documentario fili #odio

Documentario | I fili dell’#odio

Recensione di
Giulia Siotto


Documentario Fili #Odio

Documentario I fili dell’ #odio. di Tiziana Barillà, Daniele Nalbone e Giulia Polito, Regia di Valerio Nicolosi. In collaborazione con Michele Santoro, Italia 2020, 45 minuti.

Perché alla fine tutto è collegato o sembra che lo sia, o sembra che lo sia solo perché lo è.

 De Lillo

Con i media viviamo in un mondo interconnesso e a portata di click: ricevo istantaneamente la risposta di un caro amico di Hong Kong mentre sono allo stadio Polo Grounds di New York. Ovvietà sì oramai, ma chiediamoci – ed è quello che fanno gli/le autori/trici nel documentario I fili dell’ #odio – che cosa accade quando usiamo Facebook non per cercare amici ma nemici, quando i commenti non sono per l’altro ma contro l’altro; quando carichiamo immagini non per affetto bensì per denigrare. Insomma, domandiamoci cosa succede quando i social network si trasformano in un’arena virtuale.

Il documentario stesso sembra mimare la battaglia digitale. Esso appare come lotta tra discorsi antitetici: hate speech vs commenti degli esperti. Sentiamo una voce in secondo piano che legge i commenti d’odio che si trovano sul web. A queste parole d’odio indicibili si contrappone il copione del documentario vero e proprio. Non è composto da lunghi monologhi, ma dal susseguirsi e dall’intreccio di brevi spezzoni di interviste fatte ai rappresentanti del settore digitale o alle vittime di odio on-line.

In questo susseguirsi di commenti, a ben guardare, è possibile notare uno schema ricorrente. Se fossimo in un teatro greco lo potremmo individuare nell’azione drammatica di Oreste che uccide la madre oppure nella straniera Medea, «che nessuno vuole realmente conoscere, al quale si tende ad attribuire indole criminale». Non siamo, però, nel mondo immaginario dell’opera d’arte, ma i commenti d’odio che troviamo sul web si rivolgono a un destinatario reale. Anzi, ancor di più, gli hate speech spesso non hanno una vittima casuale, ma sono sistematicamente diretti contro uno specifico e determinato gruppo di persone.

Il primo filo d’odio che mette in scena il documentario potremmo chiamarlo “femminicidio”. Uno dei primi argomenti affrontati è proprio l’odio nutrito contro le donne. Silvia Brena, co-fondatrice di Vox – Osservatorio Italiano sui Dirittti, denuncia: «Ogni qual volta che si rivela un picco di odio e di aggressività online allora in quel momento avvengono femminicidi». Da questa affermazione ricaviamo due dati rilevanti. Il primo che l’hate speech ha effetti reali e non è confinato nel web e il secondo che questi effetti si scatenano soprattutto contro le donne.

Il secondo filo prende il nome di “antisemitismo”. A portare la testimonianza delle parole d’odio contro la religione ebraica è Liliana Segre. Della Senatrice a vita vengono riprodotti due discorsi dove la Segre non ha paura di mettersi a nudo proprio a ricordare come «la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12, 9). «Eravamo giovani» – afferma Segre – «ma sembravamo vecchie, senza sesso, senza mestruazioni, senza mutande. Non si deve avere paura di queste parole perché è così che si toglie la dignità a una donna». Parole quindi, quelle della Segre, che risultano potenti non per virilità, ma per capacità e forza di mostrarsi per quello che si è subito.

Il terzo filo è raffigurato dalla “xenofobia”. Vediamo come alcuni rappresentati politici siano capaci di sfruttare a proprio vantaggio i mezzi di comunicazione per creare, e non rappresentare o descrivere, una narrazione anti-inclusiva e anti-migratoria. Matteo Flora, esperto di reputazione on-line, ci svela il meccanismo della propaganda sul web. Il problema non è tanto la pubblicazione della singola e circoscritta notizia falsa sullo straniero, quanto allarma che a partire da essa si riesca a costruire e veicolare un certo tipo di idea sull’altro, in questo caso mostruosa, che si insinua a partire dai social media nell’immaginario collettivo e nella vita quotidiana.

Il quarto e ultimo filo è l’”intolleranza religiosa”. Su Facebook c’è una vera e propria organizzazione operante contro papa Francesco, i cui membri: «hanno le pagine tradotte in una cinquantina di lingue, rappresentano la centrale di odio più organizzata e diretta solo verso quell’argomento». Oltre ad Alex Orlowski, anche Silvia Brera ribadisce e conferma la facilità con cui le persone si scatenato contro l’attuale Papa.

Femminicidio, antisemitismo, xenofobia, intolleranza religiosa. Ma è anche opportuno constatare un grado zero, quello che possiamo definire la tela su cui vengono intrecciati i fili dell’odio.

Qual è dunque la condizione di possibilità del propagarsi di una propaganda violenta e carica d’odio, per di più anche basata su fake news? Questa società è visibile nella misura in cui c’è una categoria che non è colpita da quelle parole efferate, cioè gli uomini, maschi, ricchi, bianchi. Non che non esistano eccezioni, ma tendenzialmente possiamo vedere che, se questo gruppo è colpito, è perché stanno cercando di cambiare un certo stile di vita. Infatti nel documentario vediamo come il professore universitario e attivista politico Tomasz Kitlinski abbia rischiato una condanna a due anni di prigione proprio perché stava cercando di opporsi al potere patriarcale e tradizionale.

Ma processare Mark Zuckerberg– non a caso è il primo fotogramma del documentario – è una soluzione riduttiva e incapace di cogliere la complessità del reale.

Il potere come insegna Michael Foucault non è individuabile in una sola persona, non appartiene a Zuckerberg o a Jeff Bezos.

Invece il potere è già sempre e costitutivamente una relazione, esso circola, «non è mai nelle mani di alcuni. Il potere si esercita attraverso un’organizzazione reticolare. In altri termini, il potere passa attraverso non si applica agli individui»[1].

E allora dobbiamo chiederci quale discorso vogliamo far circolare nelle nostre vite e nella nostra società: ciò che suscita odio e che cerca di ridurre la realtà in una fisica manichea oppure possiamo decidere di affidarci alle ultime parole con cui Nicolosi termina il documentario. Queste ultime, sì, rimbombano proprio perché trasmettono speranza ed esprimono la ricchezza, la varietà e la complessità di un mondo che può ancora tornare dentro i cardini.

Adesso, se vuoi, puoi guardarti il documentario I fili dell’ #odio!


[1] M. Foucault, Corso del 14 gennaio 1976 in Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino, 1977, p. 186.


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