«Quantos mais vão precisar morrer para que essa guerra acabe?» Un ricordo di Marielle Franco | Benedetta Pisani

Photo by Nayani Teixeira on Unsplash

Accadde tutto molto rapidamente. Era una calda sera di un’estate tropicale a Rio e, dopo aver partecipato a un intenso dibattito sulla violenza contro le donne nere, durante una riunione del Consiglio Comunale, Marielle non vedeva l’ora di tornare a casa, da Monica.

Era in macchina, accompagnata dal suo autista, Anderson Gomes, e dalla sua collaboratrice, l’unica sopravvissuta all’agguato.

In pochi gelidi secondi, la polvere da sparo svaniva e portava con sé la vita di Marielle, tentando invano di inghiottire anche la sua identità, testimone diretta della costante battaglia contro un sistema multi-oppressivo, che macchia il paese di razzismo, fondamentalismo e omofobia.

Marielle Franco amava la giustizia, le donne e i suoi capelli afro. Liberi e selvaggi.

Morbida arma di difesa contro il canone di bellezza delle brancas e la sottomissione sociale delle negras. Voluminoso air-bag, che più è gonfio, più funziona. Un simbolo della sua immagine “socialmente scomoda” di donna nera, nata in una favela, attivista anti-razzista, femminista e bisessuale.

Il Brasile di Marielle è un prisma dalle molteplici sfaccettature socio-cromatiche.

La distinzione razziale tra blanco, negro, amarillo, indijeno e pardo (color “grigio-marrone”, per indicare il meticciato etnico carioca), va di pari passo con quella razzista, di genere e classista, con il risultato che a sfumature dell’incarnato gradualmente più scure, corrispondono maggiore marginalizzazione socio-economica e destini sempre più severamente segnati. Soprattutto se a essere nera e povera è una donna.

Marielle trascorre la sua vita nella favela in cui è nata, il Complêxo da Maré . Una delle più fantasmatiche di Rio. Di quelle abitate da donne e uomini, spesso privi di documenti e, quindi, invisibili agli occhi dello Stato. Uno Stato razzista, Lgbt-fobico e maschilista, che considera quello etero-normato l’unico sistema di norme comportamentali e aspettative sociali valido di legittimazione.

Nonostante l’innegabile problematicità delle favelas, è tuttavia socialmente dannoso, oltre a essere culturalmente controproducente, stereotiparne l’immagine.

Le ultra-popolose città brasiliane, disadornate da baracche malmesse e scalcinate abitazioni di mattoni, sono una realtà complessa, ricca di memoria, identità e progettazione. Incubatrice e culla di idee, musica, movimenti artistici e organizzazioni socio-culturali.

La volontà di far emergere il potenziale creativo di Marè, timorosamente nascosto all’ombra degli abusi della polizia e delle esecuzioni extragiudiziali, ha dato vita ad associazioni locali e progetti strutturati e strutturanti, nati dal basso per realizzare il cambiamento. Nati da un vissuto comune di frustrazione demoralizzante e pulsante desiderio, di sofferenza repressa e gioiosa allegria a suon di funk.

Tra queste associazioni, la ONG Redes da Marè, ha avuto un ruolo chiave nel processo di emancipazione e riscatto di Marielle, offrendole una preparazione completa e gratuita per poter superare i test di ammissione all’Università Pontificia Cattolica di Rio de Janeiro.

Ed è proprio alla Redes che Marielle tornerà, una volta completati gli studi, per portare avanti con fermezza e consapevolezza una battaglia sociale e civile. Una battaglia olistica contro tutte le disuguaglianze, nessuna esclusa. E intersezionale, vivacemente rappresentata dal suo stesso corpo, tavolozza macchiata dalle molteplici sfumature della marginalità istituzionale: classista, razziale, di genere e di orientamento sessuale.

Marielle è una donna, nera, povera, cattolica e bisessuale, in un Brasile profondamente spirituale, quasi sciamanico, dove l’omosessualità (soprattutto quella femminile) è considerata una minacciosa devianza.

Il tabù religioso si fonde con la visione estremamente patriarcale di una società dominata dalla paura che le donne possano non aver bisogno dell’uomo. Una verità inaccettabile, necessariamente da correggere. E nel Brasile di Marielle, lo si fa ricorrendo alla violenta pratica dello stupro sistematico di massa, nella convinzione che le donne lesbiche siano così perché non hanno mai avuto un incontro sessuale con un “vero maschio”.

Quando la religiosità ha un potente ruolo educativo e confonde i suoi confini con quelli di un più antico portato tribale, è difficile preservare la propria identità (e integrità) sessuale, dichiarandosi atee. Monica e Marielle hanno, infatti, dovuto negoziare a lungo con la loro fede, per sentirsi spiritualmente, socialmente e politicamente incluse in una realtà in cui  Dio non è mai messo in discussione. Senza però dover mettere in discussione il loro amore e la loro stessa esistenza.

La lotta per la giustizia che sto portando avanti non è solo per la mia donna, ma per liberare tutte le donne.

Mônica Benício

Marielle aveva 38 anni quando è stata assassinata nel quartiere Estacio di Rio de Janeiro la notte tra il 14 e il 15 marzo 2018.

“Un colpo allo stato democratico di diritto”, il suo omicidio è un’ulteriore spietata dimostrazione dei pericoli a cui i difensori dei diritti umani sono costantemente esposti, in Brasile e nel mondo.

L’oscurità in cui è stato consapevolmente abbandonato il caso di Marielle costituisce un drammatico esempio di escalation della spirale di violenza, pericolosamente alimentata da parole d’odio e intimidazioni, complotti e pedinamenti e culminata in azioni di brutale aggressività e in-azioni di oltraggiosa negligenza.

Illustrazione di Margherita Caretta

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