Controllare la pandemia: “sicurezza” per chi? | Iida Käyhkö, Laura Schack

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La tragedia umanitaria dell’attuale pandemia da Coronavirus non deve diventare un pretesto per l’espandersi dei poteri dello Stato che danneggiano le comunità vulnerabili.

«Sabato 14 Marzo è stato un’altra giornata impegnativa per la Refugee Community Kitchen (RCK), cucina da campo per rifugiati a Calais. Un gruppo di noi, che lavora qui come volontari per un breve periodo, ha tagliato verdure da insalata per più di 1800 persone. Subito dopo ci siamo messi a distribuire cibo a Calais, mentre un altro gruppo di noi partiva alla volta di Dunkirk.

Il tema Coronavirus è stato al centro della maggior parte dei nostri discorsi del giorno, e infatti abbiamo applicato nuove procedure per cercare di minimizzare la possibilità di contagio tra gli sfollati in coda per la loro porzione giornaliera di riso, curry e insalata. Dopo aver spiegato loro perché non ci fosse più un tavolo self-service per i condimenti, e pertanto niente sale o salsa chili, la maggior parte dei ragazzi ha trovato la cosa divertente – l’idea di un virus sembrava loro l’ultimo dei problemi».


Il giorno seguente alcuni sfollati sono stati attaccati con i gas lacrimogeni, in uno dei campi di Calais. Si tratta di episodi ricorrenti dovuti ai continui sfratti operati dalla polizia negli accampamenti, ma quella domenica in particolare era anche il primo giorno di lockdown nazionale in Francia. Come negozi e ristoranti avevano chiuso i battenti, pure i servizi statali per i rifugiati furono costretti a interrompere le loro attività. La Vie Active, l’organizzazione statale francese addetta all’approvvigionamento dei rifugiati di Calais, smise di operare.

Per un certo periodo, iniziative sociali dal basso come RCK sono rimaste le uniche a supportare le molte persone sfollate accampate nell’area, ma a partire dal 24 Marzo anche la maggior parte di queste associazioni ha dovuto interrompere le attività, rispettando le nuove misure di blocco introdotte.

Già normalmente senza un ricovero, accesso ai servizi igienici, acqua corrente o servizi sanitari adeguati, la maggior parte delle persone che vive in un campo per rifugiati si trova ora impossibilitata a proteggersi dal diffondersi del virus COVID-19. Oggi, in Francia, chiunque lasci la propria abitazione è obbligato ad avere con sé certi documenti specifici, incluso un modulo che attesti l’indirizzo di residenza – impossibile per persone senza fissa dimora e richiedenti asilo.

L’impossibilità di produrre questa documentazione comporta quindi un problema significativo, poiché impedisce di fatto ai rifugiati l’accesso a supermercati e altri negozi dove possano ottenere alimenti e beni per l’igiene personale. Nello stesso tempo, inoltre, sono stati annullati anche alcuni accordi informali prima attivi a Dunkirk per supporto medico ai rifugiati; attualmente sia rifugiati malati che feriti vengono dunque respinti e allontanati dagli ospedali.

Come se questo non bastasse, gli sfratti violenti operati dalla polizia nei campi continuano.

LOCKED OUT

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO World Health Organization) ha aiutato a consolidare l’immagine della pandemia come una minaccia per la sicurezza globale e nazionale. Durante una comunicazione ufficiale di Febbraio si è fatto riferimento al COVID-19 come “il nemico pubblico numero uno”: l’hanno descritto come “estremamente capace a produrre disordini politici, sociali ed economici più di qualunque attacco terroristico”. Da allora, questa immagine o cornice è passata dal discorso retorico all’azione. Una serie di misure di sicurezza – blocchi, isolamenti forzati e sorveglianza intensificata – sono state e continuano a essere messe in pratica.

In paesi come Francia, Italia, Spagna – e ora il Regno Unito – i blocchi e le chiusure sono andati incontro a diverse reazioni miste da parte dell’opinione pubblica e dei gruppi di protesta. Mentre sembra esserci un consenso generale rispetto all’imposizione di misure estreme di sicurezza, inclusi blocchi forzati e coprifuoco da parte della polizia, visti come una risposta drastica ma necessaria, gruppi di attivisti per i diritti umani e comitati di controllo delle forze di polizia hanno espresso invece le loro preoccupazioni rispetto all’allargamento del potere statale.

Infatti, alla base del lockdown rimangono seri dubbi riguardo il trattamento delle persone più vulnerabili e marginalizzate delle nostre società.

Chi sopravviverà a questa pandemia? Le vite di chi mirano a proteggere le misure di sicurezza adottate? E che aspetto avrà il mondo quando usciremo da questa crisi – quali misure di sicurezza autoritarie resteranno in piedi dopo che le settimane più pericolose della pandemia saranno passate? Mentre quelli che possono permetterselo si rintanano in bunker sicuri e nelle loro seconde case, il virus viene lasciato correre incontrollato nei campi dei rifugiati, nei centri di detenzione e nelle prigioni.

STATI DI EMERGENZA

L’attuale piano di emergenza pandemica è la continuazione di una norma stabilita in modo risoluto già dall’inizio del XX secolo: l’emergenza non si esaurisce, diventa semplicemente un contesto naturale nella vita quotidiana. Infatti, stati di emergenza dichiarati in situazioni di guerra, di conflitto militare, catastrofi naturali e terrorismo, hanno verosimilmente segnato le politiche del XXI secolo.

Deliberatamente, le misure di sicurezza in stato d’emergenza sono piuttosto malleabili. Esse possono essere interpretate e revisionate in modo da mettere sotto sorveglianza anche un vasto numero di persone sospette, solitamente persone e comunità già discriminate. Per molti decenni, una “Guerra al Terrorismo” legiferante ha preso di mira tracciando profili di uomini e donne di colore, musulmani e delle comunità migranti, in quanto potenziali terroristi. Solo negli ultimi anni siamo stati testimoni di un’enorme crescita di infrastrutture per la sicurezza dei confini, come si è visto a Calais. Queste misure, in effetti, stigmatizzano le persone di colore come un pericolo per la società e giustificano cambiamenti legislativi che rendono possibile una diffusa e profonda sorveglianza e criminalizzazione.

È improbabile che il sistema di sicurezza adottato in questo momento attuale scompaia una volta che la pandemia raggiungerà l’apice. Hu Yong, un accademico che si occupa nelle sue ricerche di cybersecurity e privacy, ha recentemente segnalato che la storia non ha mai mostrato nessun governo cauto nell’uso di poteri di controllo e sorveglianza, una volta ottenuti. Le nostre vite di ogni giorno saranno ora probabilmente caratterizzate da una maggiore identificazione di chi è a rischio di infezione, così come una politica legislativa che discrimini coloro che sono già infetti.

QUALI VITE CONTANO?

Il sistema di sicurezza adottato finora comporterà, nei prossimi mesi e anni, conseguenze di vasta portata per privacy e libertà di movimento. Mentre per il momento i blocchi risultano essere le misure più diffuse nel contenimento del virus, è probabile che molti Stati seguiranno presto le orme della Corea del Sud e Singapore, passando alla sorveglianza, in quanto strumento di imposizione più mirato della quarantena.

Questo programma implica test sempre più frequenti, identificazioni e localizzazioni dei possibili portatori di virus, così come strette regole di isolamento e quarantena forzata. Tale metodo evita blocchi e isolamenti di massa, permettendo ad alcuni di continuare almeno all’apparenza una vita normale, inoltre, essenzialmente, risulta meno dannoso per l’economia. Esso implica anche, però, l’uso dei dati mobili, CCTV e l’espandersi di un database di informazioni sui movimenti delle persone e le loro vite quotidiane.

Questa risposta “sorvegliante” viene ora sempre più incoraggiata da gruppi di ricerca e organizzazioni sanitarie, in tutto il mondo. Il monitoraggio governativo cinese, per esempio, è già stato incrementato tramite l’uso della tecnologia del riconoscimento facciale e app che traccino la salute e i movimenti degli utenti. App di telefonia che possano tracciare individui infetti sono ora in fase di sviluppo in tutto il mondo, sostenute dai fondi finanziari governativi.

Alcune di queste misure di sicurezza potrebbero in effetti risultare appropriate per affrontare una pandemia – dopo tutto, limitare la diffusione del virus stando a casa è una procedura ragionevole. Ma il modo in cui queste misure vengono imposte mostra l’obiettivo implicito: la protezione dello status quo. In sostanza, i beneficiari di questo processo di securizzazione, sono quelle persone a cui le circostanze permettono di vivere come cittadini condiscendenti. Tutti gli altri rischiano indigenza e carcere perché tentano di attraversare i confini o nutrire i propri familiari.

Le possibili conseguenze di questo processo di securizzazione non si limitano a questioni di sorveglianza e libertà di movimento. Le reazioni alla sicurezza creano condizioni tali per cui prosperano nazionalismi e xenofobia – da anologie con la Seconda Guerra Mondiale a temi razzisti riguardo gli stranieri “sporchi”. Del resto, la pandemia da COVID-19 è già diventata pretesto per attacchi razzisti e molestie nei confronti delle persone di origine est asiatica, in tutto il mondo.

Ma le percezioni sulla salute e l’igiene non dipendono solo da stereotipi razzisti. Esse stigmatizzano anche le persone senza fissa dimora e le comunità della classe operaia, delineando un’immagine di cittadino “buono” e “cattivo”, giudicandolo in base alla sua abilità di osservare le misure di salute e sicurezza. Questa visione apre un varco non solo ad una più profonda diseguaglianza sociale, ma anche a narrative ingiuste rispetto a chi merita salvezza e libertà – quindi, sostanzialmente, chi merita di vivere.

Sarebbe ingenuo aspettarsi che poteri politici allargati possano essere esercitati in modo equo. Nel Regno Unito, l’ex capo anti-terrorismo della polizia metropolitana ha definito la pandemia come “la più grande sfida per la polizia britannica dalla Seconda Guerra Mondiale” e ha predetto nello specifico un aumento della “violenza da gang” nei mesi a venire. Non dimentichiamoci, al proposito, che la procedura di monitoraggio delle gang da parte delle forze armate della polizia britannica sono già state ritenute fondamentalmente razziste. Le vite perse a causa della violenza della polizia o distrutte tramite processi di criminalizzazione e sorveglianza sono, apparentemente, il prezzo da pagare per la “sicurezza” – un prezzo che è normalizzato e giustificato dall’ostinata svalutazione delle vite di migranti, carcerati e senzatetto.

CONTROLLO, NON PROTEZIONE

Per molti a Calais, Dunkirk e in altri campi profughi e centri di detenzione, la pandemia porterà una sentenza di morte. I blocchi attuati nella loro forma attuale hanno fatto cessare infatti le attività di quelle organizzazioni che possono offrire un’àncora di salvezza alle persone che, già normalmente, sopravvivono in circostanze insostenibili; nel mentre, invece, centri di detenzione e carceri continuano ad ospitare i propri detenuti in condizioni tali che certamente permetteranno al virus di diffondersi incontrollato. Alcuni governi hanno cercato di mettere in atto alcune soluzioni, concedendo i diritti di cittadinanza ai migranti, o liberando un certo numero di prigionieri, ma questi sono casi eccezionali, non la regola.

Già in questo momento i volontari e le organizzazioni rimaste a Calais rilevano che una grave scarsità di cibo e acqua sta lasciando i rifugiati affamati, disidratati e disperati. Le forze di polizia sorvegliano i loro accampamenti tenendoli confinati all’interno, in gravi condizioni sanitarie. Non c’è sapone e solo un rubinetto funzionante per più di 1000 persone.

Un richiedente asilo di origine etiope di nome Abi ci ha descritto la sua situazione:

Non ho ricevuto nessun tipo di informazione da parte del governo. Quello che posso vedere oggi è che siamo circondati da CRS [squadre antisommossa francesi], con indosso mascherine. E allora, capisco che il Coronavirus sia un problema. Ma se c’è un pericolo, va in entrambe le direzioni. Quindi, perché noi non possiamo indossare le mascherine? Perché siamo visti come portatori di malattie.

Il governo francese ha recentemente annunciato che i rifugiati nella zona di Calais saranno presto trasferiti in centri di contenimento, senza fornire indicazioni chiare su cosa questo possa comportare. Di conseguenza, centinaia di rifugiati stanno ora tentando il pericoloso viaggio mortale, la traversata a nuoto dello stretto della Manica, per raggiungere il Regno Unito. Quando anche riescono nell’impresa – e sono in molti a non riuscirvi – vanno comunque incontro ad un ambiente ostile, che prevede la scelta tra squallidi alloggi di sistemazione o il non avere una casa, così come un servizio sanitario che si atteggia come un controllo immigrazione.

CREARE UNA REALE SICUREZZA

La tragedia umanitaria dell’attuale pandemia da COVID-19 non deve diventare un pretesto per l’espandersi dei poteri dello Stato che consolidano le disuguaglianze e danneggiano le comunità rese vulnerabili in primo luogo dal processo di securizzazione.

Dobbiamo pretendere che siano forniti urgentemente ricoveri sicuri e cure sanitarie adeguate a tutte le persone nei campi profughi, così come a quelle nelle carceri, alle unità di malati mentali certificati, e a coloro che dormono per strada. Il messaggio ai governanti è semplice: consentire l’attraversamento dei confini, estendere i permessi di soggiorno, rilasciare i prigionieri – e assicurare case, cure sanitarie e beni di prima necessità a tutti, a prescindere da nazionalità, stato di immigrazione o condanna penale.

Ma questi passi, seppur necessari, non cambiano ancora l’imposizione statale che prevede regole e ordine al costo di vite umane. Dunque, mentre portiamo avanti queste richieste urgenti allo Stato, dobbiamo anche iniziare a costruire una concezione totalmente diversa di “sicurezza”: una definita dall’abilità di proteggere noi stessi e gli altri intorno a noi, di fronte a un’infezione virale, riparandoli anche dalle conseguenze di un arresto sociale ed economico. Una reale sicurezza significa sfidare la logica dello Stato e del capitalismo, che continua a creare e rafforzare un accesso disuguale alle risorse, anche nel mezzo di una crisi globale della salute pubblica.

Il compito di creare una sicurezza reale, dal basso, dovrebbe essere assunto come sfida dalle innumerevoli reti di mutuo aiuto che sono nate nel mondo. Oltre ad effettuare viaggi per la spesa a domicilio e ad avere un’attenzione quotidiana per i più vulnerabili, il mutuo aiuto dovrebbe anche occuparsi di supportare gli scioperi per gli affitti, evitare gli sfratti e dare vita a una comunità di cooperative alimentari.

Per sviluppare queste forme di resistenza, dovremmo rifarci a quelle comunità che si auto-organizzano nelle situazioni più pericolose e difficili in giro per il mondo. Per esempio, i campi rifugiati autonomi dei curdi, come Maxmur nel Kurdistan iracheno, e Lavrio in Grecia, che seguono un modello di democrazia diretta di auto-organizzazione portato avanti dalle donne e progettato per creare un’economia condivisa insieme a pratiche ecologiche.

Possiamo anche guardare alle forme di mutuo aiuto collettivo di Common Ground, un collettivo che ha fornito assistenza a centinaia di migliaia di persone in Louisiana, in seguito all’uragano Katrina del 2005. Oppure, nel profondo sud degli Stati Uniti, una rete emergente di cooperative, di nome Cooperation Jackson, sta ora mettendo al lavoro tutta la propria capacità produttiva comunitaria (incluse stampanti 3d) nella produzione e distribuzione di mascherine sanitarie, in questo momento estremamente necessarie. Eppure, anche per questi gruppi collettivi, il COVID-19 rappresenta un’enorme minaccia. A Maxmur, infatti, rimane ancora in vigore un embargo imposto nel 2019, con la scusa della sicurezza nazionale, che impedisce le consegne di medicine e altri beni essenziali.

Di fronte a guerre, disastri naturali e oppressioni sistemiche, queste forme differenti di auto-organizzazione e mutuo aiuto condividono un impegno: di costruire un’organizzazione a lungo termine all’interno delle comunità. In questo modo, creano sicurezza non per gli Stati e per chi obbedisce ad essi, ma per gli esseri umani e le nostre comunità.

Lo Stato vorrebbe trasformare volentieri i nostri tentativi di mutuo aiuto in forme di carità temporanea: riparando così gli enormi buchi lasciati dall’austerità e il neoliberalismo, scomparendo poi una volta che la crisi sia passata. Ma se invece le nostre forme di aiuto reciproco vogliono sopravvivere, dobbiamo seguire le orme di chi ha passato decenni a costruire forme alternative di sicurezza. Dobbiamo agire contro e oltre lo Stato, rifiutando quest’imposizione di “sicurezza” che in definitiva non protegge le persone, ma alla lunga nemmeno lo Stato stesso.

Ciò che ci viene offerto, attraverso sorveglianza e misure protettive di esclusione, è un ulteriore radicamento di uno status quo ingiusto. Ma i nostri tentativi di aiuto reciproco e la nostra solidarietà nei confronti delle persone intorno a noi – specialmente quelle persone le cui vite sono viste dallo Stato come “a perdere” – rimangono davvero la nostra possibilità e speranza per costruire un mondo in cui valga la pena di vivere. Questo significa una sicurezza reale e duratura – per ognuno di noi.


Iida Käyhkö è un’archeologa e antropologa la cui ricerca di dottorato esamina il ruolo degli oggetti e dei mondi digitali nei processi di homemaking per i rifugiati curdi. Ha un interesse particolare per il modo in cui le comunità usano il patrimonio condiviso per creare un senso di sicurezza. Lavora presso l’Information Security Group della Royal Holloway, Università di Londra.


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Laura Schack è una dottoranda in Politica e Sicurezza delle informazioni. La sua ricerca si concentra sulla criminalizzazione della società civile nei confronti dei migranti nell’ambito della crisi europea dei rifugiati. Lavora presso l’Information Security Group della Royal Holloway, Università di Londra.


2 Aprile 2020, ROAR Magazine

Traduzione di Andrea Zenoni per il Centro Studi Sereno Regis

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