Per chi suona l?arpa birmana?

Per chi suona l?arpa birmana?

Nanni Salio

Quella tuttora in corso è solo l?ultima di una lunga serie di lotte nonviolente che, da almeno vent?anni, caratterizzano la vita politica della Birmania (Burma o Myanmar, a seconda di come la si voglia chiamare). Di queste lotte non si parla molto nei media occidentali, tranne per la figura di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace agli arresti domiciliari da 12 anni. E ancor meno si agisce sul piano politico istituzionale.
Pertanto, le manifestazioni che si susseguono da circa un mese, guidate dai monaci e dalle monache buddiste hanno colto un po? tutti di sorpresa, tranne coloro che da tempo mantengono i contatti con i movimenti di opposizione e di protesta nonviolenti. Colpisce, infatti, il manuale di azione nonviolenta preparato da tempo a cura di Nonviolence International Southeast Asia, Speaking Truth to Power. The Methods of Nonviolent Struggle in Burma, (disponibile ondine: http://nonviolenceinternational.net/images/stories/Speaking_Truth_to_Power.pdf), che ha sicuramente contribuito alla preparazione di quest?ultima fase della lotta.
Ancora una volta assistiamo al dispiegarsi del people?s power, il potere della nonviolenza, e del prezzo, talvolta assai duro, da pagare per non cadere nella trappola infernale della lotta armata e della guerra.
Guardando le immagini straordinarie delle decine di migliaia di monaci e monache che a piedi scalzi e ?a mani nude? guidano la protesta e resistono alla repressione, affiorano alla mente altre storie: da quella dell??arpa birmana?, lo splendido film in cui il regista giapponese Kon Ichikawa, ha saputo rappresentare con straordinaria intensità la consapevolezza e la compassionevolezza del buddhismo nella tragedia della guerra, alle fotografie dei giovani di piazza Tien An Men che sfidano i carri armati, ai monaci tibetani che si ribellano e protestano per l?occupazione cinese del loro paese.
Di fronte alla pacata, ma ferma, determinazione di questi/e religiosi/e sorgono in noi sentimenti opposti, di ammirazione per il loro coraggio e di rabbia per la miopia e la brutalità della violenza da parte di un manipolo di generali delegittimato e corrotto, che si mantiene al potere grazie all?indifferenza e al sostegno da parte di molti dei paesi più influenti.
Spetta a noi non lasciare soli i manifestanti e premere sui nostri governi perché intervengano e contribuiscano a realizzare quella transizione alla democrazia che non può più attendere. Ed è anche nostro compito continuare a denunciare il ruolo nefasto di tutti gli eserciti, il sostegno di cui godono le elite militari in ogni paese e lo sperpero di risorse provocato dal gigantesco complesso militare industriale in ogni area del pianeta.
Uniamoci ai tibetani nel recitare il famoso mantra Om mani padme hum, ?salve gioiello nel fiore di loto?, nella speranza che il ritorno del buddhismo impegnato sulla scena politica ci aiuti a uscire dalla spirale perversa della violenza e a diffondere il messaggio della nonviolenza, nella continuità tra Buddha, Cristo e Gandhi.

www.irrawaddy.org/

Aung San Suu Kyi: Libera dalla paura, Sperling & Kupfer, Milano 1996, 2005; Lettere dalla mia
Birmania, Sperling & Kupfer, Milano 2007
Il pavone e i generali. Birmania: storie da un Paese in gabbia
di Brighi Cecilia, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2006
Nella fantasia di molti occidentali, la Birmania è una terra di grande fascino, di storie preziose, di incanti velati… In realtà, questo Paese è il primo esportatore di metanfetamine al mondo e il secondo per il traffico di oppio. Un Paese che da quasi mezzo secolo è oppresso da una sanguinosa dittatura militare, che schiaccia il popolo con il lavoro forzato, con violenze, stupri e deportazioni. Un regime dittatoriale che, da oltre dieci anni, tiene agli arresti domiciliari Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace e simbolo della resistenza democratica e non violenta. Questo libro racconta le vicissitudini e la fuga rocambolesca all’estero di alcuni dei protagonisti politici e sindacali dell’opposizione.

L’arpa birmana
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=2056

(Biruma no tategoto)
Un film di Kon Ichikawa. Con Tatsuya Mihashi, Shoy Tasui, Yunosyke Ito, Rentaro Mikuni, Shôji Yasui, Jun Hamamura, Taketoshi Naitô, Kô Nishimura, Hiroshi Tsuchikata, Sanpei Mine, Yoshiaki Kato, Sojiro Amano, Yôji Nagahama, Eiji Nakamura, Shojiro Ogasawara, Tomoko Tonai, Yûnosuke Itô. Genere Drammatico, b/n 144 (116) minuti. – Produzione Giappone 1956.

In Birmania nel 1945, alla fine della guerra, il soldato giapponese Mizushima rifiuta il rimpatrio, diventa prete buddista e percorre il paese a seppellire i compagni caduti. Sceneggiato da Natto Wada da un romanzo di Michio Takeyama, è un poema lirico il cui pacifismo affonda le sue radici nella coscienza religiosa dell’uomo e in un sentimento panteistico. Qua e là prolisso nella solenne lentezza del suo ritmo largo, quando affronta senza mediazioni né patetiche né estetizzanti i suoi temi di fondo raggiunge momenti di dolorosa e maestosa bellezza. Gli fa da collante, per esprimerne la dimensione mistica, la musica di Akira Ifukube che qui diventa veramente ?religione? cioè collegamento: tra l’uomo e il mistero, tra uomo e uomo, amico o nemico. Premio San Giorgio alla Mostra di Venezia 1956 quando non fu assegnato il Leone d’oro. Rifatto, e presentato a Venezia, dallo stesso regista nel 1984.

Non capita tutti i giorni di trovare un distributore che abbia il coraggio di uscire dalle Susanne tutte panna per portare al pubblico qualcosa di nuovo e di difficile. Perciò bisogna citare con tanto di nome e di cognome il signor Giovanni Sciscione (che d?altronde non conosco) perché come capo della Globe Film ha avuto il merito di noleggiare e di presentare al pubblico italiano L?arpa birmana di Kon Ichikawa, un film giapponese che alla Mostra di Venezia di due anni fa stette fino all?ultimo in terna per il massimo premio. Lodevolmente inoltre il film non è doppiato in italiano, ma presentato nell?originale con sovratitoli in italiano (cosa tentata mi pare una volta solo in passato con Rasciamon) così non solo riconoscendo la essenziale intraducibilità della poesia, ma risparmiando allo spettatore il cacofonico urto che avrebbe rappresentato il saltare dai dialoghi in italiano ai canti in giapponese e viceversa, dato che canto e musica questa volta sono un elemento funzionale e quindi insopprimibile del film. Perché è soltanto la musica che a un certo momento diventa l?ideale mezzo di comunicazione tra i personaggi: tra Mizuscima, l?umile soldato che per religiosa pietà dei caduti rimasti insepolti dopo la disfatta giapponese in Birmania, diserta e si fa bonzo per sotterrarli, e i camerati prigionieri del suo reparto che chiusi in campo aspettano il momento del rimpatrio. Essi sospettano che in quel misterioso monaco, di cui tutti parlano, che erra a raccogliere e compone con le sue mani nella fossa i poveri resti rimasti a spolparsi al sole sulle sabbie e nelle giungle birmane, si celi Mizuscima, il loro compagno dall?anima umile e mite, che odiava la guerra, e soleva accompagnare le loro canzoni col suono della sua arpa, e vorrebbero mettersi in comunicazione con lui, per ritrovarlo e persuaderlo a tornare assieme in patria. Ma egli ha deciso di non lasciare i suoi poveri morti, e perciò sfugge ai tentativi dei compagni, e solamente più tardi, quando già saranno sulla nave che li riconduce in Giappone, in una lettera che il capitano leggerà agli uomini raccolti una sera sul ponte, confesserà la sua identità e dirà loro addio. A Venezia il film fu salutato specialmente allora per il suo messaggio pacifista. E questo messaggio c?è, benché non sia forse del tutto così puro come sembra. Giusta è la rappresentazione spietata degli onori della guerra, anche se certe macabre e purulente crudità oltre-passano talora il pudico freno dell?arte. E giusta è la denuncia della inutilità del massacro, e giusto è il rispetto per l?eroismo sfortunato. Ma una sincera condanna della guerra non può astrarre dalle responsabilità della guerra. Nell?Arpa birmana a un certo momento un personaggio dice: ?Nessun uomo può capire il perché di tanti dolori?. Non giriamo intorno alle cose. Il perché di tanti dolori risale a quei pazzi totalitarismi che hanno scatenato la fatale conflagrazione a costo di perirvi, e il totalitarismo giapponese altrettanto degli altri, quel vecchio Giappone rancido, guerrafondaio e fanatico che ha trovato speriamo per sempre la sua tomba in Cina. Una parolina di più in questo senso si poteva aggiungere. Ci avrebbe forse risparmiato di vedere quell?anno a Venezia, tra coloro che più seraficamente si estasiavano davanti alle bellezze ideali del film, uomini che avevamo conosciuto entusiasti e fortunati zelatori di quegli stessi regimi ai quali precisamente risale il perché di tanti dolori! Detto questo per sincerità, resta che L?arpa birmana è una delle opere più dense, originali, stimolanti che lo schermo ci abbia mostrato e non intendendo soltanto in queste ultime squallide stagioni di generale declino. È un?opera in cui, come in ogni creazione che nasce dal-. l?urto con una verità profonda, continuamente l?immagine, per la sua stessa plastica fertilità, va oltre il significato letterale della parola e del fatto, aprendo a ogni passo squarci di poetica illuminazione. Quella solitaria ammantata figura che seguiamo di lontano su plaghe deserte, lungo fiumi sterminati, assorto nella sua misericordiosa missione, a un certo momento si stacca dalla piccola realtà del personaggio per diventare un vivente simbolo, una specie di santo errante che non potrà mai più posare sinché uomini si uccideranno sulla terra, sinché figli morranno in terra lontana senza che la loro cara madre pianga su di loro, e pietose mani amiche li compongano in pace. 19 gennaio 1958

Un soldato giapponese, Mizushima, educato coi suoi commilitoni al canto, ed esperto nel suono dell?arpa, tenta invano di convincere, a guerra ormai finita, una guarnigione di fanatici ad arrendersi; ma costoro preferiscono l?inutile morte. Nella successiva marcia per raggiungere il reparto chiuso in un campo di concentramento, Mizushima s?imbatte in una montagna di cadaveri, e ne rimane così sconvolto da farsi bonzo e da rinunciare al ritorno in patria per dar loro sepoltura nella terra di Birmania. Ichikawa ottiene la lirica suggestione della sua opera immergendo la vicenda in quel che un critico francese ha chiamato un ?limbo atemporale?, in un universo dove tutti i combattenti, al ?cessate il fuoco?, diventano buoni e comprensivi. Non per nulla l?ouverture è scandita al canto di Home, sweet home che, intonato dalla compagnia giapponese, si confonde in un unico coro con quello dei ?nemici?inglesi. Simbolicamente, il tema della vita s?intreccia con quello della morte: non v?è conflitto quanto, invece, una specie di compenetrazione nell?ascesi. Il film è forte soprattutto quando la dialettica scorre all?interno dei vinti, quando Mizushima viene definito vigliacco dagli ultras ch?egli vorrebbe ridurre alla ragione. E quando quella montagna di morti (che si sarebbe poi moltiplicata in Fuochi nella pianura) sorge a testimonianza della bestialità e della crudeltà di uomini reali, di un massacro reale.
http://www.mymovies.it/dizionario/critica.asp?id=62962

L’arpa birmana (Biruma no tatrgoto)
Kon Ichicawa – [b/n] Giappone 1956 – 1h 56′
versione originale sottotitolata

?Perchè tanta distruzione è caduta sul mondo??
riduzione da KON ICHIKAWA – Il Castoro Cinema (Angelo Solmi)
Nel luglio 1945 la guerra volge al termine: nel tentativo di sfuggire alla morte o alla prigionia, le unità giapponesi valicano i monti o si aprono la via nelle foreste di Burma per raggiungere la Tailandia. I soldati del capitano Inoue marciano cantando, accompagnati dall’arpa birmana del soldato scelto Mizushima. Questi, che conosce la lingua locale, viene mandato avanti e dà il segnale di via libera suonando l’arpa. Vicino al confine i giapponesi sono ospitati in un villaggio, ma poco dopo il villaggio è circondato dagli inglesi. Mentre il capitano Inoue è incerto se resistere o arrendersi, si sente l’arpa di Mizushima che suona “Home, sweet home!”, (Casa, dolce casa!) e anche gli inglesi si uniscono al coro. La guerra è finita e i giapponesi vengono rinchiusi nel campo di concentramento di Mudon. Mizushima viene mandato in missione presso una guarnigione giapponese che rifiuta di arrendersi: quando essa viene distrutta, solo Mizushima sopravvive, gravemente ferito, e viene curato da un bonzo. Guarito, egli ruba le vesti al bonzo, si rade la testa e si mette in viaggio per raggiungere Mudon e i suoi compagni. Durante il viaggio vede qua e là i resti insepolti dei soldati nipponici caduti in battaglia; questo triste spettacolo gli fa una profonda impressione e, giunto presso Mudon, rinuncia ad unirsi ai suoi compagni e decide di dedicarsi alla sepoltura dei soldati del suo paese, caduti in terra straniera. Egli parte portando con sé un pappagallo avuto da una vecchia fruttivendola che frequenta il campo di Mudon. Nel passare un ponte incontra i suoi compagni che vi lavorano e tentano inutilmente di indurlo a rimanere. Quando arriva l’ordine di rimpatrio, il cap. Inoue dà alla fruttivendola un altro pappagallo, che dovrà dire a Mizushima di ritornare. Ma alla fine la fruttivendola porterà al capitano il pappagallo di Mizushima che andrà ripetendo: “No, non posso tornare” con una lettera esplicativa dell’ex soldato scelto…
L’arpa birmana è uno dei film più coerenti e unitari che siano apparsi sugli schermi, ma dal punto di vista narrativo, può essere diviso in tre parti. Nella prima il senso della guerra è immediato e violento, un clima di suspense angosciosa circonda i protagonisti. Nella seconda gli orrori del conflitto sono riflessi attraverso le personali esperienze di Mizushima. La terza, simbolica, è dominata dal misterioso gioco di richiami fra Mizushima e i commilitoni, e la tragedia si stempera in solenne elegia. Questo andamento narrativo, con una finale esaltazione del misticismo, ha fatto spesso parlare di un film religioso, il cui tema sarebbe il senso religioso della vita che riscatta l’orrore dell’esistenza, anche se comporta il dolore di una rinuncia. Una parte della critica occidentale, a suo tempo, si mosse in questa direzione, giungendo a chiedersi se la vocazione di Mizushima possa essere anche cristiana. L’esplicito significato religioso sarebbe confermato dall’idea dell’immortalità dell’anima, insita nell’opera, e dall’esigenza di un culto dei morti che onori le anime sopravviventi. Per questo un’altra parte della critica, quella laica, in particolare di sinistra, cadendo nell’equivoco, ha finito per vedere nel film due facce contrapposte: la prima di condanna alla guerra e che termina con un pacifismo umanitario, la seconda di una descrizione talvolta un po’ compiaciuta di una crisi mistica, sicché la guerra, nel finale, sarebbe intesa quasi come ineluttabile fatalità. La solitudine della preghiera e la missione pietosa di Mizushima avrebbero un valore puramente negativo, antieroico, e infirmerebbero l’eloquente protesta della prima parte. L’intenzione del regista, in realtà, era molto lontana da queste affermazioni. Per lui l’aspetto religioso dell’opera ha un valore secondario, giacché Ne L’arpa birmana egli ha voluto esaltare l’uomo e la sua resistenza, attraverso una concezione della spiritualità intesa come amore (in quanto vincolo eterno nella vita e nella morte) e come senso di dignità terrena più forte dell’espressione del dolore. Mizushima non è un dio né un semidio, è un uomo che resiste allo sfacelo del mondo; quando tutti voltano le spalle a ciò che è accaduto e preferirebbero dimenticarsene, riaffronta gli ardui sentieri della guerra per riassaporarne, con straziante chiarezza, la tragica disumanità. Senza la lunga, sofferta conversione di Mizushima, senza poter afferrare, in tutta la sua dimensione, la portata del distacco dai compagni e della rinuncia alla patria, l’essenza della rivolta di un umile soldato contro la guerra, concretata non con uno sterile misticismo, non con preghiere, ma con un esempio positivo, non avrebbe avuto la grandezza poetica che il film le conferisce. Gli echi di grandi avventure liriche estranee alla cultura giapponese sono senz’altro casuali, ma non è casuale la capacità di Ichikawa di dare al film un’universalità artistica attraverso l’operazione di trasferire una vicenda attuale nel testo di un’antica favola, in cui coesistono un clima realistico e uno di leggenda. In questo clima ha un profondo significato la forza purificatrice della musica e alla musica, infatti, è legato gran parte del fascino del film. Già di per sé l’arpa ha l’importanza di un simbolo, che collega amici e nemici; tuttavia la musica (che è di tipo occidentale con scarsi elementi orientali) non è mai un semplice commento all’immagine, ma spesso è un’indispensabile integrazione dell’immagine quando, addirittura, non si sostituisce all’immagine stessa…