La trappola della violenza

Non si scherza e non si gioca con la violenza, neppure in forma verbale o ?virtuale?, come sarebbe stata, secondo Luigi Manconi, quella delle tute bianche. ?Le parole sono pietre?, sosteneva giustamente Carlo Levi. La posta in gioco è troppo alta, per entrambi gli attori sociali (istituzioni e movimenti), per illudersi che sia possibile affrontare la molteplicità di conflitti scatenati dai processi di globalizzazione in corso con vecchie formule politiche e di lotta. Occorre cambiare rotta, modificare il nostro stile di vita sia individuale sia collettivo (il modello di sviluppo) per renderli autenticamente equi e sostenibili. Non è certo un?impresa da poco! L?american way of life e il modello di sviluppo e di economia ad esso sotteso sono largamente condivisi da ampi settori dell?opinione pubblica nei paesi ricchi, dalle elite in quelli poveri e, contraddittoriamente, dallo stile di vita reale di molti degli stessi oppositori

Rabbia e paura sono due degli ingredienti negativi e pericolosi che sono stati presenti nell?animo e nelle azioni di molti di coloro che hanno dato vita alle manifestazioni del movimento di protesta, da Seattle in poi. Ma la rabbia, contrariamente a quanto sostengono alcuni agitatori politici, è segno di debolezza, impotenza, ribellismo sterile e conduce facilmente all?insuccesso.

Gli scontri avvenuti a Genova erano abbastanza prevedibili, alimentati tra l?altro da un processo mediatico che ha irresponsabilmente enfatizzato proclami violenti, portando alla ribalta personaggi che ben poco avevano da dire su ?quale mondo migliore è possibile?. Con queste premesse, la scelta di indire una grande manifestazione, condotta secondo schemi classici e tradizionali, è stata alquanto infelice. A maggior ragione se si considera la quasi totale impreparazione nell?assicurare un servizio d?ordine e di interposizione nonviolento che isolasse le frange nichiliste (un cocktail letteralmente esplosivo di tute nere, neonazi e provocatori della polizia). Dopo la tragedia, le accuse reciproche di violenza rischiano di essere sterili, addirittura ingenue e superficiali. Non c?è bisogno di scomodare Pasolini per condannare senza alcuna indulgenza azioni di guerriglia urbana che hanno come obiettivi polizia e carabinieri e che portano con grande probabilità a risultati tragici. La morte di Carlo Giuliani è la doppia tragedia di due giovani quasi coetanei provocata da un?assurda e insensata quanto stupida concezione di lotta violenta. Ma è bene ricordare anche l?episodio, segnalato solo da alcuni giornali, del poliziotto che ha ringraziato pubblicamente quel gruppo di una quindicina di giovani che lo hanno difeso da un assalto delle tute nere, inginocchiandosi e coprendolo con i loro corpi. E? un esempio di nonviolenza attiva, del forte, del coraggioso, che avrebbe dovuto essere praticata da migliaia di persone per impedire le scorribande dei provocatori.

La violenza innesca una spirale perversa. L?abbiamo visto troppe volte, in ogni latitudine e nelle situazioni più disparate. Certo, coloro che hanno impartito gli ordini alla polizia, e i poliziotti che li hanno eseguiti, si sono comportati in modo vigliacco utilizzando metodi tipici delle squadracce fasciste. Ma che cosa c?è di nuovo in tutto ciò? E? il mestiere antico delle armi, degli eserciti e delle polizie di tutto il mondo, sul fronte interno e su quello esterno. Non ci sono solo i ?morti di Reggio Emilia? giustamente ricordati da Marco d?Eramo (Il Manifesto, 24.7.01), ma anche le recenti incursioni nei centri sociali (Askatasuna a Torino, Leoncavallo a Milano) condotte con lo stesso stile di quelle di Genova. Non dimentichiamoci mai che lo stato moderno si fonda sul monopolio della violenza e che le peggiori atrocità sono state commesse proprio dalle autorità statuali nei confronti dei propri concittadini.

La via maestra per spezzare questo circolo vizioso è quella della nonviolenza attiva. In questi giorni abbiamo sentito molte volte, troppe volte, usare a sproposito questa parola che, come tante altre, rischia di subire un degrado entropico. Non bastano i proclami generici e gli slogan, e tanto meno gli pseudo satyagraha elettorali dei radicali.

Come ci insegna Aldo Capitini, non siamo tanto sciocchi da definirci nonviolenti ma piuttosto ?persuasi e amici della nonviolenza?, consapevoli del lungo cammino da compiere sul piano individuale, interiore, e su quello collettivo, politico. Ma non partiamo neppure da zero. Proprio l?evento che forse più di altri ha contribuito a scatenare le forze, nel bene e nel male, dell?attuale processo di globalizzazione, la ?caduta del muro di Berlino?, è il risultato di una serie di lotte nonviolente su larga scala che per la prima volta hanno permesso di cambiare l?assetto internazionale, quasi senza sparare un solo colpo di fucile.

Abbiamo molto da imparare, ma anche qualcosa da insegnare. Il compito di autentici educatori è fondamentale per evitare di crescere nuove generazioni di nichilisti che teorizzano il ?nulla?, si autodistruggono e impediscono a tutti noi di affrontare costruttivamente e creativamente i conflitti in una grande opera di apprendimento reciproco della nonviolenza. Questo percorso non consiste solo nell?acquisizione di competenze tecniche per la trasformazione nonviolenta del conflitto, ma ha anche una grande valenza liberatoria delle nostre soggettività e delle nostre potenzialità. E? una rivoluzione permanente condotta con il sorriso sulle labbra, all?insegna di una vita più semplice esteriormente, ma più ricca interiormente e sul piano relazionale. E? ciò che chiedono, a volte inconsapevolmente, bambini e bambine, giovani e meno giovani impegnati in una miriade di piccole esperienze alternative che già prefigurano una economia e una società nonviolenta. Sta a noi conoscere e valorizzare questo potenziale umano e incanalare positivamente e costruttivamente queste aspirazioni. La nonviolenza è la sfida del XXI secolo per liberare oppressi e oppressori, vittime e persecutori dalle catene della violenza che li disumanizzano entrambi.