Imparare da Gandhi | Robert J. Burrowes

Robert J. Burrowes

Mohandas Karamchand Gandhi è nato il 2 ottobre 1869: 150 anni fa. Sono in tanti a rendergli onore e io voglio essere tra quelli perché c’è ancora tanto da imparare da Gandhi.

Non solo perché credo che sia stato fonte di grande ispirazione per il mondo intero, di idee e potenti strategie per contrastare la violenza nelle più svariate circostanze, ma anche perché le mie esperienze personali sono la prova che queste idee hanno un immenso valore. Tra queste, la consapevolezza che “Se stiamo per compiere dei progressi, non dobbiamo ripetere la storia ma crearne di nuova. Dobbiamo arricchire l’eredità che i nostri antenati ci hanno lasciato”, e il suo incoraggiamento a riflettere profondamente e ascoltare la propria voce interiore: “Dovresti sempre seguire la tua voce interiore, qualunque siano le conseguenze” e “anche al rischio di essere frainteso”.

In sostanza, possiamo apprendere dalla storia in maniera produttiva, ma possiamo anche aggiungervi nuovi tasselli. Tra questi, imparare gestire la violenza con maggiore concretezza.

In che modo Gandhi mi ha ispirato?

Il 1° giugno 1942, mio zio Bob fu ucciso. La USS Sturgeon, un sottomarino statunitense, lanciò siluri contro la nave giapponese dei prigionieri di guerra (POW), la Montevideo Maru.. La nave affondò all’istante e, insieme ad altri 1052 prigionieri di guerra, Bob perse la vita.

Anche il fratello gemello di mio padre morì durante la seconda guerra mondiale. Tom fu sparato a Rabaul, durante la sua prima (e ultima) missione. Era un marconista mitragliatore della Beaufort Bomber (vedi “The Last Coastwatcher: My Brothers”).

La mia infanzia è costellata dai ricordi di Bob e Tom… Cerimonie di commemorazione, medaglie al valore e qualche storia raccontata di rado da mio padre.

Nel 1966, l’anno in cui compii 14 anni, decisi di devolvere la mia intera esistenza alla ricerca del motivo che spinge gli esseri umani a farsi del male a vicenda. E del modo per porre fine a tutto questo. A 14 anni tutto sembra possibile! Ma non ero poi così tanto più grande quando condussi la mia prima indagine preliminare e realizzai che sarebbe stata un’ardua sfida. E questa consapevolezza è stata necessaria per aiutarmi a delineare una strategia realmente efficace.

Non è difficile immaginare che le mie ricerche nel campo della violenza mi abbiano condotto alla nonviolenza. Nel corso dei miei studi a scuola e all’università avevo conosciuto persone inserite nell’ambito di quella che ho, poi, scoperto dopo essere denominata “azione nonviolenta”. Ma io non mi ci ero mai imbattuto personalmente.

Nel 1981, decisi di mettermi alla ricerca di qualche materiale sulla nonviolenza e sull’azione nonviolenta. Già dopo le prime letture, la mia attenzione si concentrò sulla vita di Mohandas K. Gandhi, del quale avevo sentito parlare, soprattutto a proposito del suo ruolo durante la battaglia di indipendenza indiana. Così, ho letto molte delle sue pubblicazioni, tra cui An Autobiography: The Story of My Experiments with Truth, e anche libri scritti da suoi collaboratori, studiosi e ricercatori, per farmi un’idea generale più ampia e chiara possibile. Quante ore ho trascorso in biblioteca leggendo The Collected Works of Mahatma Gandhi!!!

Quel che più mi ha colpito di Gandhi è che il suo personale interesse nel contrasto alla violenza implicava un sentire più ampio. Non era semplicemente interessato al tipo di violenza che emerge durante i conflitti internazionali o interpersonali. Voleva capire di più della violenza che si manifesta ogni volta che un individuo o una nazione sfrutta altri individui/nazioni (per esempio, quando l’imperialismo britannico sfruttava l’India e i suoi popoli), e di quella che si presenta quando una struttura (come il capitalismo e il socialismo) sfrutta gli individui che la costituiscono.

Per usare le sue parole: “lo sfruttamento è l’essenza della violenza”. Era interessato alla violenza che emerge quando i membri di un gruppo sociale (come gli induisti) “odiano” i membri di un altro gruppo sociale (come i musulmani). Ed era interessato alla violenza che emerge quando gli uomini opprimono le donne, o quando le caste indù opprimono gli “intoccabili”. Era interessato alla violenza che emerge quando gli esseri umani distruggono l’ambiente che li circonda. Ed era interessato alla violenza che ciascun uomo infligge a se stesso.

Tutto questo mi toccava nel profondo perché, oltre alle guerre, durante il periodo della mia infanzia e dell’adolescenza ho assistito a molte manifestazioni di violenza – dalla carestia nei paesi in via di sviluppo, al razzismo negli Stati Uniti (segnalato dal Rev. Martin Luther King Jr negli anni ’60), fino alla devastazione dell’ambiente naturale. Tutto ebbe un impatto, graduale ma profondo, sulla mia coscienza. Il contrasto alla violenza è un compito più difficile di quanto potessi immaginare. La violenza è ovunque. E, anche se non se ne parla spesso, esiste una sconvolgente violenza domestica, soprattutto contro i bambini.

In che modo Gandhi spiega la violenza e qual è la sua strategia per affrontarla?

Gandhi sul Conflitto e la Violenza

Per Gandhi, il conflitto era una condizione perenne. Lo vedeva anche da una prospettiva piuttosto positiva e “desiderabile”. Per lui, era uno strumento importante per unire gli uomini, perché i conflitti di ciascuno di loro avrebbero ricordato al “nemico” del senso più profondo e trascendentale della vita, che è molto più intenso di qualunque legame o vincolo sociale.

Ma la violenza era diversa. Gandhi la considerava come qualcosa che si fonda sulle strutture sociali e non sulle persone.

Fondamentalmente, come sostiene Leroy Pelton, Gandhi aveva capito che la verità non può essere raggiunta attraverso la violenza (“che viola i bisogni dell’uomo e distrugge la vita”), perché la violenza stessa è una forma di ingiustizia. In nessun caso, la violenza può risolvere i conflitti, perché non è rivolta alle questioni in gioco.

Per Gandhi non c’era nulla di indesiderabile nel conflitto. La sua principale preoccupazione era capire come gestire il conflitto senza implicare la violenza e come creare nuovi sistemi sociali liberi dalle strutture della violenza. L’essenza del suo approccio era nell’individuare il modo di curare il conflitto, preservando le persone e demolendo le strutture del male. Tuttavia, Gandhi era fermamente convinto che la “purificazione strutturale” da sola non bastasse. L’auto-purificazione è altrettanto fondamentale.

In altre parole, secondo la sua prospettiva, risolvere il conflitto (senza violenza) è solo uno dei risultati desiderati. Per Gandhi, il successo implica anche la creazione di una struttura sociale più complessa, il raggiungimento di un livello più alto di coraggio e autosufficienza, sia dalla parte dei satyagrahis (attivisti nonviolenti), che da quella dei suoi oppositori, e la realizzazione di un’umanità più unita.

Due domande chiave

Nonostante l’enorme influenza che Gandhi ha avuto nel modellare la mia concezione del conflitto e la precisa definizione di nonviolenza che dovrebbe essere adoperata per affrontarlo, credo che ci siano due domande ancora in sospeso:

  1. Qual è l’origine psicologica del comportamento violento di un individuo?
  2. Quale teoria dovrebbe guidare l’applicazione dell’azione nonviolenta così che la propaganda sia strategicamente efficace?

La prima domanda è importante perché anche se l’individuo è intrappolato in una struttura sociale violenta (come il sistema delle classi), può sempre scegliere se prendervi parte, consapevolmente o inconsapevolmente, come perpetratore, collaboratore o vittima, oppure resistergli. Perché così tanti individui scelgono di prendervi parte come perpetratori e così pochi scelgono di opporvi resistenza?

La seconda domanda è altrettanto importante perché, mentre Gandhi era uno pensatore intuitivamente strategico (i cui 30 anni di strategia nonviolenta portarono l’India alla liberazione dall’occupazione britannica), nessuno prima di lui o dopo la sua morte ha dimostrato di avere capacità neanche minimamente vicine alle sue in questo senso.

Quindi, mentre la nonviolenza, che è intrinsecamente potente, ha conseguito alcuni notevoli successi, le battaglie fondamentali per la pace (e per porre fine alla guerra); per fermare le aggressioni contro la biosfera; per assicurare la giustizia sociale alle popolazioni oppresse e sfruttate; per liberare le nazioni da dittature, occupazioni e genocidi; e le battaglie in relazione a molte altre giuste cause, zoppicano in avanti senza strategia (o ne usano una mal concepita). Stiamo fallendo e, infatti, barcolliamo sull’orlo del precipizio della nostra stessa esistenza (vedi “Human Extinction by 2016? A Last Ditch Strategy to Fight for Human Survival”).

Avendo abbondantemente studiato Gandhi e il suo approccio alla nonviolenza (di cui ho selezionato alcuni elementi che ho progressivamente incluso nelle campagne nonviolente in cui ero coinvolto), ho ripreso la mia domanda di ricerca iniziale sull’origine della violenza umana e ho anche deciso di sviluppare una teoria e un quadro di riferimento così che il pensiero strategico di Gandhi potesse essere facilmente adottato dagli altri attivisti nonviolenti.

Alla fine, sviluppare questa teoria strategica è stato più semplice del previsto (di sicuro di più di quanto non sia stato perseguire l’obiettivo originario, ossia comprendere cosa fosse la violenza). E ho presentato il risultato su due siti web: Nonviolent Campaign Strategy e Nonviolent Defense/Liberation Strategy.

Nonostante gli sforzi iniziali finalizzati a rendere questa teoria più fruibile da parte dei miei compagni attivisti, era chiaro fin da subito che solo pochi hanno la capacità di attivare il pensiero strategico in determinate circostanze, anche quando hanno una cornice di riferimento.

Le origini della violenza umana

L’importanza fondamentale di capire le origini della violenza umana mi si è crudamente ripresentata davanti, perché sapevo che comprenderle mi avrebbe dato la risposta a una serie di domande supplementari e essenziali, del tipo: Perché così tante persone vivono nel diniego/delusione, del tutto incapaci di percepire la violenza strutturale o di combattere contro quella militare, sociale, politica, economica ed ecologica? Perché così tante persone, anche attiviste, non sono in grado di pensare strategicamente? Come possono gli attivisti anche solo immaginare che il successo, soprattutto nei principali contesti problematici della nostra era (armi nucleari, distruzione della biosfera e cataclisma climatico), possa essere raggiunto senza una strategia chiara e globale, considerando anche la resistenza opposta dalle élite a questo tipo di campagne? (vedi “The Global Élite is Insane Revisited”).

Quindi, per rispondere a queste domande, io e Anita McKone ci siamo ritirati in isolamento, nel tentativo di comprendere meglio la nostra mente e così, magari, anche le menti degli altri. Pensavo che l’esperimento sarebbe durato pochi mesi. Ci sono voluti 14 anni.

Qual è la causa della violenza e, a seconda del contesto, cosa configura i ruoli di perpetratore di violenza, collaboratori, vittime passive, negazionisti, sessisti, razzisti, e attivisti che non sanno come intervenire strategicamente?

Ciascuno di questi comportamenti umani è il risultato della guerra degli adulti. In altre parole, la violenza degli adulti sui bambini è la causa fondamentale di tutte le altre manifestazioni di violenza.

Cosa vuol dire? Vuol dire che ogni bambino, dal momento in cui viene al mondo, viene educato – o meglio, terrorizzato – così che possa adeguarsi fin da subito al contesto sociale in cui crescerà. Ogni bambino è soggetto a uno spietato regime di violenza “visibile”, “invisibile” e “totalmente invisibile”, affinché risponda alle esigenze degli adulti – genitori, insegnanti, figure religiose…

Quali sono le componenti della violenza “visibile”, “invisibile” e “totalmente invisibile”?

La violenza “visibile” include l’atto di picchiare e urlare contro un bambino, o abusarne sessualmente, che purtroppo è molto comune.

Ma il danno più grave è causato dalla violenza “invisibile” o “totalmente invisibile”, che noi adulti gli infliggiamo inconsapevolmente nel corso della consuetudinaria quotidianità. La maggior parte di questa violenza viene perpetrata in famiglia o a scuola (vedi “Why Violence?” e “Fearless Psychology and Fearful Psychology: Principles and Practice”).

Costituiscono la violenza “invisibile” tutte quelle “piccole cose” che facciamo ogni giorno, in parte perché siamo semplicemente “troppo occupati”. Per esempio, quando non ascoltiamo e non doniamo valore ai pensieri e ai sentimenti dei nostri figli, loro impareranno a non ascoltarsi e, quindi, distruggeranno progressivamente il loro sistema di comunicazione interna. Quando non permettiamo a un/-a bambino/-a di dire quello che prova (o lo/-a ignoriamo quando lo fa), lui/lei svilupperà delle disfunzioni comunicative e comportamentali, che ostacoleranno inevitabilmente il suo  tentativo di soddisfare esigenze primarie di sopravvivenza.

Quando rimproveriamo, giudichiamo, insultiamo, deridiamo, mettiamo in imbarazzo, facciamo sentire in colpa, umiliamo, provochiamo, pungoliamo, inganniamo, mentiamo, corrompiamo o facciamo i moralisti con un bambino, non solo indeboliamo la sua autostima, ma gli insegniamo a rimproverare, giudicare, insultare, deridere, mettere in imbarazzo, far sentire in colpa, umiliare, provocare, pungolare, ingannare, mentire, corrompere o a fare il moralista.

Il principale risultato di un’infanzia bombardata da violenza “invisibile” è che il bambino sarà inghiottito in un vortice di paura, sofferenza, rabbia e tristezza (tra le altre cose). Mamme, papà, insegnanti, figure religiose e tutti gli altri adulti, interferiscono con il modo in cui questi sentimenti vengono espressi e con le risposte comportamentali che ne scaturiscono. Ed è tramite questa violenza “totalmente invisibile” che è possibile spiegare il perché di molte disfunzioni comportamentali.

Ignorare un bambino quando prova a esprimere delle emozioni; confortarlo, rassicurarlo o distrarlo quando riesce a esprimerle; deriderlo o ridicolizzare quelle emozioni; scoraggiarlo dall’esprimere il suo io interiore (urlandogli contro quando piange, ad esempio); e controllare violentemente i suoi comportamenti generati da determinate emozioni (picchiandolo o chiudendolo in una camera)… Tutto questo porterà quel bambino a sopprimere inconsciamente la consapevolezza della sua personalità emotiva, invece di accoglierla e agire in base a essa.

Quando succede tutto questo, il bambino sta inconsciamente sopprimendo anche la consapevolezza delle motivazioni che hanno causato quelle emozioni, con conseguenze disastrose per l’individuo, per la società e per la biosfera. Sopprimere quelle motivazioni significa sopprimere le emozioni che porterebbero l’individuo ad agire in modo più funzionale alle circostanze in cui si trova, generando in lui una serie di disfunzioni comportamentali, tra cui alcune violente nei confronti di se stesso, degli altri e/o della terra.

Quindi cosa facciamo?

Beh, se volete donare un contributo concreto al nostro tentativo di porre fine alla violenza, potete assumervi quell’impegno di cui si parla in “My Promise to Children”. Se avete bisogno di prendervi cura un po’ di voi stessi, prima di poter essere in grado di crescere i vostri figli, allora vi consiglio di leggere l’articolo “Putting Feelings First”.

Se volete intervenire in maniera sistematica sulla violenza contro la biosfera, considerate l’idea di aderire alla strategia quindicennale, ispirata agli insegnamenti di Gandhi e descritta in “The Flame Tree Project to Save Life on Earth”. Questo progetto espone un piano d’azione piuttosto semplice, indirizzato a chiunque voglia ridurre, almeno dell’80%, i propri consumi di energia e di risorse di ogni tipo – acqua, luce, carburante, metalli, carne, carta e plastica – rafforzando notevolmente la propria autosufficienza individuale e collettiva. Come notava Gandhi 100 anni fa: “Sulla Terra c’è abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, ma non per l’ingordigia di pochi.”

Ma, sebbene l’azione personale costituisse un fattore di critica importanza per Gandhi, egli era anche uno straordinario stratega politico e sapeva che trasformare le nostre vite personali non è sufficiente. Dobbiamo offrire opportunità e occasioni affinché gli altri sentano il desiderio di fare lo stesso.

Quindi, se vuoi promuovere il cambiamento, fallo in maniera strategica, come ha fatto Gandhi (vedi Nonviolent Campaign Strategy).

E se vuoi prendere parte al movimento globale per combattere la violenza contro gli esseri umani e contro l’ambiente naturale, puoi firmare anche tu la “People’s Charter to Create a Nonviolent World”.

Gandhi è stato assassinato il 30 gennaio 1948. Ma il patrimonio che ha lasciato, vive. E possiamo attingerne tutti, se lo desideriamo.


EDITORIAL, 28 Jan 2019 | #571 | Robert J. Burrowes, Ph.D. – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Benedetta Pisani per il Centro Studi Sereno Regis

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.