Il Covid-19, i diritti e le libertà

Alessandra Algostino

Il lockdown da Covid-19 che stiamo vivendo impatta su libertà fondamentali: partendo dalla libertà di circolazione (art. 16 Costituzione) e dal diritto di riunione (art. 17) a essere ristretti sono, a cascata, alcune forme di manifestazione del pensiero (art. 21) e di libertà di religione (art. 19), il diritto di sciopero (art. 40), il diritto-dovere al lavoro (art. 4), l’iniziativa economica privata (art. 41), il diritto di istruzione (artt. 33 e 34), la libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15). Il bilanciamento, ça va sans dire, è, in senso lato, con il diritto e «interesse della collettività» alla salute: l’unico diritto ad esser definito «fondamentale» dalla Costituzione (art. 32).

Nel nostro sistema le misure derogatorie devono essere strettamente proporzionali e ragionevoli rispetto allo scopo perseguito, ovvero la tutela della salute. Le relative scelte sono rimesse al decisore politico, ma evidentemente giustificate in relazione a dati la cui valutazione è compiuta dal sapere medico. Si pone, qui, per inciso, la questione del rapporto fra politica, diritto e tecnica e del sottile crinale fra legittimazione delle scelte sulla base di risultanze scientifiche e rischio di rimettere decisioni politiche a tecnici, dotandole dell’insindacabilità politica connessa alla loro sussunzione nella razionalità tecnica.

In ogni caso, affinché le restrizioni adottate si mantengano entro la cornice della Costituzione e di una forma di Stato democratica, evitando la diffusione del virus politico dell’autoritarismo, occorre che siano rispettati alcuni requisiti. Fra questi, oltre la temporaneità e l’equilibrio fra i poteri (con connesso ricorso a fonti adeguate), c’è l’esigenza che il bilanciamento fra i diritti rispetti i canoni della proporzionalità e della ragionevolezza. Occorre, cioè, che tutti i diritti siano garantiti nel massimo grado possibile con la preservazione del diritto alla salute; non solo: occorre bilanciare l’impatto diseguale che lo stato di emergenza produce.

Non è sempre così. Per esempio, l’apertura di un procedimento di infrazione nei confronti della Confederazione nazionale dell’Unione Sindacale di Base (USB), in relazione allo sciopero proclamato il 25 marzo 2020, limitato nei servizi essenziali alla durata di un solo minuto simbolico, non tiene in adeguata considerazione la salvaguardia del diritto di sciopero e di azione sindacale (artt. 39 e 40 Cost.).

Analogamente il decreto interministeriale (n. 150 del 7 aprile 2020) che chiude i porti alle navi che soccorrono i naufraghi, al di là dell’intrinseca irragionevolezza di distinguere a seconda dello stato di bandiera della nave, viola il diritto alla vita, il diritto alla salute, il principio di non refoulement e il diritto di asilo, nonché, nello specifico, il diritto dei naufraghi ad essere condotti in un porto sicuro, come sancito dalle norme di diritto internazionale, risultando irragionevole il bilanciamento con il diritto alla salute alla base dell’emergenza sanitaria; le esigenze legate all’epidemia di Covid-19, al più, potrebbero dar luogo a controlli sanitari e a provvedimenti di quarantena (in primo luogo a tutela delle persone soccorse).

Il bilanciamento, poi, si pone inevitabilmente allorquando si ragiona di tracciamento dei dati personali, che sia a fini di prevenzione, per mappare i contatti di un eventuale positivo al virus, o che sia a fini di controllo del rispetto delle misure adottate: il rischio è lo scivolamento verso forme di autocrazia digitale o di capitalismo della sorveglianza.

D’altro canto, la mancata chiusura di alcuni settori produttivi, o la prematura riapertura di altri, su pressioni imprenditoriali, integra un cedimento nella tutela della salute come diritto “fondamentale” delle persone rispetto al perseguimento di interessi economici. Non si misconosce certo la necessità di tutelare il lavoro, ma per l’appunto, ricordando qual è il senso del lavoro posto a fondamento della Repubblica: il suo essere trait d’union fra democrazia politica e democrazia economica, strumento di dignità ed emancipazione della persona e della società, non merce da cui estrarre profitto.

In questa prospettiva, occorre anche vigilare perché il cosiddetto smart working o home working, da strumento che, in un’ottica emergenziale, tutela il lavoro insieme alla salute delle persone, così come salvaguarda l’erogazione di servizi, non si normalizzi, favorendo un processo di individualizzazione – solitudine e debolezza – del singolo lavoratore e una dilatazione del tempo-lavoro, indistinto rispetto al tempo-vita e oggetto di una progressiva espropriazione, nell’orizzonte di una crescita del biopotere.

Ugualmente, l’utilizzo della didattica a distanza, utile, senza dubbio, dato il distanziamento sociale, per mantenere viva e presente la scuola (di ogni ordine e grado), non deve costituire un pretesto per l’introduzione di una didattica digitale, che, oltre i limiti pedagogici, amplifica diseguaglianze ed esclusioni. Infine, uno stato di emergenza legittimato dalla necessità di salvaguardare la salute, deve tutelare la salute di tutti, a partire dai soggetti vulnerabili, non ripercorrendo la tragica storia dell’affievolimento (o della negazione) dei diritti oltrepassate le porte delle Residenze Sanitarie Assistenziali, i cancelli delle carceri o gli ingressi dei vari centri di detenzione e accoglienza dei migranti.

In ogni caso, una particolare attenzione deve essere prestata al fatto che le ricadute delle misure di distanziamento sociale sulle esistenze delle persone, in termini di qualità della vita, condizioni sociali ed economiche, facilmente enfatizzano le vulnerabilità e riproducono e incrementano le diseguaglianze.

Post scriptum

Nelle more della pubblicazione di questo scritto è stato adottato il Dpcm del 26 aprile 2020. 

Esso suscita numerosi dubbi, non solo, ancora – e non si tratta di notazione di poco conto – per la forma dell’atto, ma anche per il suo contenuto. Al di là del ricorso a termini giuridicamente ambigui, come il riferimento ai “congiunti” (che collide con la certezza del diritto, quando in questione è la limitazione dei diritti), colpiscono alcune assenze. Se i numeri – in verità alquanto oscuri e, anche per un profano, colmi di irregolarità statistiche in grado di rendere poco intellegibile la fotografia dell’epidemia – possono essere tali da giustificare ancora misure di distanziamento, l’indebita compressione di alcuni diritti, con il prolungarsi del tempo e la possibilità di mettere in campo alternative, appare sempre meno giustificabile.

Innanzitutto, emerge un’assenza: un’adeguata considerazione del diritto all’istruzione. Viene data per scontata la fine dell’anno scolastico, senza nemmeno provare ad immaginare modalità – in presenza – alternative: nel decreto si legge che «sono sospesi i servizi educativi per l’infanzia […] e le attività didattiche in presenza nelle scuole di ogni ordine e grado» (art. 1, lett. k). L’utilizzo della didattica a distanza (art. 1, lett. mn e o) utile, senza dubbio, come detto, dato il distanziamento sociale, ha evidenti limiti pedagogici, non tutela l’aspetto relazionale, amplifica diseguaglianze ed esclusioni.

E ancora: la salute, e il pensiero corre in specie a bambini ed adolescenti, deve essere intesa, come da definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in senso ampio, come stato di benessere «fisico, mentale e sociale». Perché, emblematicamente, consentire l’attività motoria, ma vietare assolutamente, sempre in sicurezza, l’«attività ludica o ricreativa all’aperto» (così il Dpcm, art. 1, lett. f)?

In secondo luogo, traspare dal Dpcm una forte impronta economicista. Se il diritto alla salute cede, è (quasi) unicamente in relazione all’attività produttiva, all’iniziativa economica privata. E questo – occorre precisarlo – non significa tout court tutelare il lavoro, la dignità, il sostentamento delle persone; il lavoro, come detto sopra, nel senso della Costituzione.

In terzo luogo, il mutare del contesto rende sempre più inaccettabili le chiusure di ogni spazio per la libertà di riunione, così come le restrizioni nel diritto di sciopero (ma il discorso potrebbe estendersi anche alla cultura così come alla libertà di associazione, sino ad eccessive restrizioni anche alla libertà di circolazione e finanche di religione). Occorre iniziare a riaprire spazi, anche fisici, di espressione del dissenso, se pur con misure a tutela della salute (quali distanziamento e uso della mascherina), garantendo il diritto di sciopero e di riunione, vitali per una democrazia. La democrazia è pluralismo ed è conflitto, e non può prescindere dal garantirli nella misura più ampia possibile, anche in uno stato di emergenza.


28 aprile 2020. Fonte: Volere la luna


 

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