Iraq: quando la politica ci capirà? | Benedetta Pisani

Martedì 17 dicembre, il Centro Studi Sereno Regis ha aperto le porte alla ONG Un Ponte Per…, un’associazione per la solidarietà internazionale, nata nel 1991, con lo scopo di promuovere pace, diritti umani e iniziative di solidarietà tra i popoli attraverso campagne di informazione, scambi culturali, progetti di cooperazione, programmi di peace-building e azioni di rafforzamento delle capacità organizzative, strutturali e partecipative delle società civili con cui entra in contatto.

Per realizzare concretamente questo impegno, UPP ha invitato Faisal Jeber, attivista per i diritti umani e archeologo iracheno, e Marta Bellingreri, ricercatrice e giornalista indipendente, per raccontare della rivolta non violenta che, ormai da quasi tre mesi, sta mobilitando la popolazione, coinvolgendo soprattutto i giovanissimi, “la generazione dei sogni rubati”.

Sono migliaia, le donne e gli uomini in piazza, orgogliosi di diffondere lo slogan di questa rivoluzione, “We Want A Homeland” e desiderosi di porre fine al sistema di corruzione e settarismo che, a partire dall’invasione statunitense del 2003, macchia il governo iracheno.

Sono migliaia le persone estenuate dalle guerre e stanche di tacere di fronte alle massicce violazioni dei diritti umani che inevitabilmente ne fanno seguito.

Dal 2003 al 2019, si è registrata infatti una costante degenerazione del sistema democratico, la percentuale di votanti si è ridotta notevolmente e la disoccupazione ha raggiunto livelli indecenti (più del 30%), in un paese potenzialmente molto ricco (quinto maggiore produttore di petrolio al mondo) e con una popolazione molto giovane (il 60% ha meno di 25 anni).

Tutto questo è causato dall’inesistente redistribuzione della ricchezza e dal suo scorretto utilizzo, finalizzato non a costruire e innovare le infrastrutture, che risultano quindi carenti e inadeguate, bensì a nutrire i famelici mercati internazionali e il sistema di coercizione su cui si basa il governo interno.

Quando è stato “eletto”, nell’ottobre del 2018, il primo ministro Abdul Mahdi aveva promesso di impegnarsi affinché l’Iraq diventasse finalmente un Paese libero.

Dopo un anno di governo, le promesse infrante hanno dato inizio alla “rivoluzione d’ottobre”, una protesta senza precedenti.

“The main difference between this demonstration and the previous ones is that the former has no leadership, which is its strength”.

Così esordisce Faisal Jeber, che ha preso parte alla rivolta in piazza Tahrir e alle precedenti  manifestazioni contro gli atti di terrore diffuso che, da troppi anni, minacciano il patrimonio culturale iracheno.

Sono principalmente due i punti di forza di questa rivoluzione: la maggiore attenzione mediatica da parte dei paesi occidentali, dovuta alla convergenza di interessi tra Stati Uniti e Iraq, i quali individuano nell’Iran un nemico comune; e l’assenza di una figura rappresentativa che può, però, costituire un’arma a doppio taglio.

Non avere un leader, infatti, rende senz’altro più difficili eventuali negoziazioni.

All’incontro con i funzionari del gabinetto governativo del 5 ottobre, ad esempio, i cittadini in rivolta avrebbero voluto che il discorso fosse trasmesso in onda, ma il primo ministro e il presidente, pur avendo affermato di voler venire incontro alle necessità espresse dal popolo, non hanno accolto la richiesta, consentendo di mostrare in televisione solo i primi 30 minuti più pacati di un meeting della durata di tre ore e mezza.

Tuttavia, non riconoscere in nessun individuo alcun tipo di potere rappresentativo rafforza la solidarietà e la compattezza tra i manifestanti, e non offre al governo un obiettivo preciso, con tanto di nome e cognome, da poter intimidire ed eventualmente eliminare.

Questo tipo di movimento, che mai potrà evolvere in qualcosa di politicamente più vicino ad un partito, dimostra che il vero obiettivo della rivoluzione non è “eleggere” un nuovo primo ministro, ma, far sì che il Parlamento approvi una nuova legge elettorale, realmente democratica, e poi si dissolva.

“When will you get to understand us, you political parties?”

Così recita lo slogan delle manifestazioni femministe, che hanno avuto luogo ieri a Kut e a Bassora, nel sud del’Iraq, dove centinaia di donne hanno dimostrato, ancora una volta, di giocare un ruolo fondamentale, troppo spesso sottovalutato.

I conflitti che affliggono queste aeree hanno portato, infatti, alla radicalizzazione dei prevalenti ruoli di genere, basati su una divisione del lavoro che attribuisce agli uomini una serie di compiti relativi alla sfera sociale e collettiva, tra cui proteggere la famiglia e combattere in guerra, e alle donne responsabilità circoscritte all’ambito domestico, come la cura della casa e dei figli.

Tuttavia, in contesti di guerra, la realtà è ben distante dagli stereotipi.

E, mentre il coinvolgimento delle donne nei processi decisionali della comunità ne risulta rafforzato, gli uomini si trovano a dover affrontare considerevoli ostacoli per reggere le aspettative e mantenere il loro ruolo di providers.

Le aspettative non soddisfatte portano a strutturare uno stile di pensiero negativo nei confronti di sé stessi e degli altri.
Quando alimentato da sentimenti di rabbia e frustrazione, il pensiero, poi, (d)evolve in azione e culmina in atti di violenza contro il partner, al fine di riaffermare la propria mascolinità.

Le aggressioni domestiche, quindi, dimostrano di essere un’ulteriore espressione del conflitto armato che, se sottovalutate e non adeguatamente affrontate, rischiano di alimentare la spirale di violenza, dalla quale l’Iraq e altre regioni del globo, sono state brutalmente risucchiate.

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