Linguaggio collaterale

John Collins e Ross Glover (a cura di), “Linguaggio collaterale. Retoriche della guerra al terrorismo”, Ombre Corte, Verona 2006, p. 222

Nato a ridosso di un evento specifico, questo libro si propone di ricostruire l’apparato linguistico che, nella fase immediatamente successiva all’11 settembre, anticipò i bombardamenti sull’Afghanistan prospettando una situazione di guerra permanente. Trascorsi alcuni anni da quell’evento, i saggi qui raccolti non hanno perso nulla della loro attualità e originalità. La retorica politico-militare con cui l’amministrazione americana ha inaugurato la sua “guerra al terrorismo” non è cambiata nel corso degli anni; è mutato il teatro in cui si continua a combatterla, ma non le strategie discorsive con le quali si cerca di costruire il consenso attorno ad essa – anche se oggi sembrano perdere efficacia di fronte a verità sempre più evidenti. A cosa allude, allora, il titolo di questo libro? Sebbene il linguaggio regoli sempre le nostre vite, gli effetti che produce durante la guerra sono unici. Come l’espressione “danno collaterale” descrive un danno a persone e cose formalmente estranee agli obiettivi previsti da un’azione militare, così “linguaggio collaterale” si riferisce a quanto la pratica della guerra aggiunge al nostro lessico corrente, e alle connotazioni che certi termini assumono in tempi di guerra. Il linguaggio, come il terrorismo, tiene sotto tiro i cittadini e produce paura con l’obiettivo di realizzare un cambiamento politico. Quando i leader politici e i media usano termini come “antrace”, “minaccia terroristica” o “armi biologiche”, emerge un tipo specifico di terrore, poco importa se intenzionale o meno. Siamo tutti bersagli e contemporaneamente consumatori di questo lessico. Incurante della veridicità delle parole, il linguaggio collaterale produce degli effetti che vanno al di là del suo significato. Il titolo del libro e il riferimento al linguaggio come organizzazione terroristica intendono appunto evidenziare questi effetti.