Cinema: J?ai pas tué Saddam di Guillaume Bordier

Immagini dall?Afghanistan

All?Alba International Film Festival ? Infinity, anno quinto, che ha avuto luogo dal 31 marzo all?8 aprile, ci si immerge come sempre in un universo che non è solo di immagini, ma di dimensione dello spirito e di riflessione profonda. Il Festival si è aperto con un convegno di alto profilo sul tema ?Etica e estetica del pudore nella rappresentazione cinematografica?, argomento denso di significato e implicazioni in un?epoca cui spesso si addice l?appellativo di ?spudorata?.
Ma qui vorrei parlare di un piccolo film che mi ha molto colpito per la sua freschezza, ma anche per la sua pienezza di senso. Trattasi di J?ai pas tuè Saddam (2005) di Guilluame Bordier, un giovane francese, forse appassionato viaggiatore ancor prima che regista. È un documentario di sapore antropologico, girato ?con pudore?in Afghanistan, all?interno di un auberge situato su sperdute e stupende montagne ricoperte di neve. Guillume è andato a cercarsi il suo Afghanistan, fuori dalla ?violenta? interpretazione dei media che di questo paese ci parlano solo per riaprire le ferite inferte alla nostra sensibilità dalla guerra dei talebani o per ricordarci che la coltivazione e la vendita dell?oppio sono sempre più fiorenti.
Nell?auberge, ovvero in stanzoni semivuoti, con poverissimo arredo, ma ricoperti da tappeti di colori smaglianti, si incontrano pastori, commercianti, gente qualunque di etnia Azara, che desidera riposare, mangiare, dormire, pregare, ascoltare la radio, ma che ha anche molta voglia di chiacchierare, di scherzare, di ridere. Qui la vita scorre normale, ha le regole comuni a tutte le piccole comunità, senza odio, tensione, inganni, bassezze, rumori. Questo Afghanistan, immerso in una natura di incommensurabile bellezza, in un silenzio rotto solo dal canto di un uccellino è vero, esiste. Guillame Bordier ci è già tornato in questi mesi per girare un altro film e noi gli siamo grati per avercelo fatto conoscere coi suoi occhi, con la sua sensibilità, a testimonianza che alla guerra s?accompagna sempre la pace dei gesti, delle abitudini secolari della popolazioni residenti in questi luoghi .
Il film mi ha anche portato alla mente un romanzo che ho letto qualche tempo fa e che continua ad essere un best-seller, Il cacciatore di aquile di Khaled Hosseini, Piemme, 2004. Libro di grande successo e molto discusso, che ha il pregio di aprire dei varchi nella conoscenza sempre stereotipata che ci viene dai grandi mezzi di informazione sull?Afghanistan e comunque offre piste per eventuali approfondimenti che il lettore attento potrà intraprendere secondo i suoi interessi.
Ancora le immagini di un?artista (che ha recentemente esposto le sue opere in una Galleria d?arte Persano di Torino) mi sembra potrebbero aggiungere suggestioni al documentario di Bordier. Sono le potenti immagini di Lida Abdul, giovane artista afgana che attualmente vive e lavora tra Los Angeles e Kabul, grandi installazioni video che mostrano architetture afghane distrutte nei vari conflitti, sovrastate da rumori di aerei: in questa desolazione c?è l?umanità, una donna, un bambino, che continuano a vivere anche con gesti simbolici, perpetuando gli spazi del sogno.
L?arte nella sue varie dimensioni è sempre affermazione di vita, anche in quelle fasce di terra dove si incontrano militari provenienti da più parti del mondo? ma non solo loro, se si allarga lo sguardo.

J?ai pas tué Saddam di Guillaume Bordier, Francia 2005, mini DV, 51? col.

Laura Operti

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