L’altra prigione all’aperto della Palestina | Jalal Abukhater

Il giornalista Jalal Abukhater viene arrestato dalla polizia israeliana durante la protesta del 1° agosto a Wadi Ara. (Mahmoud Zeidan)

Ecco che cosa deve affrontare un/a residente cisgiordano/a ogni volta che tenta di uscire di casa.

Sotto un assedio debilitante da più di un decennio, Gaza è giustamente dichiarata la maggior prigione a cielo aperto al mondo. Ma ce n’è un’altra, simile, in Palestina, meno ovvia perché patisce un altro genere di assedio, non dichiarato e indiretto: la Cisgiordania. Ogni palestinese che vi risieda e abbia documenti d’identità ufficiali palestinesi è prigioniero a casa propria.

La libertà di movimento è inesistente per la vasta maggioranza della popolazione a causa di una miriade di politiche israeliane mirate a restringerla a uno stretto minimo. La  situazione è certamente shockante eppure pare essere ampiamente ignorata dal mondo, specialmente dai nostri vicini israeliani.

Il movimento e la vita in Cisgiordania sono governati dai capricci dell’apparato di sicurezza israeliano, che vi ha istituito centinaia di checkpoint, cancelli, barriere artificiali, strade vietate e segregate e ovviamente il muro di separazione di 700km, come lo chiamano gli israeliani, o dell’apartheid, come lo chiamiamo noi.

Come funziona quindi per un palestinese che cerchi d’andare non importa dove in Cisgiordania?

I numeri

Secondo l’organizzazione per i diritti israeliana B’Tselem, al gennaio 2017, c’erano 59 checkpoint permanenti entro la Cisgiordania e 39 alla sua periferia per il controllo dei movimenti d’entrata e uscita delle persone.

Poi ci sono i “checkpoint volanti”, che I military israeliani dispongono temporaneamente su qualunque strada palestinese. Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (UNOCHA), ci sono stati circa 4.924 checkpoint volanti sulle strade cisgiordane solo fra gennaio 2017 e luglio 2018.

Tutto ciò in aggiunta a centinaia di altre barriere, come cumuli di terra, blocchi di cemento e varchi all’ingresso di quasi tutti i villaggi cisgiordani. A parte ciò, ai palestinesi è vietato entrare o utilizzare la terra (seppur propria) entro la cosiddetta Area C – un territorio definito negli Accordi di Oslo dove sono situati quasi tutti gli insediamenti israeliani illegali e che costituisce circa 61% della Cisgiordania.

Per esempio, 270 dei 291 ettari complessivi appartenenti al villaggio palestinese di Wadi Fukin presso Bethlemme sono designate Area C. I palestinesi che ci vivono dipendono quasi del tutto dall’agricoltura per campare e lottano quotidianamente per accedere alle proprie terre. Per lavorare le quali devono procurarsi un permesso israeliano.

A proposito di permessi – i palestinesi ne hanno bisogno di uno per lasciare la Cisgiordania. Rilasciato perlopiù a gente importante (grossi uomini d’affari e politici) con le giuste credenziali finanziarie o politiche, e ai palestinesi più poveri, che forniscono a Israele molta della indispensabile manodopera a basso costo, specialmente nell’edilizia.

Il resto della popolazione palestinese può uscire solo ottenendo un permesso per motivi sanitari o famigliari – rari e facilmente revocati. Nel 2017, circa 700.000 palestinesi in totale (compresi i braccianti in Israele) hanno richiesto permessi d’uscita dalla Cisgiordania: circa 560.000 rilasciati e il resto rifiutati.

Avrete probabilmente dedotto ormai che tutte queste restrizioni imposte ai palestinesi hanno un effetto disastroso sull’economia. Un documento della BancaMondiale stimava che piazzare un posto di blocco a un minuto di strada da una cittadina, diminuisce dello  0.5% la probabilità d’impego di un residente palestinese e la sia paga oraria del 5.2%. L’impatto combinato di tutti i posti di blocco in Cisgiordania nel 2007 è stato una Perdita di 229 milioni di dollari ossia 6% del suo PIL di quell’anno. Un altro studio della BM ha stabilito che tutte queste restrizioni costino all’economia locale 3.4 miliardi di dollari, ossia 35% del PIL del 2011. E – caso mai ve lo chiedeste – il costo combinato di tutti gli aspetti deleteri dell’occupazione israeliana è valso ai palestinesi 9.46 miliardi di dollari (ossia 74% del PIL palestinese) nel 2014.

Questo è solo l’effetto economico; e il costo umano?

L’esperienza

In Cisgiordania ci s’imbatte regolarmente in persone mai state a Gerusalemme, pur abitando a un’ora da lì. Vi s’incontrano anche molti palestinesi detentori di passaporti americani [US] o europei, in grado di viaggiare in gran parte del mondo senza un visto, ma impossibilitati ad ottenere un permesso di visita a Jaffa, per esempio, a soli 20 km.

Ho tre amici palestinesi con passaporti stranieri (francese, americano [US] e russo), che non posso mai ospitare a casa mia a Gerusalemme. Sula carta, tutt’e tre non hanno bisogno di visto per entrare in Israele (e nei territori palestinesi), proprio come le centinaia di migliaia di francesi, americani e russi che visitano il luogo ogni anno. Ma le autorità israeliane sanno che hanno identità palestinesi e gli impediscono quindi di entrare; ed essendo né politicamente importanti né ricchi, non possono d’altro canto ottenere un permesso.

A parte non essere in grado di lasciare la Cisgiordania, viaggiarci è un incubo. Vengono aperti e chiusi posti di blocco arbitrari per controllare i movimenti palestinesi. Non viene mai data una ragione ufficiale, ma il più delle volte è per facilitare il traffico ai coloni israeliani della zona, tanto per renderci la vita miserabile o imporre una forma piuttosto perniciosa di castigo collettivo alla popolazione palestinese.

Il posto di blocco di Beit El all’ingresso nord di Ramallah e di Jaba a quello sud sono due grandi esempi. La mia amica Manar, che abita a Deir Dibwan, un villaggio 4km fuori Ramallah, deve guidare in media un’ora quando non c’è traffico per andare al lavoro in città. E questo trasferimento diventa esponenzialmente più lungo quando il posto di blocco di Beit El è chiuso ai detentori di carte non-VIP (e spesso lo è). In teoria, potrebbe prendere itinerary alternative che potrebbero ridurre il tempo pendolare a 10 minuti, ma quelli possono essere usati solo da israeliani.

David, un mio collega che va Avanti e indietro da Aboud, un cittadina Cristiana a circa 18 km a nordovest di Ramallah, fa spesso tardi al lavoro perché “il cancello era chiuso”. Il cancello è un’installazione israeliana priva di personale all’ingresso della cittadina di Deir Ibzi, appena fuori Ramallah, che lui deve attraversare.

La frequente chiusura di quel cancello raddoppia o triplica la distanza per i pendolari di oltre 10 abitati siti nel distretto di Ramallah. Viene chiuso molto sovente per l’intento di facilitare il movimento dei coloni israeliani nelle ore di punta. Quindi in un giorno qualunque, il cancello sarà chiuso, diciamo, quando David parte da Ramallah per rincasare alle 4, e lo sarà ancora alle 5 quando suo cugino cerca di attraversarlo, poi sarà riaperto alle 7, ma di nuovo chiuso alle 10 quando suo fratello vorrebbe attraversarlo.

Ci sono anche posti di blocco importanti, come Container e Za’tara, in grado di paralizzare completamente la Cisgiordania. Quando Container è chiuso, taglia fuori da Ramallah e dal nord.un terzo della popolazione cisgiordana del sud, comprese città grosse come Bethlemme e Hebron. Analogamente, il posto di blocco di Za’tara blocca il traffico in entrata e uscita dalle regioni cisgiordane del nord, comprese città come Nablus, Tulkarem e Jenin.

So di famiglie cristiane ad al-Zababida, cittadina Greco-ortodossa presso Jenin, che, per esempio, hanno faticato a raggiungere Betlemme, a soli 85 km, per il pellegrinaggio cristiano, causa i ritardi ai posti di blocco di Za’tara e Container. Frattanto, I Pellegrini stranieri possono affluire a Betlemme da otto rotte diverse, compresa Gerusalemme, e in certi giorni possono probabilmente arrivare in volo dall’estero a destinazione in meno tempo che i cristiani palestinesi.

Ma controllare I movimenti palestinesi mediante i posti di blocco e altre barriere non basta agli israeliani, quindi hanno iniziato a costruire strade alternative per noi. Ci sono ovviamente le strade “di grande comunicazione” di al-Mu’arajat e Wadi al-Nar , che collegano il nord alla valle del Giordano e al sud cisgiordano rispettivamente, e adesso c’è la strada R-4370 aperta di recente, nota comunemente come “strada dell’apartheid”, che connette i villaggi di Anata e Azzayim e che ha un alto muro di cemento che separa gli autisti ebrei da quelli palestinesi. Tutte le succitate circonvallazioni sono designate a mantenere i palestinesi via dalle strade israeliane che attraversano la Cisgiordania, come le Strade (di Gran Comunicazione) 1 e 60.

Con chiusure e restrizioni sempre mutevoli, separazione e isolamento, sorprende davvero poco che possa far sentire soffocante la Cisgiordania per molti palestinesi. E, poiché molti di noi non sono in grado di andarsene altrove, dovremmo almeno essere in grado di trovare qualche posto per respirare e rilassarsi nella nostra stessa terra. Ma anche le aree di ricreazione stanno diventando sempre più scarse in Cisgiordania.

Nel 2011, andai con amici a fare un picnic nelle colline del villaggio di al-Walaja nel governatorato di Betlemme. Rammento che scendemmo dal villaggio, passando oltre quello che molti ritengono il più vecchio olivo al mondo, per arrivare alla fonte di Ein Haniya, dove ci sedemmo e ce la spassammo davvero. Oggi non possiamo più andarci: la fonte è stata compresa in un parco nazionale israeliano, un segmento del muro d’apartheid è stato costruito proprio vicino a quell’albero, e un posto di blocco è stato spostato sulla strada appena più avanti, così i palestinesi non possono più passarci.

Questi sono giusto alcuni esempi di mia diretta esperienza su come I miei amici e io siamo stati influenzati dal massiccio meccanismo israeliano per controllare e limitare I movimenti palestinesi in Cisgiordania. Ma ce ne sono molti altri, e molti peggiori.

Si pensi a tutti i malati che hanno sofferto o sono morti prima d’arrivare in ospedale, tutti I parenti che sono dovuti mancare a matrimoni o funerali, tutti i dipendenti che hanno perso il lavoro per i ritardi, a tutti i poveri coltivatori che non sono stati in grado di mettere pane in tavola per aver perso tutto il raccolto bloccato un’intera giornata a un posto di blocco.

Questa è la realtà quotidiana soffocante e oppressiva nella nostra prigione all’aperto chiamata Cisgiordania.


Jalal Abukhater, di Gerusalemme, ha un master in Relazioni e Politica Internazionali dell’Università di Dundee, Scozia (GB).


PALESTINE – ISRAEL, 18 Feb 2019 | Jalal Abukhater – Al Jazeera
Titolo originale: Palestine’s Other Open-Air Prison
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


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1 commento
  1. Giorgio Bianchi
    Giorgio Bianchi dice:

    Anni fa un mio amico ebreo era stato ad Hebron per realizzare un progetto di formazione a ragazzi palestinesi. Ha raccontato e documentato una situazione simile a quella descritta.
    Giorgio Bianchi

    Rispondi

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