paesi dell’Est europeo. Pertanto, uno degli obiettivi che dobbiamo proporci è la costruzione e la promozione di una cultura della nv.

La violenza in generale

Oltre al triangolo della violenza (diretta, strutturale, culturale), possiamo distinguere altre tre tipologie di intensità via via maggiore

  • violenza verbale;
  • violenza fisica reversibile;
  • violenza fisica irreversibile (omicidio)

Con un addestramento alla nv ci si propone di imparare a controllare la violenza ed evitare la scalata verso livelli superiori e irreversibili..

Infine, è bene accennare anche alla violenza politica, una forma di violenza intenzionale, che viene giustificata da gruppi politici organizzati per raggiungere obiettivi specifici ritenuti giusti. Contrariamente a quanto sostenuto da molti politici e rivoluzionari, questa forma di violenza dev’essere rifiutata per impedire che si crei un circolo vizioso che conduce ad altre forme di violenza sia strutturale sia culturale, come è avvenuto storicamente in gran parte delle rivoluzioni violente. Si verifica infatti una eterogenesi dei fini che porta a far sì che i mezzi si traducano in fini e che “la rivoluzione mangi i suoi figli”. Anche la nonviolenza propone una “rivoluzione permanente”, come diceva Aldo Capitini, ma condotta con coerenza tra mezzi e fini (Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano 1967). Ancora Gandhi ci metteva in guardia dagli esiti perversi della violenza, anche usata con buone intenzioni. Egli sosteneva che i mezzi sono il seme e mezzi e fini debbono essere entrambi nonviolenti.

La trasformazione nonviolenta dei conflitti

Un’altra possibile definizione della nonviolenza, non filosofica ma operativa, è la seguente: “la nonviolenza è la capacità di trasformazione costruttiva e creativa dei conflitti dal micro al macro al fine di ridurre il più possibile ogni forma di violenza”. Essa consiste quindi nella abilità di trasformare la naturale aggressività umana in forza creativa e non distruttiva.
Per affrontare questo tema, prendiamo spunto dall’analisi svolta da Johan Galtung (La trasformazione nonviolenta dei conflitti, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2000) il quale propone un modello interpretativo del conflitto noto come “triangolo del conflitto”. A ciascun vertice del triangolo corrisponde un aspetto caratteristico che contribuisce a definire il conflitto: A sta per atteggiamenti; B (behaviour in inglese) per comportamento; C per contraddizione. Un conflitto pienamente sviluppato comprende tutti e tre questi aspetti, di cui solo il comportamento è manifesto, mentre gli altri due sono latenti. Si danno casi in cui sono presenti soltanto una o due delle caratteristiche salienti del conflitto

Il triangolo del conflitto


La nonviolenza è costruttiva in quanto contribuisce a trovare delle soluzioni che permettono a tutti i confliggenti di ottenere dei benefici e, di conseguenza, il conflitto diventa un’occasione di crescita per ognuno.

Per cercare di capire meglio cosa intendiamo per “trasformazione nonviolenta dei conflitti”, cominciamo a precisare che, secondo questa accezione, il termine conflitto non è sinonimo di violenza né di guerra, ma indica una situazione di contrapposizione, di contraddizione, tra più attori sociali che intendono perseguire scopi diversi. Il ricorso alla violenza è l’esito negativo al quale può portare un conflitto qualora non si sia capaci di trasformarlo creativamente e funzionalmente per tutte le parti in gioco.

In generale, il conflitto si presenta come un processo dinamico che si sviluppa seguendo, certo non in modo meccanicistico, tre fasi principali: prima della violenza, durante la violenza, dopo la violenza. Per agire in modo nonviolento, dobbiamo apprendere tecniche specifiche per ciascuna delle tre fasi, che possiamo classificare come tecniche di prevenzione, intervento, riconciliazione. Prevenire significa educarci e alfabetizzarci alla gestione e trasformazione nonviolenta del conflitto attraverso il dialogo, l’ascolto attivo, la comunicazione nonviolenta, la condivisione, l’empatia, la consapevolezza. Lo scopo è quello di evitare la scalata del conflitto verso livelli crescenti e distruttivi di violenza, mantenendo sotto controllo l’aggressività, la rabbia e la paura onde evitare di alimentare una spirale crescente di azioni e reazioni che possono sfociare nell’esplosione della violenza estrema.

Il triangolo della trasformazione nonviolenta del conflitto

Quando la prevenzione fallisce o quando ci si trova come terze parti di fronte a situazioni in cui la violenza è già in atto, il compito si fa più difficile perché occorre intervenire per far cessare la violenza, per difendere le vittime, i più deboli, senza aggiungere altra violenza. E’ l’ora della nonviolenza del forte, del coraggioso, che si interpone tra le parti mettendo a repentaglio la propria vita senza minacciare quella degli altri. Occorre ovviamente distinguere l’interposizione e l’intervento su piccola scala, in situazioni anche casuali della vita quotidiana, dall’intervento nei conflitti macro, su larga scala, in sostituzione degli eserciti. Mentre nel primo caso può talvolta essere sufficiente l’intervento individuale e, comunque, possono verificarsi situazioni estreme in cui siamo costretti ad agire da soli, nei conflitti macro dobbiamo intervenire con modalità collettive, organizzate per tempo perché possano essere efficaci. A differenza di altri tipi di intervento, la nonviolenza si propone di liberare sia gli oppressori sia gli oppressi, sia le vittime sia i perpetratori, dalle catene disumanizzanti della violenza. E’ un compito ambizioso e difficile, che molte volte nel corso della storia è stato assunto dai “giusti”, che si comportano come dei bodhisattva capaci di manifestare compassionevolezza e condivisione nei confronti di tutti gli esseri viventi. La dinamica dell’azione nonviolenta richiede questa disponibilità al sacrificio, anche estremo, a sopportare su di sé la violenza esercitata ingiustamente dall’oppressore e dal perpetratore, per innescare un effetto boomerang che sgretola il potere apparentemente monolitico dell’avversario coinvolgendo settori via via più ampi delle terze parti, inizialmente indifferenti o neutrali E’ ciò che si è verificato più volte nel corso della storia, in situazioni assai diverse: dalla lotta di liberazione dell’India sotto la guida del Mahatma Gandhi, alle lotte contro l’apartheid negli USA, con Martin Luther King, e in Sudafrica, con Nelson Mandela e Desmond Tutu, ai mutamenti nell’Europa centro-orientale culminati nel 1989.

Ma altrettanto importante è l’opera di riconciliazione dopo la violenza. Senza questa azione terapeutica, il ciclo della violenza tende facilmente a riprodursi. Le ferite e i traumi subiti a livello individuale e collettivo agiscono nel profondo e prima o poi rischiano di riemergere alla coscienza, con conseguenze distruttive. La commissione verità e riconciliazione promossa in Sudafrica da Tutu e Mandela è un formidabile esempio positivo che dovrà essere seguito e perfezionato in tutti quei casi, dal Rwanda ai Balcani alla Palestina all’Irlanda ai Paesi Baschi e così via, in cui la violenza ha provocato odi laceranti, sete di vendetta, incapacità di convivere.

Conflitti simmetrici e asimmetrici

Una utile classificazione consiste nell’osservare che esistono due tipi fondamentali di conflitti: simmetrici e asimmetrici, che si distinguono a seconda dei rapporti di potere tra le parti in gioco. Nel primo caso le parti si trovano in una condizione di potere equilibrato, nel secondo la relazione è squilibrata. Gran parte dei conflitti micro, relazionali, sono prevalentemente simmetrici, mentre tra i conflitti macro tendono a prevalere quelli asimmetrici. Una delle tecniche più impiegate nell’affrontare i conflitti simmetrici è la mediazione, che non può essere immediatamente utilizzata nel caso asimmetrico, perché prima occorre intervenire per riequilibrare i rapporti di potere.

Il mediatore è una parte esterna, neutrale o, se si preferisce, equidistante (o equivicina) rispetto alle parti in conflitto, capace di facilitare la comunicazione e la ricerca di soluzioni da parte dei confliggenti stessi. Il suo intervento dev’essere accettato e richiesto da entrambe le parti, sulla base della fiducia. La sua funzione è quella di fare “da specchio” rimandando dall’uno all’altro percezioni, sensazioni, motivazioni che alimentano il conflitto, aiutando a separare e individuare le componenti oggettive da quelle puramente soggettive. Per far ciò deve praticare l’arte dell’ascolto attivo e profondo e utilizzare il dialogo per calarsi nella situazione.

Nei conflitti asimmetrici, le parti esterne svolgono il ruolo fondamentale di intervento, non necessariamente richiesto, per riequilibrare i rapporti di potere che sono a svantaggio della parte oppressa. Oltre a riequilibrare i rapporti di potere, intervenendo a favore degli oppressi, le parti esterne hanno il compito di ristabilire i canali di comunicazione interrotti; riumanizzare le parti in causa, oppressi e oppressori, accettando su di sé la violenza della repressione in maniera tale da rendere visibile la sofferenza degli oppressi e del gruppo che interviene a loro favore e suscitare atteggiamenti empatici che modifichino attitudini, pregiudizi e comportamenti. Inoltre, si propongono di ridurre il consenso diretto e indiretto che le parti esterne indifferenti danno al sistema di potere degli oppressori e di favorire l’emergere di soluzioni sovraordinate del tipo vinci-vinci che consentano a tutti di risultare vincitore e a nessuno di essere perdente.
Tra i principali presupposti che stanno alla base di un processo di trasformazione nonviolenta dei conflitti, ne ricordiamo alcuni:

1. Il conflitto può essere sia fonte di violenza, sia di crescita costruttiva; decisivo è il modo con cui lo si affronta.
2. Nessun singolo attore sociale detiene tutta la responsabilità, ma esiste una interdipendenza delle parti.
3. La responsabilità della trasformazione costruttiva del conflitto sta nelle scelte dei singoli attori, nel potere personale e nella responsabilità di ciascuno.
4. L’azione intrapresa può avere conseguenze negative impreviste, indesiderate e non volute. Pertanto dev’essere quanto più reversibile possibile.
5. La forza deriva, oltre che dal potere personale interiore, dall’unione per un fine comune realizzato mediante la cooperazione.
6. Nessuno possiede tutta la verità, ciascuno la ricerca nel dialogo.
7. La vita è sacra, pertanto ne deriva il rifiuto della violenza e la scelta dell’ahimsa.

Come ha sintetizzato efficacemente Michael Nagler,

“la guerra talvolta funziona, ma non è mai efficace”
”la nonviolenza talvolta funziona, ma è sempre efficace”.

(Michael Nagler, Per un futuro nonviolento, Ponte alle grazie, Firenze 2005).

Per una educazione alla nonviolenza

Cultura ed educazione alla nonviolenza si presentano dunque come processi orientati alla trasformazione nonviolenta dei conflitti. Il lavoro che dobbiamo intraprendere è pertanto quello di un lungo processo di alfabetizzazione mediante “laboratori della nonviolenza” intesi come luoghi nei quali, all’interno stesso della scuola, possiamo simulare conflitti, studiarne le soluzioni costruttive e creative, mettere alla prova le nostre emozioni, lavorare su tutte le dimensioni della nostra persona, nessuna esclusa: dal corpo alla mente, dalle emozioni ai sentimenti, dalla rabbia al senso di colpa e così via.

Un percorso molto concreto è quello della “mediazione tra pari”, intrapreso ormai con buoni risultati in numerose scuole. Dalle elementari alle superiori, bambini e bambine, ragazzi e ragazze si addestrano a svolgere il ruolo di mediatori nei conflitti tra i loro coetanei (Jefferys Duden Karin. Mediatori efficaci Come gestire i conflitti a scuola,, La Meridiana, Molfetta 2001) traendone un beneficio personale e modificando positivamente il clima relazionale nella scuola.

Ma l’analisi e la pratica della trasformazione nonviolenta dei conflitti non può restare confinata solo nell’ambito pur importante delle relazioni tra pari. Essa coinvolgerà man mano tutto il personale scolastico e gli insegnanti i quali, per primi, dovranno rendersi disponibili e coinvolgersi in queste esperienze.

Cammin facendo, scopriremo che anche le singole discipline scolastiche dovranno subire significativi cambiamenti per adottare un nuovo punto di vista, un nuovo paradigma. Come insegnare la storia non solo come successione di eventi bellici, ma anche come faticoso cammino verso la nonviolenza? Come insegnare la geografia e l’economia in una prospettiva globale, non eurocentrica, aperta alle dimensioni multiculturali? Come insegnare le scienze a partire dalla consapevolezza ecologica?

Questo è un cammino di ricerca che molti hanno iniziato e che coinvolge non solo il mondo della scuola, ma anche quello della ricerca accademica. Nell’ambito della peace research internazionale si è soliti dire che ricerca/educazione/azione formano una triade unica. Non c’è buona educazione senza ricerca e azione, e viceversa.

Dobbiamo imparare!

Molto umilmente, ci si deve mettere nella prospettiva di una ricerca incessante, consapevoli dei nostri limiti e della nostra ignoranza. Abbiamo tutti quanti molto da imparare. Per esempio, dobbiamo imparare…

…a vivere nell’incertezza
…a vivere nel cambiamento
…a vivere nel conflitto
…a vivere nella ricerca e nella correzione dei nostri errori
…a vivere con l’innovazione e con la potenza della tecnoscienza
…a vivere la nonviolenza

In altre parole, dobbiamo imparare semplicemente a vivere. E come ci ricorda Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Nessun altro lo può fare, se non tu. Non puoi aspettarti che altri lo facciano al posto tuo!


Bibliografia

Oltre ai testi già segnalati man mano, ne suggeriamo altri in questa breve bibliografia critica. Ogni scuola dovrebbe dotare la propria biblioteca di una specifica sezione di “educazione alla pace e alla nonviolenza”. Anche la nonviolenza si impara: non è solo frutto di buone intenzioni e la si deve studiare!

Sul bullismo

Anna Oliverio Ferraris, Piccoli bulli crescono, Rizzoli, Milano 2007. Una buona introduzione al problema scritta in modo chiaro ed efficace.

Daniele Novara e Luigi Regoliosi, I bulli non sanno litigare, Carocci, Roma 2007. Gli autori affrontano il problema dal punto di vista della trasformazione nonviolenta collettiva del conflitto.

Elena Buccoliero e Marco Maggi, Bullismo, bullismi, Angeli, Milano 2005). E’ un utile manuale corredato di esercizi.

Per chi volesse cimentarsi con una ricerca un po’ più impegnativa, segnaliamo un fatto curioso: la riscoperta del pensiero gandhiano in India (proprio nella sua patria, dove era stato ampiamente dimenticato o ridotto a icona retorica), a partire da un originalissimo film “bolliwodiano” (purtroppo disponibile, almeno per ora, solo in DVD in lingua originale con sottotitoli in inglese), che narra le vicende di un bullo prepotente, abituato a usare la violenza delle armi, il quale entra in contatto casualmente con il pensiero di Gandhi e ne viene profondamente trasformato. La vicenda, raccontata con i toni tipici della commedia indiana, ha suscitato un vero e proprio movimento su scala nazionale soprattutto nelle scuole e nei college. Potete documentarvi nel sito www.gandhigiri.org. Gandhigiri sta a indicare il “metodo di Gandhi”. Il titolo del film è: Lage Rao Munna Bhai, dal nome del protagonista, Munna Bhai.

Sulla trasformazione nonviolenta del conflitto e la mediazione

Judy Korn, Thomas Mucke, La violenza in pugno. Adolescenti e violenza. Tecniche di mediazione, EGA, Torino 2000. Proposte di mediazione in situazioni difficili.

Jacques Semelin, La nonviolenza spiegata ai giovani, Archinto, Milano 2001. Una buona e semplice introduzione alla nonviolenza da proporre come lettura diretta a giovani di varia età.

Angela Dogliotti Marasso e Elena Camino, Il conflitto: rischio e opportunità, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi, Sulmona 2004
Oltre a una ottima introduzione alla problematica del conflitto, il testo contiene numerosi esempi di esperienze condotte nelle scuole.

Pat Patfoort, Io voglio tu non vuoi. Manuale di educazione alla nonviolenza, EGA, Torino 2001
Pat Patfoort, Difendersi senza aggredire, EGA, Torino 2006
Questi due testi di una nota antropologa belga sono strumenti di grande utilità, con molti esempi concreti e costituiscono un approccio integrativo rispetto a quello di altre scuole di pensiero.

Segnaliamo inoltre la collana Partenze, diretta da Daniele Novara, La Meridiana, Molfetta, dedicata specificamente al tema dell’educazione alla pace e alla nonviolenza, con contributi di svariati autori internazionali che coprono un arco di approcci molto vasto. In particolare segnaliamo il manuale di Jefferys Duden Karin, Mediatori efficaci.

Altri strumenti

Film

Una forza più potente, DVD da richiedere alla redazione di Azione Nonviolenta (vedi sotto). E’ uno straordinario strumento educativo per affrontare la storia della nonviolenza attraverso sei episodi di lotte nonviolente avvenute nel Novecento, in ogni parte del mondo: USA, India, Sudafrica, Danimarca, Polonia, Cile. In lingua inglese, con sottotitoli in italiano.

Fumetti

Art Spiegelman, Maus, Einaudi, Torino 2000. Straordinaria opera sulla shoah, da parte di un grande artista.
Keiji Nakazawa, Gen di Hiroshima, 4 voll., lacet Manga, Panini, Modena, 1999-2001.
Anche questa è un’opera di enorme fascino, realizzata con una grafica tipica della cultura dei fumetti manga giapponesi. E’ la vibrante denuncia del bombardamento atomico e del militarismo giapponese, visto con gli occhi di un bambino.

Siti Internet

Centro Studi Sereno Regis, via Garibaldi 13 Torino, www.serenoregis.org
Si possono consultare le schede della più ampia biblioteca specializzata sulla nonviolenza.

Comitato Italiano per il Decennio 2001-2010, www.decennio.org
Si può richiedere il CD: Mattoni di pace. Per costruire un decennio di nonviolenza

Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti (CPPP), www.cppp.it

Riviste

Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento, www.nonviolenti.org
CEM Mondialità, mensile di educazione interculturale e alla mondialità, www.cem.coop
Conflitti, rivista del CPPP, www.cppp.it


 

Venerdì 20 aprile 2007
Auditorium Convitto INPDAP – Sansepolcro