In che modo le nazioni possono prepararsi al meglio per affrontare una pandemia o una crisi climatica?

George Lakey

La nostra volontà di privilegiare la protezione della comunità nel suo insieme dipende in gran parte dalla fiducia sociale – cosa che i paesi nordici hanno raggiunto opponendosi alle loro classi dirigenti.

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HELSINKI, FINLANDIA – 31 MARZO: La statua dei Tre Fabbri, a Helsinki, in Finlandia, modificata in seguito alla pandemia di coronavirus (COVID-19), il 31 marzo 2020: i fabbri indossano una mascherina e martellano un modello impagliato del virus; sotto di essi, uno striscione con la scritta “Restate forti”. (Foto di Alessandro Rampazzo / Anadolu Agency via Getty Images)


David Brooks, sul New York Times, invidia l’alto grado di fiducia sociale che osserva tra i popoli nordici. Si tratta di una risorsa preziosa quando si affronta un’epidemia. Sarebbe utile anche per affrontare le catastrofi che accompagnano la crisi climatica.

La volontà degli individui di privilegiare la protezione della comunità nel suo complesso dipende in gran parte dalla fiducia sociale, e ora  questa pandemia è abbastanza avanzata da mostrare che i vari paesi ne mostrano livelli diversi. In Scandinavia, nei supermercati non ci sono grandi ondate di gente che fa scorta di cibo e carta igienica. Nel frattempo, nel New Jersey, vediamo non solo acquisti dettati dal panico, ma anche scontri rabbiosi e urla tra gli abitanti delle città, che si precipitano nelle loro seconde case al mare, e gli abitanti del luogo che cercano di proteggere i loro ospedali.

Le persone hanno fiducia in un sistema che supporta in modo affidabile la sicurezza, la solidarietà e la libertà individuale di compiere importanti scelte di vita. Esse imparano o meno questa fiducia secondo il modo in cui il sistema interagisce con loro.

La differenza tra i popoli nordici e gli americani in questi giorni evidenzia la differenza dei loro sistemi.

È la fiducia, insieme all’interesse particolare, che ha permesso ai partiti politici danesi di unirsi rapidamente, nonostante le loro differenze, nel “giocarsi la casa” – cioè l’integrità del loro futuro fiscale – su un gigantesco “congelamento” dell’economia. Questa misura rivoluzionaria mantiene i lavoratori sui libri paga dei loro datori di lavoro, anche se l’epidemia li tiene lontani dal loro posto di lavoro.

Il 25 marzo, il comitato editoriale del New York Times ha elogiato l’approccio danese come di gran lunga superiore al pacchetto americano da due trilioni di dollari approvato la settimana scorsa. L’articolo esplicativo del Times di alcuni giorni dopo sottolinea più e più volte come l’attuale economia politica danese sia diversa e migliore di quella degli Stati Uniti.

Pandemia come prova per affrontare le future catastrofi climatiche

Il coronavirus è una prova generale dei mega-disastri che arriveranno se continuiamo l’inquinamento da carbonio. Sovvenzionare le compagnie petrolifere è come continuare con un sistema sanitario orientato al profitto: entrambe le cose assicurano che le morti inutili che non hanno fatto notizia l’anno scorso si moltiplicheranno quando si verificherà una crisi.

Il Climate Change Performance Index [1], ad esempio, nel suo rapporto del 2020 valuta i paesi  scandinavi nel quinto superiore delle nazioni, mentre gli Stati Uniti sono all’ultimo posto. Ecco perché è essenziale conoscere la capacità di generare fiducia sociale da parte dei diversi sistemi.

 Non è un caso che la Danimarca, che ha riprogettato l’approccio alla globalizzazione, abbia innovato anche di fronte alla pandemia di coronavirus “congelando l’economia”.

Un secolo fa, l’economia politica dei paesi nordici, che era il capitalismo del libero mercato, non si guadagnò la fiducia della gente e quindi non la ottenne. È vero, quei paesi erano piccoli e omogenei, ma la fiducia della gente comune nel loro sistema era nello scarico del gabinetto, così come oggi i sondaggi rilevano che sia la nostra fiducia. Un numero sufficiente di nordici insorse contro le loro classi dirigenti per far passare il potere [al popolo] e creare un sistema diverso e affidabile.

Fareed Zakaria, tuttavia, non crede che essi abbiano un sistema diverso. Nella sua rubrica del Washington Post “Bernie Sanders’s Scandinavian Fantasy” (“La fantasia scandinava di Bernie Sanders”), egli osserva, giustamente, che nei paesi nordici si trovano alcune caratteristiche tipiche del capitalismo di libero mercato. Il suo articolo si concentra quindi su singoli aspetti del modello nordico piuttosto che sull’intero sistema. Ciò gli impedisce di vedere che i popoli nordici progettano i loro sistemi per prevenire problemi per correggere i quali, negli Stati Uniti, abbiamo cercato di trovare rimedi puntuali.

Il salario minimo è uno di questi rimedi. Il capitalismo classico non contempla un salario minimo, perché interferisce con il libero mercato. Il movimento operaio, ribellandosi alla povertà dei lavoratori, domandò il salario minimo. La nostra élite economica l’accettò in ritardo e con riluttanza e sta ancora combattendo contro chi chiede uno standard di $ 15 all’ora.

I paesi nordici non hanno un salario minimo legale. Ah, grida Zakaria, devono essere economie di libero mercato!

Non cerca nemmeno di spiegare come a Copenaghen i “volta-hamburger” di McDonald guadagnino $ 20 l’ora. Ciò è tipico del suo articolo: concentrandosi sui singoli aspetti, Zakaria trascura il sistema. Come dice il vecchio proverbio, “non vede la foresta per osservare gli alberi”.

Possiamo capire gli alti salari dei “volta-hamburger” danesi di McDonald e di tutti i lavoratori se facciamo un passo indietro e osserviamo la foresta scandinava. Notiamo l’altissima densità di appartenenza al sindacato, e anche l’impegno del modello nordico per la piena occupazione. In quel tipo di sistema, se McDonald vuole vendere hamburger a Copenaghen, dovrà pagare per avere i lavoratori.

I nordici preferiscono progettare in modo da favorire i comportamenti virtuosi con incentivi. Ciò si vede in molti aspetti del loro sistema, motivo per cui ottengono un punteggio elevato nel mondo degli affari per una relativa “libertà dalla regolamentazione”. Non è necessario regolamentare eccessivamente, impantanando il sistema nella burocrazia, se si dispone di un progetto complessivo che incentiva i buoni comportamenti.

Ciò aiuta soprattutto se i movimenti popolari hanno già vinto così tante battaglie contro l’élite economica da costruire un sistema democratico. Matt Bruenig, che pure ha risposto alla rubrica di Zakaria, ci aiuta a vedere la foresta, scrivendo:

«In Finlandia, è la lobby degli affari che chiede la creazione di un salario minimo e i sindacati ripetutamente respingono l’idea come uno stratagemma di destra per indebolire il salario dei lavoratori. La mancanza di un salario minimo non è dovuta al liberalismo del mercato, ma al fatto che le istituzioni del lavoro nel paese sono così tanto a sinistra che il salario minimo è visto, al confronto, come cosa da conservatori».

Mentre molte imprese capitaliste sono vive e vegete, in Finlandia c’è anche un movimento cooperativo diffuso. In effetti, ci sono più soci di cooperative di quanti siano i finlandesi!

Considerando quanto sia importante la globalizzazione nel mondo economico odierno, la completa incomprensione di Zakaria dei paesi nordici è sbalorditiva. Essa è causata, ancora una volta, dal suo fascino per i singoli alberi e dall’incapacità di vedere la foresta.

Egli ha ragione quando dice che la globalizzazione ha lasciato la maggior parte delle nazioni impegnate in una “corsa verso il basso”, in cui i posti di lavoro vengono spostati da un paese all’altro per sfruttare i lavoratori e l’ambiente.

Inizialmente i paesi nordici hanno cercato di mantenere i posti di lavoro in patria, sovvenzionando le loro aziende per tenere aperte le fabbriche. La Danimarca, pessimista sulla fattibilità di tale strategia, ha apportato un cambiamento sostanziale. Il governo, invece di sovvenzionare i proprietari delle aziende, ha rediretto le risorse verso i lavoratori.

Quando una fabbrica chiudeva, i lavoratori danesi ricevevano dal governo una percentuale molto alta dei loro salari per riqualificarsi per altri lavori disponibili o tornare a scuola, comprese le loro famose università libere. Naturalmente i lavoratori hanno mantenuto l’assistenza sanitaria (universale), il pagamento delle pensioni (universale) e altri sostegni. Hanno anche ottenuto un’indennità di trasferimento se il loro nuovo lavoro era in un’altra parte del paese.

Nuovi posti di lavoro continuano ad apparire nei paesi nordici, perché sono molto più favorevoli alle start-up rispetto al libero mercato capitalista degli Stati Uniti. Il titolo del rapporto di Inc. sugli imprenditori coglie nel segno: “In Norway, Start-ups Say ‘Ja’ to Socialism” (“In Norvegia, le start-up dicono ‘Ja’ al socialismo”).

Il risultato è qualcosa chiamato “flessicurezza”: alto livello di occupazione, continuo nel tempo, in lavori di qualità ben retribuiti, con start-up e forza lavoro al passo con la tecnologia e le tendenze globali.

Zakaria, scrivendo di una riprogettazione così complessa e sofisticata del modello nordico, vede solo una cosa: gli investimenti aziendali nelle fabbriche danesi sono liberati per essere reinvestiti. Il capitale libero è l’albero che vede, quindi segna uno per il capitalismo di libero mercato e zero per il “socialismo di Bernie”.

Senza il “socialismo di Bernie”, tuttavia, non ci sarebbe flessicurezza. Agli olandesi va il merito della prima bozza dell’idea, ma la Danimarca, più socialista, l’ha rafforzata considerevolmente. Impariamo anche dalle serie di eventi successivi: Svezia e Norvegia hanno rapidamente adottato la flessicurezza. L’Unione Europea lo ha raccomandato senza successo ai suoi stati membri. Anche gli Stati Uniti hanno fatto un passo, come abbiamo visto nella Rust Belt, dove Donald Trump ha raccolto i voti elettorali necessari per vincere nel 2016.

Contrariamente alla conclusione di Zakaria, la flessicurezza rivela un altro divario sistemico tra i paesi nordici e quelli sostenitori della libera impresa. Esso deriva dal profondo impegno del modello nordico per il benessere dei lavoratori.

Non credo sia un caso che la Danimarca, che ha riprogettato l’approccio alla globalizzazione, abbia innovato anche di fronte alla pandemia di coronavirus “congelando l’economia”. Né che i paesi nordici siano all’avanguardia nel rispondere alla crisi climatica.

Le società nordiche che liberano del capitale chiudendo fabbriche a volte lo portano nel Sud del mondo e lo investono lì. Non credo che Zakaria approverebbe la risposta dei norvegesi inclini al socialismo: una legge che impone alle società norvegesi operanti all’estero di rispettare gli stessi standard (molto elevati) di trattamento dei lavoratori e dell’ambiente a cui devono sottostare in patria. La legge autorizza i cittadini norvegesi a fare delle denunce.

Ancora vichinghi nel cuore, i norvegesi (e gli altri nordici) adorano viaggiare. Immagina di essere un turista norvegese in Cile e di scoprire che lì ci sono allevamenti ittici di proprietà norvegese. Curioso, li visiti e scopri che gli allevamenti stanno inquinando l’acqua, o sottopagando gli operai o trascurando la salute e la sicurezza sul lavoro.

Quando torni a casa, ti presenti all’organizzazione non profit supportata dal governo, che sorveglia il comportamento aziendale all’estero, e riporti ciò che hai appreso. L’agenzia indaga e – se trova che hai ragione – obbliga la società ad apportare modifiche e cambiare il suo modo di operare.

Considerare il capitale responsabile è in linea con il pensiero dell’economista svedese Gunnar Myrdal, vincitore del Nobel, che quasi un secolo fa sosteneva che il capitalismo aveva le priorità rovesciate. Esso ha dato più importanza al benessere del capitale e ha assegnato al lavoro il compito di sostenere il capitale. Myrdal sosteneva che la priorità deve invece essere il benessere dei lavoratori e degli agricoltori che producono ricchezza. Il compito del capitale è sostenere il bene comune.

Questo capovolgimento delle priorità è fondamentale per il successo del modello nordico e spiega sia quanto esso è diverso dal capitalismo di libero mercato sia perché ha molto più successo.

Arrivare a questo punto è la parte più difficile, come è stato anche per gli scandinavi

Il New York Times ha recentemente pubblicato un editoriale, intitolato Finland is a Capitalist Paradise(“La Finlandia è un paradiso capitalista”).

Nell’articolo, la giornalista finlandese Anu Partanen, che ha scritto il bel libro “The Nordic Theory of Everything” (“La teoria nordica del tutto”), collabora con il marito americano Trevor Corson per dirci perché vivono molto meglio a Helsinki che a Brooklyn. Il loro è un resoconto brillante: “Ciò che abbiamo sperimentato è un aumento della libertà personale”.

Il problema dell’articolo è che la loro descrizione ci intralcia nell’ottenere quella stessa libertà personale qui negli Stati Uniti.

Per i principianti, il loro marchio è un problema. Chi può immaginare un “paradiso capitalista” del libero mercato con un governo che possiede quasi un terzo della ricchezza nazionale, o con un lavoratore su tre impiegato dallo stato, o con grandi imprese statali?

Gli autori hanno ragione a dire che molte imprese capitaliste sono vive e vegete in Finlandia, ma ignorano la diffusa vitalità del movimento cooperativo: ci sono più soci di cooperative di quanti siano i finlandesi!

L’adulto medio è socio di due cooperative. I finlandesi, come i loro vicini scandinavi, hanno imprese sia di proprietà dei dipendenti sia dei clienti. Usano banche, grandi magazzini, hotel, alimentari e compagnie assicurative cooperative. In un paese più esteso del Regno Unito, c’è una cooperativa nel raggio di tre chilometri da ogni abitante.

Partanen e Corson tralasciano anche la storia completa della lotta, che spiega come la Finlandia sia diventata un posto così felice. (Nel 2020, per il terzo anno consecutivo, la Finlandia è ai vertici delle classifiche internazionali di felicità.)

A loro merito, gli autori – soli tra gli autori considerati nei miei due precedenti articoli – rivelano cosa è successo ai vecchi tempi, quando i capitalisti erano saldamente in sella. Come negli altri paesi nordici, i finlandesi furono oppressi, si ribellarono e subirono violenze.

A differenza dei movimenti popolari in altri paesi nordici, alcuni finlandesi ricorsero alla violenza e la lotta divenne una guerra civile. Gli autori raccontano quello che successe nel 1918: “Dopo mesi di combattimenti, i capitalisti e i conservatori schiacciarono la rivolta socialista. Più di 35.000 persone morirono. Traumatizzati e impoveriti, i finlandesi impiegarono decenni cercando di recuperare e ricostruire ”.

La buona notizia è che, nonostante la sua vittoria, l’élite economica finlandese non riuscì a impedire un graduale rilancio dei sindacati. Negli anni ’50, come ha recentemente spiegato Tatu Ahponen in Jacobin, i sindacati organizzarono uno sciopero nazionale dei metalmeccanici di 10 giorni. Poi organizzarono uno sciopero generale di mezzo milione di lavoratori. Entrambi ottennero importanti concessioni.

La Finlandia ha creato un sistema sanitario finanziato con fondi pubblici (principalmente attraverso le tasse), che ottiene buoni voti nelle classifiche internazionali. Oggi, ad esempio, negli Stati Uniti muore per mancanza di assistenza sanitaria un numero di cittadini notevolmente maggiore rispetto alla Finlandia, in proporzione alla popolazione. I numeri sulle morti prevenibili mostrano un terribile confronto tra il modello dei paesi nordici e l’approccio capitalistico e orientato al profitto dell’assistenza sanitaria negli Stati Uniti.

La nuova forma di resistenza centrista a un sistema manifestamente migliore è quella di rifiutare di chiamarlo in modo diverso.

Il decennio 1966-1976 fu un “periodo di recupero” per la Finlandia, con i sindacati molto attivi e il più grande partito politico – i socialdemocratici – in grado di ottenere molte delle conquiste di cui già godevano gli altri paesi nordici: negoziati salariali nazionali annuali, istruzione elementare universale, asilo nido universale e simili.

Sottovalutando i recenti decenni di lotta di classe in Finlandia, gli autori presentano un quadro di capitalisti illuminati che accolgono in paradiso una situazione di mutuo vantaggio. Ciò potrebbe indurre in errore gli americani che desiderano il grado di giustizia, libertà personale e uguaglianza di cui godono i paesi nordici.

I finlandesi dovettero lottare, come noi ora. Hanno dovuto organizzare i movimenti popolari che hanno ricostruito un’economia politica che sia per loro affidabile, e quindi costruisca la fiducia sociale.

Ma non è finita qui. Il movimento operaio rappresenta ora il 90 percento dei lavoratori. In gennaio, la nuova premier socialdemocratica, Sanna Marin, 34 anni, ha delineato un nuovo obiettivo: una giornata lavorativa flessibile di sei ore e una settimana lavorativa di quattro giorni. Ha stimolato un vivace dibattito nazionale che ha attirato l’attenzione di Forbes, che ha notato lo stress dovuto al superlavoro sperimentato da molti americani.

Il dibattito sui modelli ci aiuta a prepararci alla crisi pandemica e a quella climatica

I centristi democratici vogliono farci credere che l’attuale economia politica americana meriti la nostra fiducia. Dicono “sì” alle riforme liberali che lasciano intatto il sistema: pari salari per le donne, maggiori opportunità di istruzione per le persone di colore, scuola materna universale per i bambini e ampliamento di Obamacare.

Mai perfetta, la lotta nordica è disponibile come testimonianza. Possiamo usare noi quello che essi hanno imparato.

Allo stesso tempo, hanno costantemente detto “no” alle misure che rendono più facile organizzare i sindacati e porre fine ai sussidi per i combustibili fossili, anche quando controllavano la Casa Bianca e entrambi i rami del Congresso. Infatti, tali cambiamenti comprometterebbero lo scopo del nostro modello economico: mettere il profitto al primo posto. La loro lealtà al libero mercato prevale anche nel mezzo della pandemia, che ha dimostrato l’inadeguatezza del nostro sistema sanitario orientato al profitto.

Gli scrittori criticati in questa serie [di articoli] non vogliono chiamare l’economia condivisa dai paesi scandinavi “socialismo democratico” o “socialdemocrazia”?, addirittura nemmeno, come fanno spesso gli economisti accademici, “il modello nordico”.

La nuova forma di resistenza centrista a un sistema manifestamente migliore è quella di rifiutare di chiamarlo in modo diverso. Questo modo di difendere lo status quo mi ricorda come  l’omofobia si manifestò a me, come giovane gay  esortato a restare nell’armadio: “Siamo felici di accettare il tuo contributo, ma non vogliamo sapere chi sei”.

Come hanno imparato molti popoli oppressi, dare un nome e un’identità a qualcosa aumenta il suo potere. Le persone affrontano la realtà in un modo nuovo. La differenza diventa un’alternativa. Dare un nome suggerisce che “un altro mondo è possibile”. Il rifiuto di un nome riflette una profonda resistenza.

L’élite economica degli Stati Uniti non mostra più propensione a trovare una soluzione di mutuo vantaggio rispetto a quanto fecero, al tempo, le élite dei paesi nordici. Lassù, la maggior parte delle persone che volevano un cambiamento si resero conto che avrebbero dovuto semplicemente lottare, e sapevano che non stavano combattendo solo per una lista della spesa di buone idee: era un sistema alternativo quello a cui stavano mirando.

Al di fuori della Scandinavia, possiamo ispirarci  ai risultati ottenuti fin qui dalla loro lotta – risultati di cui non potevano essere sicuri. L’élite economica perse il suo dominio e il popolo ottenne un livello storico di salute e sicurezza, democrazia, giustizia economica e libertà individuale.

Ora essi innovano per guidare il mondo nell’affrontare le pandemie e il cambiamento climatico. Mai perfetta, la loro lotta è disponibile come testimonianza. Possiamo usare noi quello che essi hanno imparato.


Waging Nonviolence, 3 Aprile 2020
Titolo originale: How can nations best prepare to face a pandemic or climate crisis?

Traduzione di Franco Malpeli per il Centro Studi Sereno Regis

 

Nota

[1]Il Climate Change Performance Index (Indice delle prestazioni di cambiamento climatico) o CCPI è uno strumento indipendente di misura delle prestazioni degli stati riguardo al cambiamento climatico. Esso si propone di aumentare la trasparenza delle politiche internazionali sul clima e consente di confrontare gli sforzi e i progressi nella protezione del clima compiuti dai singoli paesi. (NdT)


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