Coscienza che discerne e decide: formare alla teologia della pace | Paolo Asolan

CICLO DI STUDI ALLA LATERANENSE

Non si dà discernimento, né opera di pace, senza un tirocinio diligente e costante, senza la coltivazione attenta e il progressivo sviluppo degli atteggiamenti e dei requisiti adeguati, che non si possono considerare in alcun modo scontati né mai definitivamente acquisiti

Sarebbe facile svolgere il tema della pace risolvendolo magari in un elenco di esortazioni (pratiche) all’agire pacifico  ad intra ad extra Ecclesiae, o in una fondazione della pastorale ecclesiale in senso “pacifista”, che ponga cioè la costruzione della pace non solo quale carattere ma addirittura quale obiettivo ultimo della pastorale stessa, cioè quale specifico contributo dei cristiani alla vita delle società e dei mondi nei quali sono essi stessi innervati. E si tratterebbe comunque di un contributo urgente, forse anche necessario, ai fini dell’edificazione e della missione della Chiesa. Forse, però, il tema ha bisogno di meglio allargarsi e precisarsi, specialmente in prospettiva teologico-pastorale, e senza che un tale ampliamento escluda le implicazioni appena suaccennate.

Affermando che «Egli è la nostra pace» (Ef 2,14), l’apostolo sottrae la pace a una comprensione impersonale, formale o procedurale e ne indirizza piuttosto la comprensione  in Cristo.

Tale pace non si costruisce senza conflitti, ma è essa stessa causa di conflitto. Per questo, paradossalmente, Gesù può dichiarare:  «Non pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare una pace, ma una spada» (Mt 10,34).

La  spada che Gesù è venuto a portare non serve per uccidere («Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno»,  Mt 26,52) quanto a discernere la volontà di Dio attraverso la sua parola, «che è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione della vita e dello spirito, delle giunture e delle midolla e sa discernere i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).

Nel Nuovo testamento viene anche altrove attestata la necessità di cogliere  nello Spirito ciò che Egli dice alle Chiese ( Ap 2,7.11.17), cioè le indicazioni necessarie allo sviluppo della vita delle comunità. Quanto da sempre la spiritualità cristiana ha raccomandato sul piano delle scelte personali, va tematizzato e assunto come compito proprio sul piano delle scelte operative e comunitarie, cioè sul piano proprio della pastorale ecclesiale. In un certo senso, l’istanza e la pratica del discernimento assurge a  cifra sintetica dell’azione ecclesiale stessa.

Ma che cosa vuol dire fare un discernimento?

Significa rendersi sensibili all’azione dello Spirito nella comunità degli uomini d’oggi, per favorire quelle realtà e processi che appaiono mossi dallo Spirito di Dio, e per smascherare e contrastare quelle realtà e processi culturali che appaiono contrari allo spirito evangelico.

Essendo una lettura cristologica della realtà, sotto l’influsso dello Spirito, il discernimento appare così, fin dall’inizio, strappato all’equivoco di una interpretazione che lo accomuni alla diplomazia, all’umana prudenza o, ancora più in basso, al comune buon senso.

Questo discernimento manifesta sul piano della vita e dell’azione della comunità cristiana la sapienza della croce, cioè dell’evento riconciliatore grazie al quale è stata fatta la pace (cfr.  Ef 2,14-18). Questa  pregnanza cristologica ha carattere di imprescindibilità: senza di essa ogni forma del discernere scadrebbe nella figura inadeguata del giudizio prudenziale umano, in sé apprezzabile, ma non per ciò stesso cristiano: anzi, sempre esposto al rischio (che l’esperienza dimostra tutt’altro che teorico) di degenerare negli equilibrismi del compromesso/artificio diplomatico.  Il discernimento che ha come frutto la pace, dunque, è atto teologale.L’origine e la qualità carismatica del discernimento non diminuisce, ma qualifica ed esalta l’impegno sul piano umano: non si dà discernimento, né opera di pace, senza un tirocinio diligente e costante, senza la coltivazione attenta e il progressivo sviluppo degli atteggiamenti e dei requisiti adeguati, che non si possono considerare in alcun modo scontati né mai definitivamente acquisiti.

Benché si accendano dal di dentro, per tradursi in comportamenti concreti, hanno bisogno della nostra azione, perché Dio rimane Dio e l’uomo rimane uomo, “senza confusione e senza separazione”. L’azione dello Spirito Santo in noi non soffoca né violenta la nostra normale attività psicologica. Questo dinamismo deve passare attraverso la coscientizzazione di una mente che pensa, di una coscienza che discerne e decide, di una volontà che a poco a poco sedimenta un tipo di sapienza e di mentalità che sono tipiche di Cristo. Occorre perciò formare a una vera e propria “teologia della pace”, che sarà una delle discipline caratterizzanti il nuovo Ciclo di Studi in Scienze della Pace attivo dal prossimo anno accademico presso la Pontificia Università Lateranense. Non si tratterà soltanto di una elaborazione astratta della “questione pace” ma di una riflessione creativa, cioè libera e responsabile e storicamente situata.


Paolo Asolan è preside del Pontificio Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” dell’Università Lateranense

Fonte: AgenSIR – venerdì 6 settembre 2019

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