L’invisibilità del male

BifoL’invisibilità del male
di Franco Berardi detto Bifo

In un saggio dedicato alle conseguenze di Chernobyl, (Tchernobyl et l’invisibilité du mal, “Esprit”, mars-avril 2008) Jean Pierre Dupuy pone il problema della causalità nella genesi della malattia mortale.

“Rendere visibile il male invisibile” scrive Dupuy, citando il suo maestro Ivan Illich. In effetti potremmo dire che questo è in generale il compito della critica, totalmente assente nel campo dell’ignorante politica del nostro tempo. Una politica critica dovrebbe in primo luogo rendere visibile il male invisibile, e quindi scongiurarlo. Dogmatica è una politica incapace di vedere il male invisibile, perché il dogma (per esempio il dogma della crescita economica) è proprio ciò che acceca, rendendo impossibile vedere l’essenziale.

“Chernobyl, scrive Dupuy (che fra l’altro è autore di un libretto dal titolo La panique, uscito all’inizio degli anni ’90) è simbolo dell’avvenire energetico e ambientale del pianeta, cioè dell’avvenire dell’umanità. La nucleocrazia mondiale attira l’attenzione sulla minaccia ambientale perché vede la grande opportunità del nucleare civile. Io non sono affatto un militante antinucleare. Può darsi che il nucleare civile rappresenti provvisoriamente seppure parzialmente una risposta alla doppia minaccia del caos climatico e di quella che abbiamo convenuto di chiamare la crisi energetica. Ma non possiamo volere la sopravvivenza a qualsiasi prezzo. La fissione nucleare dice di essere capace, con i futuri generatori a neutroni rapidi, di produrre elettricità sicura utilizzando un materiale fissile abbondante e riciclando una parte dei suoi rifiuti. Può darsi. Ma a che prezzo in termini politici? Scegliere questa tecnica significa scegliere un tipo di società che è obbligata non fare nessun errore per un tempo di lunghezza inverosimile. E’ una condizione che il nucleare civile condivide con la dissuasione che porta la stesso nome: il primo errore è un errore di troppo. Io non credo che questo sia compatibile con i principi di
una società aperta, democratica e giusta.”

Le implicazioni del discorso di Dupuy dovrebbero ormai essere alla portata dell’intelligenza politica (se esistesse). Non si può continuare a finalizzare lo sviluppo sociale e l’impiego delle risorse energetiche alla crescita economica. La crescita economica è entrata in conflitto insanabile con il carattere “umano” della storia.

La scienza e la tecnica economiche hanno prodotto ricchezza, non si può negarlo. Ma non si può continuare a pensare la ricchezza in termini di economia acquisitiva, proprietaria e consumista. Solo ripensando la nozione
di ricchezza in base a criteri non acquisitivi potremo aprire una prospettiva di futuro umano. Non mi riferisco a una concezione spiritualista della ricchezza. Penso alla ricchezza come godimento del tempo, come tenerezza frugale come piacere dei beni immateriali, penso a un materialismo dell’immaterialità.

Ma torniamo al ragionamento di Dupuy, torniamo a Chernobyl e alle sue lezioni.

“Secondo le autorità sovietiche, ma anche secondo la memoria ufficiale che abbiamo accettato, le vittime di quell’evento sarebbero state “soltanto” 4000. In realtà, dice Dupuy, nella sola cittadina di Pripyat sarebbero
morte 15.000 persone nei sei mesi successivi all’evento. E nessuna valutazione è possibile a proposito delle 600.000 persone che sono state costrette ad andare a ripulire la zona, perché di loro non si sa
praticamente niente, in quanto quelle che non sono morte subito dopo aver svolto questo lavoro sono state disperse per tutta l’Unione sovietica e nessuna indagine epidemiologica è mai stata fatta su di loro. Nel 2000,
evocando l’incidente all’ONU, Kofi Annan parlò di nove milioni di vittime di Chernobyl, e Dupuy osserva che “i medici e i genetisti parlano degli effetti delle deboli dosi di radioattività sulla decina di milioni di persone che vivono bevono e si alimentano e si riproducono in un ambiente contaminato: cancri, cardiopatie, fatica cronica, patologie inedite.”

Non c’è modo di stabilire in maniera esatta le conseguenze patogene e letali di un evento come Chernobyl, allo stesso modo che non possiamo stabilire quanti tra coloro che muoiono per un tumore polmonare debbono la loro sorte al caso, alla genetica, e quanti invece all’incremento delle polveri sottili nell’aria cittadina.

“Gli effetti della radioattività sul metabolismo cellulare sono simili agli incidenti spontanei che causano il cancro naturale di cui muore il 20% della popolazione. Nulla distingue un cancro causato dalle radiazioni da un cancro ordinario. Siccome l’effetto delle radiazioni considerate deboli è marginale rispetto alle altre cause di cancro, l’aumento del tasso di cancro dovuto alle radiazioni può essere considerato proporzionale alla loro dose, anche quando si tratta di dosi molto deboli: è la base stessa del calcolo differenziale.”

Quel che Dupuy suggerisce è una metodologia per la valutazione degli effetti tossici della crescita economica. Seguiamo ancora il suo ragionamento:

“Quando delle dosi radioattive sono scadenzate nel tempo e distribuite su una vasta popolazione, è impossibile dire di una qualsiasi persona che muoia di cancro o di leucemia che è morta per effetto di quel che è accaduto a Chernobyl. Tutto quel che si può dire è che la probabilità che aveva di morire di cancro o di leucemia è stata leggermente incrementata dall’evento di Chernobyl. I trenta o quarantamila morti che sono stati causati dalla catastrofe nucleare non possono essere dunque nominati. La tesi ufficiale di conseguenza consiste nel dire che non esistono neppure.
Questa non è soltanto una filosofia gravemente falsa, questo è un crimine etico.”

Dupuy conclude il suo saggio denunciando l’idea che la crescita capitalista sia qualcosa di naturale nonostante i suoi effetti criminali. Il meccanismo della crescita capitalista viene presentato come l’unica forma possibile di esistenza sociale, come l’unico modo possibile di sostentare la popolazione planetaria, mentre questo modello corrisponde all’interesse di una piccola minoranza e si riproduce per l’ignoranza dell’enorme maggioranza. L’effetto tossico del capitalismo viene presentato come una fatalità di origine divina.

“A torto l’industria nucleare si felicità per il fatto che Three Miles Island non sia divenuta Chernobyl, e che Chernobyl non sia divenuto un’esplosione atomica. Queste catastrofi maggiori che non si sono verificate per un pelo sono la sola speranza che l’industria trovi la saggezza e la volontà di evitarle. Ma l’industria sta prendendo il cammino opposto, nonostante Three Miles Island e nonostante Chernobyl. Questo significa una cosa soltanto: il peggio, che la sorte ha evitato, l’industria non lo prende per reale, semplicemente perché non ha avuto luogo. Si tratta di una colpa gravissima.”

Negli ultimi tempi tre amici sono morti di tumore al polmone. Tre non è poco né molto. Del resto quanti amici ho? Se li potessi contare tutti potrei fare una percentuale, ma non sarebbe molto significativo. La loro morte dimostra soltanto che dio non esiste, perché se esistesse un dio che vuole questo, meglio per lui e per noi sarebbe ignorarne l’orrore, come dice nel suo libretto “Cammino fra le ombre” Giovanni Cenacchi, che è per l’appunto uno di quei tre.
Perciò lasciamo perdere dio, pensiamo piuttosto all’assessore al traffico. Non parlo del miserabile che fa l’assessore al traffico nella mia città, parlo della metaforica interfaccia tra l’infinita violenza del capitalismo e la quotidiana violenza che siamo costretti a sopportare e che talvolta esplode, manifestandosi in forma catastrofica come accade a Chernobyl nel 1986.

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