Sopravvivere al tempo della pandemia

Luca Giunti

Continuano  con “Sopravvivere al tempo della pandemia” i “Cattivi pensieri di un guardiaparco in servizio in Val Susa’ che hanno suscitato condivisioni e domande in misura inaspettata, soltanto qualche settimana fa. Evidentemente, riflessioni diffuse ma ancora inespresse. Corre l’obbligo, quindi, di provare a rispondere alle sollecitazioni e aggiungere qualche altra cattiveria, nuovamente favorita dal servizio in quota… più solitario del solito.

Prima di tutto, confermo – ai tempi del Coronavirus, la presenza di animali in zone inconsuete, in particolare ai bordi delle strade e vicino alle borgate. Ne è un esempio, fra i tanti, l’airone cenerino della foto. Non è insolito osservarlo nei prati interclusi da svincoli e strade, ma questo ormai sfiora il marciapiede e non scappa subito. È di nuovo facile avvistare i caprioli di giorno, persino dai balconi delle varie quarantene.

Fenomeno interessante, se comparato alla percezione diffusa, soprattutto tra i cacciatori, di una loro progressiva rarefazione causata dal lupo. Che sicuramente ne uccide molti, ma i caprioli patiscono anche la competizione con il cervo – le cui popolazioni crescono ovunque – e la chiusura delle radure nei boschi, loro habitat d’elezione.

Quegli animali che si salvano

In questo periodo silenzioso e tranquillo, le ritrovano proprio vicino a noi, dove fresca erba di primavera cresce in prati e campi falciati regolarmente. Ora non si possono programmare censimenti esaustivi, ma sarà opportuno farne tesoro per quelli futuri. E ancora, appassionati esperti o neofiti in tutta Italia trascorrono qualche ora alle finestre per avvistare uccellini in orti, parchi e giardini prospicienti, scoprendo una ricchezza inconsapevole soltanto qualche mese fa.

Ci sono sempre stati ma non ce ne eravamo accorti, logorati dalla vita moderna, oppure ce ne sono di più, attirati dalla nostra forzata ritirata? Di sicuro, stanno meglio tassi, ricci, rane, rospi, serpenti e bisce varie, lucertole e affini, cioè tutti quelli che attraversano le nostre strade – soprattutto di notte – e vengono falciati dalle auto. Ne sopravviveranno diverse centinaia e potranno ringraziare il virus.

Usiamo i fondamenti della Fisica

Dobbiamo comprendere appieno che – quando noi siamo presenti – gli ambienti e gli animali non sono gli stessi di quando non ci siamo. Usiamo arditamente i fondamenti della Fisica del ‘900: il principio di esclusione di Pauli (o noi o loro); quello di indeterminazione di Heisenberg: la nostra osservazione (presenza) modifica l’oggetto osservato. Mentre, continuando la metafora, ci culliamo nella falsa convinzione di vivere come il gatto di Schrödinger, nello stesso momento vivo e morto: dentro e fuori la natura contemporaneamente, a nostro piacimento. Non è così.

La natura esiste fuori di noi. Soprattutto, senza di noi. Noi le apparteniamo, lei no. A noi serve tantissimo, ma noi a lei, affatto. Anzi. Viene in mente la ricerca pubblicata un anno fa riguardo la Exclusion-zone di Chernobyl. La vastissima area disabitata da 33 anni a causa dell’incidente nucleare del 26 aprile 1986 ha visto aumentare la sua biodiversità vivente. Gli individui di ogni specie – nemmeno di tutte – possono avere vita più breve a causa delle mutazioni genetiche provocate dalle radiazioni ancora potenti, ma il loro numero totale è maggiore di quando la regione era frequentata dagli umani. La nostra presenza fa più danni all’ambiente, in termini evolutivi e bio-diversi, di una esplosione atomica.

Come abbiamo sconfitto il vaiolo

Capire il nostro legame complesso con la natura significa accettare che in essa abitano disordine e distruttività che non possiamo dominare completamente (Mauro Ceruti, ex multis)

I guardiaparco sono stufi della narrazione imperante di una natura disneyana, tutta buona, benintenzionata, moralmente orientata, mammifera. Non è così. È bellissima, certo, ma è nello stesso tempo sporca, pungente, urticante, velenosa, infettante, mordace, assassina, crudele, senza senso. Questo virus è una zoonosi, cioè una malattia che attacca gli umani provenendo da animali, sia direttamente sia attraverso organismi serbatoi e incubatori. L’OMS (Organismo Mondiale della Sanità) ne descrive oltre 200, dalla peste alla TBC, da Ebola alle influenze stagionali. Ne abbiamo sconfitto definitivamente soltanto una, il vaiolo, a furia di vaccini (dalla parola “vacca”, non dimentichiamolo!) inventati da Jenner, Pasteur e seguaci.

A dirla tutta, la nostra unica vittoria è stata in gran parte favorita da uno sbaglio evolutivo del vaiolo: non si è modificato abbastanza da sopravvivere al di fuori del corpo umano. Una volta sterminato lì dentro, non ho avuto scampo. Si è infilato in un vicolo cieco, ha eliminato le possibili alternative, non è rimasto adattabile. Ogni organismo che si riduce così, come il famoso Dodo, può sopravvivere a lungo solo se non cambiano le condizioni ambientali. Appena succede, sparisce dalla Storia. Gli altri virus a RNA come questo Covid-19 invece mantengono la capacità di sopravvivere anche in altri animali e quindi sono praticamente indistruttibili. Bisognerà conviverci a lungo, con alterni equilibri.

La partita della sopravvivenza

Mantenersi adattabili invece di specializzarsi, diffondere invece di accentrare, essere flessibili anziché rigidi, tenere pronte opzioni diverse anziché seguire una sola direzione irreversibile. Sono gli assi vincenti nella partita della sopravvivenza attraverso i millenni, come dimostrano continuamente etologia e storia dell’evoluzione. Forse sarebbe il caso di applicarli anche a campi che sembrano lontani, come l’economia o l’organizzazione sociale. Dove potrebbe emergere come più durevole non concentrare tutti gli uffici in un unico palazzo o tutti i servizi sanitari in un’unica struttura o tutti i finanziamenti in una sola soluzione o tutti gli abitanti in un’unica città. Può essere scomodo e meno affaristico, ma non sarebbe da sciocchi immaginare di risolvere un problema usando gli stessi strumenti che lo hanno creato? [“We won’t return to normality, because normality was the problem”]

Non mi piace la terminologia di guerra applicata al contrasto al virus. Per ragioni sostanziali, non estetiche. Perché in questo momento di grande tragedia per noi, ci sono migliaia di persone che subiscono una guerra vera con tutte le dannazioni che questa comporta. Ce lo ha ricordato Paolo Rumiz pubblicando la lettera di una donna che ha vissuto l’assedio di Sarajevo: chiusa in casa come noi, ma senza gas, cinque maglioni addosso contro il freddo, poco cibo, i cecchini a sparare sulle file ai mercati… E poi perché una guerra può avere tre esiti: vittoria, certamente, ma anche sconfitta o resa. E mi sa che la terza opzione – arrendersi e convivere con il nemico – non sia meno probabile della prima.

Altro che debellare il nemico (“de-bellare” portare fuori dalla guerra…). L’ultima ragione perché la guerra è un’impresa di taglio maschile, fallocratica, straordinaria (extra – ordinario) mentre noi abbiamo disperato bisogno di rilasciare e far funzionare soprattutto la componente femminile, normale, ordinaria nell’accezione migliore. Prima di essere accusato di sessismo, preciso che non ne faccio una questione di genere ma di atteggiamento mentale. Molti uomini hanno tratti femminili e molte donne viceversa comportamenti maschili. Voglio dire che dobbiamo applicare uno schema di manutenzione quotidiana, di piccole azioni che passano inosservate, di prevenzione diffusa, in una parola di “cura” (esposta da don Milani, cantata da Battiato), piuttosto che grandi azioni in condizioni speciali con uno sforzo mostruoso ma limitato nel tempo (“L’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale” Lucio Dalla, 1977, guarda caso in una canzone titolata “Disperata ed erotica”). 

È come se il bosco bruciasse

Un parallelo meno drammatico ma molto simile possiamo ritrovarlo negli incendi di ottobre 2017 che si verificarono in Piemonte. Anche allora comportamenti umani hanno preparato le condizioni necessarie alla tragedia, in quel caso l’inurbamento e il conseguente abbandono di colline e montagne che ha comportato la perdita delle manutenzioni costanti e quindi l’accumularsi al suolo di una lettiera facilmente infiammabile. Il fenomeno si è protratto per anni nell’indifferenza, fino a quando un evento momentaneo – la prolungata siccità, anch’essa non esente da responsabilità umane – ha innescato (termine esatto) la catastrofe.

Gli incendi ci sono sempre stati, esattamente come i contatti con gli animali selvatici e i loro parassiti, ma si estinguevano rapidamente per la scarsità di materiale adatto a propagarli. Ma se azioni o omissioni umane favoriscono contagi e diffusione, aveva ragione la stessa nonna analfabeta della prima puntata: “Chi semina vento, raccoglie tempesta”. E anche in quel caso, chi denunciava il pericolo era inascoltato, tacciato di catastrofismo o di fare la Cassandra (la quale, mannaggia!, aveva ragione ma era stata condannata dal Dio Apollo, appunto, a non essere creduta). Già Edgar Morin diceva che Homo non è solo sapiens ma anche demens

Sopravvivere al tempo della pandemiaAirone cenerino a bordo strada e capriola a Case Plenai | Foto L. Giunti

Appello a uno stimato progettista

L’ultimo cattivo pensiero lo dedico alla Rete Natura 2000, ai suoi tecnici e gestori. Lo formulo come un appello:

“Stimato progettista, la prossima volta che presentando una nuova opera a un parco o a un altro ente pubblico, ti verrà richiesto di preparare una Valutazione di Incidenza o di Impatto Ambientale e ti verrà controllata con attenzione e forse ti costringerà a cambiare i tuoi piani, per favore, non pensare più che si tratta di un adempimento burocratico sterile e inutile. È invece un lavoro meritorio e doveroso per difendere quel poco di biodiversità che è rimasta intorno a noi. Quella stessa, la cui distruzione è riconosciuta come una delle cause non secondarie del salto dei coronavirus dagli animali selvatici a quelli domestici e infine a noi”.

La biodiversità piemontese è minore in quantità rispetto a quella delle foreste amazzoniche o asiatiche, ma non in qualità. Difendere una torbiera in quota o una piccola popolazione di Ephedra o una farfallina incolore non sono manie di qualche ambientalista nullafacente, ma sono doveri morali ancor prima che istituzionali. E per favore, non confondere picchio nero con picchio rosso: uno è in Direttiva, l’altro no. Non sono la stessa cosa. Se non te ne intendi, incarica un biologo, un forestale, un naturalista. Risparmieremo tempo. Egregio professionista, siamo pronti ad aiutarti ma non faremo sconti. Perché siamo preoccupati che la lezione che ci lascia Covid-19 non venga imparata.

Un recente articolo de IlSole24Ore pretende che l’Europa dirotti i fondi del cosiddetto Green New Deal al rilancio di opere e cantieri, invocando “semplificazione e sburocratizzazione“. Questo lamento è spesso ripetuto insieme ai “lacci e laccioli”, espressione che richiama il bracconaggio. Con ragione, perché in realtà la semplificazione non può sacrificare la progressiva riduzione di ogni possibile controllo pubblico. Gentile tecnico, vuoi un esempio recente ?  

In Val Susa intorno a Natale un centinaio di persone ha dovuto ricorrere al pronto soccorso per i disturbi seguenti all’intossicazione da trichinella, contratta mangiando carni di cinghiale infestate dal parassita (un verme, non un virus, ma sempre una zoonosi). Sono ancora in corso indagini di polizia sanitaria, ma un fattore è chiaro: una sorta di deregulation ha concesso la possibilità di trasformare l’obbligo di far certificare ogni singolo capo abbattuto da un “sistema pubblico” (veterinario Asl o tecnico faunistico), in una sorta di autocontrollo con prelievo dei diaframmi animali effettuato dai cacciatori. Non tutti i Comparti di caccia se ne sono avvalsi, ma le conseguenze erano prevedibili, prima o poi. Allora facciamo tesoro delle tragiche esperienze che stiamo vivendo. È l’unico modo per dare un senso agli ammalati e ai morti.

Grazie dell’attenzione.


Fonte: Piemonte Parchi, 12 aprile 2020
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