Il mercato e le «sacre leggi» dell’economia | Claudio Belloni

Risposta a Tommaso, cristiano e neoliberista

Caro Tommaso,

sono passati ormai un po’ di giorni, ma non dimentico la mia prima reazione di fronte alla lettera che mi hai inviato in merito alla discussione che stiamo portando avanti da un po’ di tempo: smarrimento e dolore. Tu quoque! Un altro amico che dice queste cose.

Sono andato avanti anni a pensare che tra noi ci fosse qualche piccola differenza, ma che fossimo uniti se non nella condanna almeno nella critica del sistema capitalistico, alla luce di ideali e regole di vita ritenuti superiori. Pensavo che un cristiano come te, che ha vissuto l’epoca d’oro del Concilio, del cattolicesimo impegnato, dei preti operai, delle comunità di base non potesse che stare da quella parte, senza dubbi di sorta. Di solito uso categorie un po’ più sfumate, ma in questo manicheismo mi ispiro a un grande del passato che autorizza a pensare che non si possa servire Dio e Mammona. Un autentico servizio divino non è mai scontato e l’asservimento idolatrico è sempre subdolo, lo so, dunque ci sarebbe comunque molto da discutere; ma almeno l’orientamento di fondo…

La questione è solo tecnicamente economica, perché i risvolti di questa discussione gettano una luce sul senso complessivo dello stare al mondo, sulle priorità dei valori, sulla qualità della speranza di cui siamo capaci, persino sulla possibilità di pensare una vita umana sulla Terra fra un secolo o due. A me questi «risvolti» interessano sopra ogni cosa, perché ritengo che muovendo da presupposti capitalistici e neoliberisti tutto ciò risulti compromesso in partenza. Sperando di sbagliare, visto come stanno le cose.

Dove so di non sbagliare è a proposito della mia incompetenza economica. So di non sapere. Leggo, ascolto, ogni tanto studio persino qualcosina, ma più si entra nelle tecnicalità (termine orribile, ma lo uso apposta) dell’economia più perdo sicurezza. Chiunque abbia pratica di queste cose mi può tranquillamente mettere in scacco.

Ma la cosa fondamentale, almeno per me, è chiarissima e non è certo una legge o un tecnicismo dell’economia, anzi: l’economia deve essere governata politicamente, altrimenti il sistema capitalistico lasciato libero ci porterà alla rovina. Il sistema è miope, guarda all’utile e al profitto immediato e non si cura delle conseguenze esterne e future. Se non si ribelleranno prima milioni di poveri mettendo a ferro e fuoco il pianeta, sarà il pianeta stesso a non tollerare più ciò che il sistema sta facendo. Sì, lo so, me l’hai detto: anch’io sono il sistema. Ma questa obiezione, abbi pazienza, è solo retorica di bassa lega, per sprofondare tutti nelle stesse sabbie mobili, perché sposta in un vicolo cieco il problema; e comunque non basta ciò che posso fare io, nemmeno insieme a tutti gli altri io. Posso tenere una temperatura bassina d’inverno e caldina d’estate, ma anche se lo facessimo tutti, questo e altro, in 7 miliardi di umani, saremmo comunque spacciati sui tempi lunghi. Ci vuole un’iniziativa politica mondiale talmente urgente da essere già in ritardo. Tuttavia, gli interessi economici di individui, popoli, Stati vanno quasi tutti in direzione ostinata e contraria. Se lasceremo sfogare gli istinti del capitalismo e non avremo altro Dio al di fuori di lui, se onoreremo i dogmi della legge della domanda e dell’offerta e del pagamento dei debiti e tutto il resto della metafisica liberista, la foresta amazzonica sarà violentata sempre di più; gas, carbone e petrolio verranno bruciati come e più di prima; le immense quantità di metano imprigionate dal freddo nelle tundre del nord del pianeta continueranno a liberarsi come già stanno facendo. Beati noi vecchi che non vedremo.

Come poi si possa governare l’economia, e con quale politica, è un problema immenso che non pretendo certo di risolvere io; ma qui siamo fermi a molto prima, perché mi sembra di capire che, a tuo avviso, la sola idea di governare le sacre leggi dell’economia sia considerato un pensiero ignorante, eretico, aberrante. Forse qualcuno ha ancora paura dello statalismo stalinista, ma la paura di uno spettro non mi sembra un buon motivo per restare impietriti a osservare la rovina del pianeta.

Questo in sintesi, solo come premessa, ma veniamo a noi.

In effetti, Tommaso, la nostra piccola discussione è viziata da un equivoco, ma non penso si tratti del significato della parola «legge», sul quale mi trovi d’accordo. Secondo me si tratta di prospettiva generale, anzi, se si potesse dire, metagenerale; cioè di una prospettiva che prova a andare oltre il dato, a cambiare l’inclinazione dello sguardo per cercare di estendere i limiti del visibile oltre il campo di esistenza stabilito.

All’interno delle coordinate economiche in cui poni il tuo discorso non posso che essere d’accordo con te. Come se a un tavolo di bridge mi volessi convincere delle regole del gioco. Va bene, ma perché devo giocare a questo gioco? Il capitalismo in effetti non è un gioco e nessuno decide di giocare o meno, ma ciò non toglie che pur prigioniero e incatenato al tavolo e alla sedia io cerchi di pensare un’alternativa. Fuor di metafora, il mio problema è che io non riconosco quasi mai la legittimità e/o la necessità dei paletti e dei vincoli che tu riconosci. Già qui – con il termine «riconosci» – penso di aver stravolto il tuo discorso, perché immagino tu dia per scontato che tali vincoli e paletti siano «tali», non certo «riconosciuti». Se fossero solo «riconosciuti» potrebbero logicamente essere anche «disconosciuti», invece tu vuoi proprio dire che non si possono disconoscere, mentre io cerco di farlo lo stesso. Qui sta il punto.

Provo a spiegarmi. Per quanto riguarda la legge in senso 1, quella che tu definisci in modo sintetico: «Una norma emanata da un’autorità».

Ovvio: è un bene rispettare le leggi; meglio ancora chiedersene il senso e l’opportunità, perché la consapevolezza storica e la coscienza morale dovrebbero averci ormai insegnato che talvolta le leggi sono ingiuste. Potendo, si cerca di cambiarle; non potendo, ciascuno fa quello che può a seconda del grado di sviluppo umano conseguito, della dotazione di coraggio e dei rapporti umani di cui dispone: ci si può entusiasmare per leggi ingiuste (magari denunciando il vicino ebreo, oppure oggi cominciando a comprare una pistola, non si sa mai che qualcuno entri in casa), ci si può adattare in silenzio, ci si può ribellare di nascosto, ci si può esporre.

Sulla legge in senso 2, quella che tu definisci: «Una situazione ricorrente nei fatti e di solito descrivibile in linguaggio matematico».

Qui mi vuoi proprio mettere con le spalle al muro, mi sa. Claudio, non vorrai disobbedire alla legge in questa accezione, puoi forse sfuggire alla gravitazione universale? Certo che no, ovvio. Però oso persino pensare che non sia giusto che un corpo umano in caduta libera acceleri a 9,81 ms2, perché anche 9,81 può essere troppo. Ovvietà per ovvietà, meglio cadere da un aereo con un paracadute che senza. La legge della caduta dei gravi non la modifichi, ma la si può in qualche modo governare, controllare. Nemmeno le leggi fisiche vanno accettate passivamente con rassegnazione. Millenni di genio umano e ingegneria insegnano che le stesse forze possono essere comprese, utilizzate, incanalate, attenuate, sfruttate, neutralizzate.

La Costituzione, da cui è partita la nostra discussione, è sicuramente una norma di tipo 1, ma non solo. Non è semplicemente «emanata da un’autorità»: è posta in modo tale e allo scopo di stare sopra quella stessa autorità che la pone e sopra qualunque altra autorità. Il senso di quella legge è dividere, indebolire, neutralizzare il potere del sovrano, perché non ci sia mai più un sovrano. Così è nata e cresciuta l’idea, perlomeno dal tempo della Magna Charta in poi. Allora i baroni, oggi i cittadini, sono garantiti nella loro dignità da qualunque eccesso del potere sovrano. Il potere è pericoloso e tende a varcare i limiti. Lo sappiamo, non dobbiamo dimenticarlo, e bisogna impedirglielo, innanzitutto indebolendolo e, se necessario, mettendo i poteri di risulta uno contro l’altro. Per esempio, se da qualche decennio i magistrati italiani osano inquisire anche governanti e parlamentari, vuol dire che finalmente sta entrando in vigore la divisione dei poteri anche in Italia. Prima non succedeva mai.

La Costituzione dovrebbe stare sopra qualunque altro potere, compreso quello economico. Nella nostra Costituzione unicamente la persona è «inviolabile», la proprietà è solo «riconosciuta e garantita». Vuol dire che la persona umana è (dovrebbe essere) più importante della proprietà. Certo, la Costituzione è una legge storica (né divina, né eterna) ed è condizionata da una sapienza particolare che ritiene che l’essere umano, la persona, il cittadino, chiamalo come vuoi, sia più importante delle ricchezze, dei contratti, dei profitti, della restituzione dei debiti, dei patrimoni personali, dei redditi onestamente guadagnati (figurarsi di quelli disonesti!). Meglio garantire «anche» queste cose, ci mancherebbe, ma dovendo proprio scegliere la Costituzione stabilisce una diversa priorità.

Il condizionamento storico di quest’idea è di impronta cristiana, socialista, a tratti persino liberale. Ovviamente non tutti erano d’accordo con questa impostazione nel 1947 e nel 2016 non ricordo quale autorevole voce della finanza internazionale osservava sommessamente che c’erano alcune rigidità inopportune in questo testo. Il fatto che da «lassù» si scomodino a suggerire una revisione costituzionale in Italia è la testimonianza più chiara del fatto che non si tratta proprio di due dimensioni così distinte, non ti pare?

Ma veniamo al punto, tu scrivi che l’economia è «roba con aree e paletti ben definiti, quasi come le leggi fisiche». Guarda, vedrò di perdonarti solo perché hai scritto «quasi».

1) L’economia come disciplina non è certo una scienza nel senso «duro» della fisica. Senza contare che anche la fisica sta progressivamente rinunciando a molte delle sue «certezze» di un tempo e spesso preferisce parlare di «probabilità». Al massimo possiamo riconoscere all’economia lo statuto di scienza umana, sociale, o altre definizioni che la mettano insieme a tutti quei tentativi più o meno approssimativi di indagare l’umano con criteri il più rigorosi possibile. A me per esempio fa ridere che uno scienziato vinca il Nobel per l’economia perché scopre che il comportamento umano in ambito economico non è completamente razionale. Ma va? Certo che se parti dal presupposto dell’homo oeconomicus – cioè di un agente (che non è già più un «uomo») che fa le sue scelte in base alla ragione – devi prima pensare che l’homo sia razionale e poi devi scoprire che nella realtà non lo è. Ma allora sei un bigolo, non uno scienziato. E se ti vengono dietro legioni di economisti classici, preoccupiamoci anche per l’economia classica. C’è una battuta, cattiva, secondo la quale gli economisti passano metà del loro tempo a fare previsioni e l’altra metà a spiegare perché erano sbagliate.

Sto facendo una caricatura, lo so, ma forse nemmeno troppo. Fatte le debite considerazioni, non mi puoi parlare dell’economia come di una disciplina «quasi come la fisica». Altrimenti ci sarebbe un certo consenso tra gli economisti. E non parlo del consenso dovuto al fatto che il neoliberismo ha occupato quasi tutte le cattedre universitarie, i giornali mainstream e gli apparati di governo, emarginando marxisti, keynesiani e altre specie rare. In fisica ci sarà anche discussione, ma sui fondamenti non ci sono discussioni. In economia sì, proprio perché non è una scienza come la fisica.

2) L’economia come realtà non è certo una scienza, ma, appunto, una realtà; una realtà complessa fatta di un intreccio di produzione, scambio e consumo da comprendere non in astratto ma nel contesto sociale e storico in cui le cose avvengono. Comprendere l’economia reale è importante non per sfruttare al meglio le risorse (quelle umane comprese), ma per poterla governare, e governare con criteri in ultima istanza non economici: criteri politici orientati al bene di tutti e non criteri economici orientati al profitto di ciascuno – o, peggio, di qualcuno. Quanto governarla e in che modo dipende dai «gusti», dalle teorie economiche, etiche, religiose, e via dicendo. Non ho soluzioni magiche, ma pretendere che nessuno regolamenti l’economia a mio modo di vedere è semplicemente criminale. Mi limito a un solo esempio che vale per tutti: intorno al 1847, aspettando le mani invisibili e cercando di non turbare il sacro diritto del mercato di fare profitti senza turbare la legge-paletto, come scrivi tu, della domanda e dell’offerta, hanno lasciato morire un milione di irlandesi. Non mi puoi dire che va bene così, non ci posso credere. Se anche si trattasse di un paletto, è un paletto che va rimosso. Se la vicenda non ti fosse nota, provo a riassumertela con questo passo:

«[…] Una visita a questo museo è assai utile per rendersi conto del paradosso di crudeltà cui l’opulenta Inghilterra Vittoriana sottopose gli irlandesi, all’epoca sudditi della Corona a tutti gli effetti in seguito all’Unione dei due parlamenti. Ispirandosi ai principi del liberismo ortodosso della scuola di Manchester, i governanti inglesi si rifiutarono infatti di mandare aiuti e considerarono la carestia come un’occasione fornita dalla Provvidenza per mettere fine alla sovrappopolazione e all’arcaico sistema agrario dell’Irlanda. L’eloquenza dei numeri riportati dal materiale in mostra a Strokestown fanno capire bene il dato più terribile di tutti, e cioè che mentre centinaia di migliaia di persone morivano di fame, l’Irlanda esportava tonnellate di generi alimentari verso l’Inghilterra e la Scozia. Spulciando i registri si apprende per esempio che durante il Black ’47, l’anno peggiore della Carestia, oltre quattromila navi cariche di grano, farina, cereali, uova e carne lasciarono l’isola con direzione Bristol, Glasgow, Liverpool e Londra» (cfr. http://www.avvenire.it/agora/pagine/fame-).

Torniamo più vicino nel tempo e nello spazio: è giusto, mi chiedi nella tua lettera, il prezzo di mercato del latte prodotto dai pastori sardi? Non ne ho idea, ma prima di dire che devono rassegnarsi, se avessi voce in capitolo cercherei di capire. Prima di accettare, vorrei almeno provare a pensare. A proposito del mercato del latte passiamo alla Lombardia, che è la regione che conosco meglio. Guarda questo grafico:

Fonte del grafico: http://www.clal.it/?section=confronto_stalla_consumo

Va tutto bene a tuo parere? Mi ostino a dire di no. Che poi io non sia in grado di dare soluzioni non toglie il problema. Io faccio lo sforzo di pensare filosoficamente, non sono un economista o un politico. Ma la mia intelligenza si rifiuta di chiudere il discorso e dire ai pastori sardi, agli allevatori lombardi e ai raccoglitori di pomodori senegalesi in Puglia: «questo è il mercato, bellezza». Se ti rifiuti, lavorerà un altro più povero di te.

Chiediamo al nostro comune amico Mario, che ha a cuore l’Africa, se i contratti sono da considerare paletti. Se un’azienda firma un contratto ci sta bene solo perché è stato firmato? Dalla firma in poi va rispettato? Come un dato di fatto? Non ci interessa capire il contesto e le modalità? Magari un paperone illuminato e magnanimo vuole investire un sacco di soldi in Africa per aiutare i poveri. Può essere, perché no? Però può anche succedere che una multinazionale strappi un contratto di estrazione in Congo approfittando della sua forza e della corruzione dei politici locali, e che la cosa si tramuti in uno sfruttamento bestiale – e legalissimo – per centinaia di persone costrette a mettersi «liberamente» sul mercato offrendo «liberamente» il proprio «libero» lavoro. Magari li obbliga la fame, ma queste sono variabili che escono dalle aree strettamente economiche, non è così?

Ma di quale economia? Quella di libero mercato, ovvio, perché invece quell’innominabile di Marx, che pure un po’ di economia l’aveva studiata, già 150 anni fa diceva che una moltitudine di contadini espulsi dalle campagne, vagabondi, mendicanti, disoccupati, disperati, insomma i poveri inglesi hanno contribuito in misura essenziale alla rivoluzione industriale. Ci vuole sempre un esercito industriale di riserva. I poveri e i disoccupati sono utilissimi nell’economia reale; per questo l’economia disciplina è chiamata a trovare giustificazioni eufemistiche per lo sfruttamento dei poveri. In certe formule economiche alcune variabili non sono nemmeno considerate: benessere dei lavoratori, salute dell’ambiente, ecc. Si chiamano non a caso «esternalità»: sono cose da non tenere in conto, da considerare fuori.

Caro mio, o questa è ideologia o io sono un complottista dietrologo; tertium non datur.

Anche il mercato finanziario è un mercato. Quindi è giusto rispettare i contratti, pagare i debiti, ecc. Ci mancherebbe. Ma non la farei così facile come la fai tu: «il tremendo giudizio dei mercati» – come ironizzi tu – non è «semplicemente la manifestazione di una volontà collettiva a vendere/comprare titoli di credito».

Dobbiamo considerare anche i rapporti di forza e consapevolezza in cui i liberi contratti sono siglati. Lo sappiamo tutti come è stato fatto il debito con i paesi ex coloniali. Lasciamo stare il caso italiano che è un problema autoctono. Conosci, ad esempio, il libro di John Perkins Confessioni di un sicario dell’economia? Perché chi li presta ha tanta voglia di prestarli i suoi soldi? Sull’altro versante: dal bancario o dall’usuraio si va liberamente a chiedere prestiti? Sicuramente dietro c’è un bisogno, se non un dramma. Chi ha bisogno è sempre debole, non dimentichiamolo.

Persino con gli investimenti «sicuri» in banca abbiamo visto succedere di tutto in questi anni.

Al di là dei fenomeni più o meno patologici, esiste sempre una sproporzione tra la conoscenza dell’offerente e l’ignoranza di chi riceve l’offerta. Sulla fiducia hanno imbrogliato un sacco di persone. Per quanto mi riguarda a molti di questi turlupinati la farei pagare veramente, col bail in. A me, che non capisco nulla di investimenti, lo hanno spiegato da piccolo, leggendomi Pinocchio, che i soldini non crescono nella terra e che se qualcuno ti promette miracoli devi stare molto attento. Se ci credi è perché ci vuoi credere, e se ti fidi: chi è causa del suo mal… Personalmente diffido di chi ti propone di arricchirti.

Concludendo questa lunga lettera riprendo la questione posta all’inizio.

Il vero discrimine, secondo me, sta nell’accettare o meno ciò che ci si presenta come una necessità inaggirabile. Nulla di ciò che è prodotto dall’uomo (anche leggi, norme, accordi, contratti, privilegi, ecc.) è una necessità inaggirabile. Le sedicenti scienze come l’economia pretendono di assumere le cose «così come esse sono», e questa magica formuletta implica non a caso il tatcheriano TINA (There is no alternative). Tradotto in italiano e enunciato prevalentemente con una certa qual soddisfazione: o mangiare questa minestra o…

Il mito realistico delle «cose così come esse sono» (a prescindere dal tempo e dalla storia) in filosofia si chiama materialismo, e non piaceva nemmeno a Marx. Esso dimentica che le cose umane sono come sono perché lo sono diventate e qualcuno le ha prodotte. La cosa è un prodotto, dunque ha dei produttori, dei padri e delle madri, e si trova in una fase di un processo, dunque avrebbe potuto essere anche diversa e diversa potrà essere in futuro.

Con altre chiavi di lettura, bibliche per esempio: produrre una cosa, mettersela davanti, darle valore, un valore incondizionato, al di là del tempo, assolutizzarla, farne un principio cui sottomettersi… tutta questa roba gli antichi ebrei la chiamavano idolatria.

Un caro abbraccio

Claudio

1 commento
  1. ROSA DALMIGLIO
    ROSA DALMIGLIO dice:

    Questa è la più bella lettera che abbia letto sull'ECONOMIA
    mi ricorda il mio primo viaggio in CINA-1996 e la visita al mio amico Direttore Generale del Commercio, ero ospite del Direttore dell'AGENZIA XINHUA, tema le FAKE NEWS sulla CINA, io curavo le Pubbliche Relazioni dell'Agenzia, ma avevo lavorato in ITALIA con il Direttore Generale del Commercio ora lo ritrovavo al comando dell'Economia a Pechino,sono stata ricevuta come amica ma alle mie congratulazioni, mi rispose che il suo era solo un potere ECONOMICO, in 3 mesi aveva visitato 30 Paesi ed i suoi interlocutori erano Ministri, qualche volta Vici-Ministri, mi diede una foto ricordo dell'incontro con l'Avv. Agnelli e Romiti.da consegnare.
    Era l'inizio della Riforma Cinese,lo SLOGAN era lo stesso Caro Claudio "GOVERNARE CON CRITERI POLITICI ORIENTATI AL BENE DI TUTTI

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