La militanza dei Dalit Panthers nel documentario Sangharsh (La lotta 2018, 104’) di Nicolas Jaoul

Daniela Bezzi

Si è inaugurato il 26 febbraio scorso a Palazzo Nuovo il ciclo di incontri India Invisibile: film, seminari, riflessioni, che fino alle metà di giugno si avvicenderanno in vari luoghi della città di Torino (e il Sereno Regis sarà tra quelli) per raccontare di un India che raramente fa notizia sulle pagine dei giornali, soprattutto quando si tratta delle sue minoranze più svantaggiate, in particolare i dalit (gli intoccabili) e le popolazioni indigene (gli adivasi) negli anni del Grande Boom economico. 

E sarebbe difficile immaginare un’inaugurazione più promettente di questa, che all’ultimo momento ha richiesto addirittura un ’cambio di sala’, dall’Auditorium Quazza alla ben più ariosa Sala Lauree di Scienze Umanistiche al pian terreno di palazzo Nuovo, per poter accogliere anche gli studenti del corso di Antropologia della Complessità – che sommati a quelli già convocati all’interno di altri corsi, e grazie al tam tam attivato dall’Associazione Jarom sui social, hanno assicurato la più calorosa accoglienza a un film indubbiamente impegnativo come questo Sangharsh (La lotta), dell’antropologo/documentarista francese Nicolas Jaoul.

Documentario appunto non facile, frutto di quasi cento ore di interviste, riprese, visual notes raccolti durante un dottorato di ricerca e relativi field work nell’arco di quattro anni, fra il 1997 e il 2001, nelle aree intorno alla città di Kanpur, nello stato dell’Uttar Pradesh, India del Nord, con l’obiettivo di indagare quel movimento che, emulando i Black Panthers americani e richiamandosi alla visione radicale di Ambedkar (storico leader dell’emancipazione dalit e tra i principali redattori, tra l’altro, dell’ottima Costituzione indiana), si affermò dagli anni ’70 in poi come Dalit Panthers e rappresentò appunto l’inizio, per la millenaria storia dell’India, di quella presa di coscienza che ancora oggi prosegue come quotidiana rivendicazione di dignità.

E quasi cento ore di girato che solo l’anno scorso hanno trovato una qualche forma in questi 104 minuti di film, che senz’altro riflettono l’intenzione di full immersion all’interno di questo percorso di emancipazione dalit, senza alcun filtro, in presa diretta: niente voce fuori-campo, nessuna tentazione di protagonismo da parte dell’autore, nessuna tentativo di tradurre il ciò-che-si-vede, che la macchina da presa si limita a registrare, dentro e fuori gli slum, o nelle campagne delle vicinanze, secondo la lezione di cinema verité che era stata di Jean Rouch, di cui Nicolas Jaoul è stato allievo all’Università di Nanterre. 

Nicolas Jaoul

Dopo la proiezione, Jaoul si è trattenuto in dialogo con gli studenti per una serie di riflessioni, in risposta a domande che in effetti richiederebbero ben più di qualche ora. Sintetizziamo qui di seguito qualche appunto. E senz’altro di tutto questo ci sarà occasione di riparlare molto presto, in parallelo alla Mostra Behind the Indian Boom (Dietro le quinte del Boom indiano) che vedremo presta allestita in forma di evento diffuso al CLE e ITCILO, e varie iniziative correlate.

Come mai il montaggio del film ha richiesto tanto tempo? Perché l’idea di volgere in film il mio dottorato di ricerca è nata molto dopo, all’inizio erano solo visual notes funzionali al miglior svolgimento della ricerca, e ben conoscendo il desiderio di protagonismo dei personaggi che avrei incontrato. Io, la mia piccola telecamera e di volta in volta i miei interlocutori, Dhaniram Panther, Akash Badal (della comunità Chamar), Dev Kumar Asur (della comunità dei Valmiki) nel contesto di complessità che si muove intorno a loro.

Il fatto di sapersi intervistati da un antropologo/documentarista francese, sebbene sconosciuto, li ha resi più disponibili, li ha stimolati ad accogliermi all’interno delle loro case, luoghi di riunione, comizi, rendendomi sempre più partecipe delle loro vite. A un certo punto si è manifestato un certo interessa da parte del Canale Tv Arte, ma quando si è trattato di chiudere il progetto in termini di prodotto ho capito che loro volevano il classico travelogue, mentre per me era importante che a parlare fossero solo le situazioni, e che le voci fossero solo quelle dei protagonisti di questa storia – anche per lealtà nei confronti della causa dalit che, fedele alla lezione del leader Ambedkar, non prevede che altri possano parlare a nome dei dalit, è la loro lotta.

E così tutto questo materiale è rimasto a dormire per tutti questi anni, finché l’anno scorso ho deciso di affidarmi alla cura del montatore Jilles Volta, bravissimo. che mi ha aiutato a dare una forma a quell’esperienza, lontana nel tempo ma attuale ancora oggi. Ma non è stato semplice…

Il film mette a fuoco il livello di coscientizzazione anche politica, la personale dedizione di questi attivisti, nella messa in discussone di livelli di oppressione atavica e ormai interiorizzata: ed ecco i raduni, ecco le marce, ecco l’arringare delle folle, ecco persino le elezioni, viste come opportunità e non più solo come farsa (e che per quasi tutti è la prima volta…) E tutto questo nella più grande prossimità con l’apparato culturale dell’indusmo, così emotivamente coinvolgente, con i suo idoli, prove di forza, festival e festività… pressoché impossibile smarcarsi, una sfida enorme aspirare a una qualche forma di egemonia, in senso gramsciano, per qualsiasi comunità oppressa, in India – solo perché oppressa.

Il sistema delle caste in India è talmente interiorizzato a tutti i livelli (e particolarmente ai più bassi) che il semplice incitamento alla ribellione, nel nome di una dignità di cui non si ha neppure nozione, è un progetto titanico. In quest’ottica acquista particolare significato la definizione stessa di dalit, che da un certo punto in poi la stessa minoranza dalit comincia ad affermare in contrasto con quella (inflitta da altri) di intoccabilità. Dalit che significa oppresso, ma anche spezzato, diventa quindi une dichiarazione di accusa alle condizioni che determinano una simile condizione, una denuncia di quell’ordine gerarchico che condanna all’inferiorità per non dire schiavitù intere comunità per generazioni.

Significa anche porsi agli antipodi della posizione gandhiana, che sosteneva la possibilità di mitigare l’oppressione riservata agli intoccabili mediante una serie di misure di purificazione, preliminari all emancipazione – ma come espressione tipicamente dallalto, da parte delle caste dominanti (o meglio: da parte di una minoranza di illuminati al loro interno) nei confronti dei fuori casta.

La stessa definizione di Harijan, figli di Hari, figli del divino, che Gandhi proponeva per i dalit della Nuova India post coloniale, rispondeva in pieno a questa concezione: che non metteva assolutamente in discussione il sistema della caste, e anzi ne sottolineava le ‘nobili’ motivazioni, all’interno di un più etico (ma senz’altro necessario e quindi giusto) ordine gerarchico. Il dibattito tra Gandhi ed Ambedkar su questo fronte, è riemerso all’attenzione della pubblica opinione indiana solo di recente, ed è più che mai attuale oggi (e non solo per l’India…).

Il periodo che fa da cornice a queste riprese è molto particolare, e molto significativo per la causa dalit: si tratta di un lungo momento, a cavallo tra il secolo scorso e il terzo millennio, che vede l’affermazione, in Uttar Pradesh (stato dell’India che per l’enormità della sua popolazione ha un grosso peso anche a livello nazionale) di quel fenomeno politico che è stata Mayawati, una donna e per di più dalit, rieletta per la seconda volta nel 1997 come Ministro in Uttar Pradesh in rappresentanza del Bahujan Samaj Party, espressione delle moltitudini che la stessa Costituzione indiana elenca appunto come OBC, Altre Caste Svantaggiate. Ma negli ultimi anni, e particolarmente durante gli ultimi cinque di governo Modi e con il dilagare dell’Hindutva, la situazione è molto peggiorata: non si contano i casi di atrocità, particolarmente contro quelle comunità dalit come appunto i Chamar (ma anche molti mussulmani) tradizionalmente dediti alla lavorazione dei pellami, o alla commercializzazione di carni, vittime di linciaggi punitivi, come ‘monito’ per chiunque osi attentare all’incolumità della mucca.

Tutto questo, che è indubbiamente gravissimo, in qualche modo ‘copre’ quell’oppressione ben più generale, quotidiana e data per scontata che si verifica nel mondo del lavoro, in tutti i settori di manovalanza: dalle occupazioni più mortificanti e tradizionalmente riservate appunto ai dalit, come la gestione dei rifiuti, compreso il manual scavenging (la pulizia delle latrine, che da sempre motiva la loro intoccabilità in quanto impuri), che per legge sarebbe proibito, ma resta l’unica forma di igiene possibile in mancanza di fognature negli slum; ai compiti più faticosi e usuranti nei campi, o nel settore edilizio, costruzione di strade, miniere e così via, spesso senza alcuna garanzia di venir pagati, né tutela sindacale, regolarmente in competizione tra migranti, in particolare con quelli provenienti da aree e comunità adivasi ancor più vulnerabili dei dalit – e che gli stessi dalit considerano con superiorità, in quanto primitivi, difficilmente assimilabili all’interno di una dialettica di classe (ammesso che questa categoria possa avere un senso all’interno della complessità indiana).

E’ evidente il vantaggio economico di una simile ’tradizione schiavile’, oltretutto sancita a livello religioso. E quella dei dalit è una minoranza che totalizza il 16% di una popolazione che ormai sfiora quella della Cina, ovvero, 200 milioni di intoccabili; che sommati all’8% di adivasi (altri cento milioni) totalizzerebbero una formidabile massa critica. Ed ecco appunto l’ulteriore interesse di questo complesso mosaico di emergenze sociali e politiche, anche per noi, e non solo per chi voglia fare ricerca: nel controluce di queste lontane situazioni, ecco che si comprendono meglio anche le nostre sommosse, da parte dei tanti che sentendosi inascoltati, esclusi, riscoprono la piazza come possibile teatro di quel disagio che si sono stancati di condividere solo sui social

India Invisibile è un’iniziativa promossa dall’Istituto di Studi Asiatici dell’Università di Torino ed in particolare dai Dipartimenti di Giurisprudenza, Studi Umanistici e Cultura Politica e Società in collaborazione con ITCILO, Centro Studi Sereno Regis e Associazione Onlus Jarom. Il programma dettagliato verrà reso noto a giorni all’interno della manifestazione Biennale Democrazia 2019, di cui la mostra Behind the Indian Boom farà parte.

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