Covid-19 e la crisi del concetto di guerra | Alessandro Castellani

“Conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, nella sua forma estrema e cruenta, quando cioè si sia fatto ricorso alle armi.”

“Un fenomeno sociale che ha il suo tratto distintivo nella violenza armata posta in essere fra gruppi organizzati. Nel suo significato tradizionale è un conflitto fra stati sovrani o coalizioni per la risoluzione, di regola in ultima istanza, di una controversia internazionale più o meno direttamente motivata da veri o presunti (ma in ogni caso parziali) conflitti di interessi ideologici ed economici”.

Queste sono due delle tante e simili definizioni di “guerra”, un concetto ripetutamente accostato al periodo storico emergenziale da Covid-19 che sta coinvolgendo il mondo. Una metafora, genericamente, non solo scorretta, ma anche ingenuamente pericolosa e simbolo di un’erronea percezione nel dibattito pubblico che può amplificare paure e insicurezze. La guerra come analogia del termine “crisi” non permette di cogliere la differenza strutturale e il fine dei due concetti e a livello pratico questo abuso linguistico rischia di compromettere la ricerca di una soluzione. Analizziamo storicamente il perché.

Il trattato di Versailles (Wikipedia, pubblico dominio)

In un non lontano 28 giugno 1919, dopo negoziati lunghi e difficoltosi, le principali potenze protagoniste della Prima Guerra Mondiale firmarono a Versailles un Patto che nei vent’anni successivi dimostrò la fragilità e l’instabilità del nuovo sistema internazionale che da tale accordo sarebbe dovuto scaturire. Il Diktat imposto al nemico a discapito di una negoziazione più “democratica” e multilaterale fu probabilmente il maggiore motore che scatenò, in modo disastroso, la politica nazionalistica e le mire aggressive di quegli Stati che più erano rimasti insoddisfatti e inappagati dalla “pace” della discordia. Il revisionismo dei paesi più colpiti economicamente, socialmente e militarmente dal Trattato fu la prevedibile e consapevole risposta all’imposizione di un disegno inadatto e ineguale per la ricostruzione delle nuove basi del sistema europeo ed internazionale. Il tragico effetto, a distanza di anni, fu una ancora più intensa Guerra Mondiale, simbolo di una contrapposizione di interessi ma soprattutto di revanscismi non risolti.

Nel conflitto bellico il nemico è reale ed identificabile. La guerra è divisione, schieramento, paura, interesse personale, è brama di potere e di rivincita. E, costante della storia degli ultimi secoli, è sempre puntualmente preceduta da uno stato di insicurezza di almeno una delle parti in gioco, come spiegato anche da Paul Kennedy nel suo Ascesa e declino delle grandi potenze. Nell’accezione di “limes” romano come barriera o limite invalicabile, il confine assume un’importanza strategica imprescindibile e la sua difesa un peso determinante per gli sviluppi del conflitto.

Covid-19, così come in genere le sfide mondiali odierne come anche il cambiamento climatico, può invece assumere le sembianze di un amico dell’internazionalismo. Quella a cui stiamo assistendo come partecipanti attivi è una battaglia, intendiamoci, ma che può unire l’uomo nella difficoltà. La società internazionale odierna, sempre più globalizzata e multiculturale da un certo punto di vista, è in modo sorprendente ed inspiegabile sempre più nazionalistica e sciovinista dall’altro. Un paradosso svelato a più riprese in modo fin troppo percettibile. Ma le sfide contemporanee, come spiega Harari in 21 Lezioni per il XXI secolo, sono totalmente diverse da quelle affrontate nel passato, proprio perché, come una pandemia o in genere il cambiamento climatico, necessitano di risposte e soluzioni globali. Le nuove sfide assumono una portata mondiale ma un’estensione concettuale antitetica rispetto alle guerre del Novecento. Se nelle Guerre Mondiali tutti gli attori presenti nello spazio geografico erano attori attivi di alleanze contrapposte nello scacchiere geopolitico, la crisi climatica e a maggior ragione la pandemia hanno invece rivelato come i confini abbiano perso l’importanza materiale e strategica che hanno rivestito nel corso del XIX secolo. Con le sfide attuali cadono i muri e le barriere che sembravano invalicabili e il “nemico”, se davvero questo non sia l’uomo in sé, perde le sembianze particolari che permettevano di identificarlo. Il nemico diventa comune e globale e la sua sconfitta dipende esclusivamente dal coordinamento e dalla cooperazione della società multinazionale. La chiusura auto protettiva diviene non solo un limite ma anche un’ulteriore difficoltà di percorso nella ricerca di una soluzione.

Se a cambiare sono il contesto e la configurazione delle sfide, è necessario che cambi anche la nostra relazione con la crisi. Il dichiararci in guerra o anche il solo pensiero di esserci può generare nell’immaginario collettivo il desiderio sbagliato di scegliere percorsi identitari e unilaterali. La prima conseguenza di questo confinamento nazionalistico sarebbe lo scoppio di una competizione geopolitica, a quel punto reale e distruttiva. Seguendo quella strada, forse, la metafora della guerra sembrerebbe sempre più azzeccata. Ma conoscere la storia è essenziale per imparare a non ripetere errori ed è il solo ma essenziale vaccino di cui oggi disponiamo. Le basi per una ripartenza coordinata e pacifica passano dalla cooperazione e dal lavoro comune, peraltro unico antidoto. E questa volta siamo abbastanza preparati per non sbagliare.

Daniele Cassandro, sul sito di Internazionale, riprende a tal proposito una citazione della scrittrice statunitense Susan Sontag, che nel suo libro L’aids e le sue metafore, del 1989, scriveva: «La guerra è una delle poche attività umane a cui la gente non guarda in modo realistico; ovvero valutandone i costi o i risultati. In una guerra senza quartiere, le risorse vengono spese senza alcuna prudenza. La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo». Ma così, la cinica conta dei morti continua, e l’uomo perde dignità e diventa un numero inserito nell’elenco delle vittime di guerra.

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