La battaglia per il Venezuela | Tony Wood

Già solo in America Latina, la lunga e disastrosa serie d’interventi a guida US basta a causare allarme sui possibili esiti della crisi. Anche se Maduro viene estromesso dal potere, la battaglia per il Venezuela sta appena cominciando.

Il 23 gennaio – anniversario di una rivolta che rovesciò la dittatura di Marcos Pérez Jiménez nel 1958 – il capo dell’Assemblea Nazionale del Venezuela, Juan Guaidó, si è dichiarato presidente ad interim. Ma la crisi arriva da lontano. Gran parte dell’opposizione venezuelana boicottò l’elezione presidenziale tenutasi il maggio scorso, in cui Nicolás Maduro si presentava per un secondo mandato, e rifiutò di riconoscerne la vittoria o la legittimità del suo nuovo mandato. Nel giro di qualche ora dall’annuncio di Guaidó, invece, US, Canada, Brasile, Argentina e Colombia, fra altri stati dell’emisfero occidentale, lo avevano riconosciuto come presidente del Venezuela. Tuttavia, due settimane dopo Maduro resta a Miraflores, e non è chiaro se stiamo assistendo al primo tentativo di cambiamento di regime di Trump o a un golpe fallito.

Non c’è dubbio sulla portata del disastro economico e sociale che il Venezuela sta subendo. Afflitto da un’inflazione a cinque cifre, carenze alimentari e povertà e disoccupazione crescenti, l’economia si è contratta di oltre un terzo fra il 2013 e il 2018, ed è ulteriormente peggiorata dopo. Ciò ha cancellato i guadagni reali fatti da gran parte della popolazione fra la metà degli anni e all’incirca quando Maduro succedette a Hugo Chávez come presidente nell’aprile 2013. C’è da allora una marea migrante attraverso lo spettro della società: a novembre 2018, l’UNHCR stimava che ben tre milioni di persone avessero lasciato il paese, l’80% dei quali sparsi per l’area latino-americana e caraibica.

Non c’è dubbio, parimenti, che Maduro abbia fallito nel gestire questa crisi. Ostacolato dal margine esiguo col quale aveva vinto il mandato nel 2013 – 1.5% – ha governato con una combinazione di spavalderia e repressione. Si è fissato su una politica disastrosa dei tassi di cambio anche se rendeva visibilmente peggiori le cose per gran parte della popolazione. Frustrato dall’Assemblea Nazionale controllata dall’opposizione, ha fatto mosse aggressive e auto-lesive contro di essa, arrivando al punto di decretarne la dissoluzione nel 2017 – benché, come vediamo, abbia continuato a funzionare. Ma è altresì vero che economicamente qualunque leader venezuelano sarebbe stato indebolito dal crollo dei prezzi del petrolio iniziato a metà 2014. Gli effetti  sono stati resi ancor peggiori dalle sanzioni US iniziate con Obama, che nel marzo 2015 dichiarava il Venezuela una ‘minaccia straordinaria’ alla sicurezza US; sanzioni estese più volte con Trump.

L’intransigenza di Maduro è però stato più che uguagliata da quella dell’opposizione; i cui capi sono impegnati con fervore al rovesciamento del chavismo, spinti da un’avversione viscerale che spesso s’accompagna a un’intensa dose di razzismo. Le prime sfide dirette al governo di Maduro furono a inizio 2014, con una serie di proteste, le guarimbas, guidate perlopiù dal ceto medio e dagli studenti. Poi, nel dicembre 2015, l’opposizione acquisì il controllo dell’Assemblea Nazionale: la prima volta che vi era maggioritaria dall’ascesa al potere di Chávez nel 1999. Col che fu posto in essere un blocco istituzionale che dura tuttora: i chavistas hanno l’incarico dell’esecutivo e – dacché Maduro ha designato una nuova corte suprema nel 2015 – del giudiziario; ma l’opposizione ha il legislativo, e ha rifiutato di riconoscere l’autorità degli altri due rami del governo. E’ il blocco che adesso l’opposizione s’è mossa per rompere, con l’aiuto di una massiccia pressione esterna su Maduro.

L’opposizione venezuelana è un’alleanza composita di diverse tendenze, dominate però gli ultimi due anni dai componenti destrorsi più rumorosi, il cui focus unico della rimozione di Maduro s’è sparso al resto dell’opposizione. Perfino ‘moderati’ come l’ex-ministro della programmazione Ricardo Hausmann hanno recentemente iniziato a invocare apertamente un intervento militare US. Durante la campagna elettorale brasiliana dello scorso anno, Jair Bolsonaro accennò ad una azione militare in Venezuela; dopo la sua vittoria, il partito di Guaidó, Voluntad Popular, s’è congratulato con lui sperando che avrebbe aiutato a ‘salvare libertà e democrazia in Venezuela’. Voluntad Popular è un piccolo partito di soli 14 seggi su 167, ma a gennaio ha assunto la presidenza dell’assemblea, nell’ambito di una rotazione designata a por fine alle faide nell’opposizione.

Questo ha posto Guaidó in pole position. Adesso 35enne, ha studiato a Washington (DC), diventando politicamente maggiorenne nelle proteste anti-Chávez del 2007. Pur ampiamente festeggiato nella stampa occidentale fin dalla sua auto-unzione, non era ben noto in Venezuela prima del 23 gennaio, e anche ora non è chiaro di quanto sostegno possa personalmente disporre. Praticamente lo stesso può dirsi dell’opposizione nel suo insieme. Che ha spesso boicottato le elezioni che non avrebbe probabilmente vinto, preferendo impugnare il processo democratico. Talvolta ha adottato questa posizione da refusenik anche quando aveva effettivamente vinto: nell’ottobre 2017, l’opposizione colse 5 dei 23 governatorati statali, ma istruì i propri candidate ci non assumerne la carica (benché quattro disobbedirono). Nell’elezione presidenziale del 2018, una parte dell’opposizione sostenne Henri Falcón, ex-governatore dello stato di Lara che si divise da Chávez nel 2010, ma il resto decise per un boicottaggio. Maduro vinse il 68 % del voto, con una partecipazione  del 46% – più o meno secondo l’andamento democratico degli US, ma basso per gli standard venezuelani.

La pretesa del potere di Guaidó poggia sull’idea che, poiché questo voto era invalido, non solo Maduro non è il presidente legittimo ma, secondo una Legge di Transizione emanata dall’opposizione l’8 gennaio, non c’è alcun presidente. Costituzionalmente, questo terreno è malfermo. L’articolo 233 della costituzione venezuelana del 1999 specifica le circostanze nelle quali un presidente può essere sostituito: morte, dimissioni, rimozione da parte della corte suprema, incapacità fisica o mentale, abbandono del posto. L’assemblea Nazionale ha un ruolo di supervisione da svolgere in ciascuno di tali scenari, ma non viene detto da alcuna parte che il corpo legislativo possa pretendere potere esecutivo per sé stesso. Ecco perché l’opposizione cita invece l’articolo 333, una stipulazione che esorta i cittadini ad aiutare a ristabilire l’ordine costituzionale nel caso che ad esso si sia derogato con un atto di forza. In alter parole, l’opposizione asserisce che non si applica più la costituzione ma che nello ‘stato d’eccezione’ risultantene viene conferito potere all’Assemblea Nazionale per riportarla in vigore nuovamente, appena Maduro – che essa definisce ‘usurpatore’ – sia rimosso. Un altro dettaglio significativo: l’articolo 233 richiede nuove elezioni entro trenta giorni, ma la Legge di Transizione dell’opposizione non assume tale impegno specifico. Così come ha specificazioni leggere sul programma dell’opposizione per governare il Venezuela benché i profili siano chiari: il modello ‘centralizzato di controllo economico sarà sostituito da un modello di libertà e mercati’; I programmi sociali chavisti saranno sostituiti da sussidi diretti (ossia monetari); ‘le imprese pubbliche subiranno un processo di ristrutturazione … comprensivo di accordi pubblico-privati’ (ossia privatizzazioni). Ciò che viene promesso è un ritorno a un assetto neoliberista convenzionale da anni 1990 – precisamente il corpus di politiche che produssero la miseria in Venezuela, e che spinsero Chávez al potere all’inizio.

In gioco qui c’è il destino non solo di Maduro, ma dell’intero modello bolivariano. Non è un caso che questo capiti in un momento in cui la destra stia flettendo i muscoli in tutta la LatinAmerica; l’entusiasmo con cui forze esterne al Venezuela cercano di farla finita con il chavismo è del tutto evidente. La pressione su Maduro è stata accumulate dal Gruppo di Lima, istituito nell’agosto 2017 specificamente per agire con l’opposizione venezuelana per trovare una ‘soluzione’ alla crisi. Consiste di 12 paesi, tutti dell’emisfero occidentale e governati perlopiù da partiti di destra. E’ già deprecabile che un qualunque corpo esterno auto-nominato possa occuparsi degli affari di un dato paese; ma le credenziali di questa giunta ad hoc per pronunciarsi sulla democrazia in Venezuela sono pietose. Nel poco tempo da che è stato costituito, due suoi stati membri sono governati da presidenti non eletti (Brasile e Peru); uno di essi ha un presidente rieletto da un voto truccato nel 2017 (Honduras); uno è sotto indagine ONU per corruzione (Guatemala); uno è stato indagato dal DEA [Drug Enforcemente Administration, US] per lavaggio di denaro da stupefacenti (Paraguay); senza dimenticare la Colombia, dove gruppi paramilitari assassinano di routine sindacalisti e dove ci sono, secondo le cifre UNHCR del 2018, quasi otto milioni di sfollati interni. (Il Messico, a proprio credito, benché fra i fondatori del Gruppo di Lima col presidente Peña Nieto, se n’è distanziato dall’ingresso al potere di López Obrador).

Nella dichiarazione costitutiva, il Gruppo di Lima assicurava il proprio pieno sostegno all’Assemblea Nazionale venezuelana. Il 4 gennaio u.s. ha alzato la posta anticipando che se Maduro assumeva le funzioni per un secondo mandato, la settimana susseguente l’avrebbe considerato un usurpatore – usando, non per coincidenza, gli stessi termini dell’opposizione venezuelana. Due giorni dopo, il Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, effettivamente iniziava il conto alla rovescia del cambiamento di regime, citando ‘l’importante responsabilità costituzionale di Guaidó nell’iniziare l’urgente transizione del Venezuela alla democrazia’.

E’ stata tuttavia l’amministrazione Trump ad accelerare il corso degli eventi. Il cambiamento di regime in Venezuela è sull’agenda di Washington dai primi anni 2000, ma il golpe fallito contro Chávez nel 2002, e la spinta che questi ne ebbe da successive vittorie elettorali e alti prezzi del petrolio l’hanno resa impraticabile da parecchi anni. I guai economici del Venezuela, e la crisi di legittimità che ha marcato la presidenza di Maduro, l’hanno riattualizzato. Nel maggio 2017, Trump impose nuove sanzioni alle aziende statali e ufficiali venezuelane, le prime di una serie di misure strangolatorie: ce ne furono altre nell’agosto 2017, a marzo, maggio, agosto e novembre 2018, e il 10 e il 28 gennaio 2019. Ad agosto 2018, Trump a quanto pare chiese ai suoi attendenti perché gli US non potessero semplicemente invader [il Venezuela]. Ma fino al mese scorso, lo scenario preferito della Casa Bianca era che l’esercito venezuelano si liberasse di Maduro per conto suo. , nel febbraio 2018 l’allora segretario di stato, Rex Tillerson, ventilò casualmente la possibilità di un colpo militare, e in settembre il New York Times riferiva che gli US avevano tenuto discussioni segrete l’anno passato con membri dello stato maggiore venezuelano per persuaderli a rovesciare il proprio presidente. Evidentemente con risultati non come programmato. Il 10 gennaio, Mike Pompeo si appellò pubblicamente alle forze armate venezuelane per togliere di mezzo Maduro ma l’amministrazione Trump stava già scommettendo su Guaidó. Un funzionario della Casa Bianca  lo descrisse alla Washington Post come ‘il pezzo che ci serviva perché la nostra strategia fosse  coerente e completa’. Lo stesso giorno, Pompeo chiamò Guaidó e l’assicurò che se si fosse dichiarato presidente ad interim avrebbe avuto il sostegno dell’America [>> degli US]; Mike Pence fece altrettanto il 22 gennaio, il giorno prima del proclama di Guaidó. Trump, Pompeo e Marco Rubio furono i primi a riconoscere Guaidó; il Gruppo di Lima si affrettarono ad avallare la presa del potere che essi stessi avevano contribuito a rendere possibile. Il 4 febbraio li imitarono gli stati europei, riconoscendo Guaidó dopo lo scadere di un ultimatum aspro ma senza scopo (avevano dato a Maduro otto giorni per impegnarsi a nuove elezioni).

Che succede poi? Davanti c’è un sentiero spaventosamente chiaro d’intensificazione della crisi, ivi compreso un intervento militare US, eventualmente con al fianco i suoi compagni di letto ideologici in Brasile e Colombia. Avendo spinto per un cambiamento di regime, non è probabile che gli US demordano presto.  Per segnalare le intenzioni US, il 25 gennaio Trump ha nominato come suo inviato special in Venezuela Elliott Abrams, l’uomo che gestì le guerre sporche dell’amministrazione Reagan in Centro-America, e che lavorò alla Casa Bianca di Bush durante il fallito tentativo di golpe in Venezuela a sostegno US del 2002. ‘E’ bellissimo essere di ritorno’ disse Abrams. Guaidó e i suoi sostenitori esterni si aspettavano chiaramente che Maduro fosse rimosso in breve. Che non lo sia stato suggerisce un grado maggiore di sostegno per sé in Venezuela rispetto a quello negoziato dagli US, non perché Maduro sia davvero popolare, ma perché per abbastanza gente importa ancora la genuina nozione di sovranità; per altri una ‘transizione plasmata dagli US’ può sembrare un prezzo troppo alto da pagare per la sua rimozione. Più Maduro resta al Miraflores, più riuscitamente potrà descrivere il governo parallelo di Guaidó come creatura dei poteri esterni.??

Qualunque cosa comporti questa crisi, non riguarda la restaurazione della democrazia e della prosperità al Venezuela. A leggere la stampa occidentale, si penserebbe che la gente del paese stava infine per essere liberata da una tirannia che l’affliggeva da anni, in versione caribica delle Primavere Arabe. Ma stiamo stati a tal punto molte altre volte in passato. Già solo in LatinAmerica, la lunga e disastrosa serie d’interventi a guida US basta a causare allarme sui possibili esiti della crisi. Anche se Maduro viene estromesso dal potere, la battaglia per il Venezuela sta appena cominciando.

Tony Wood vive a New York e scrive sulla Russia e la Latin-America. Membro del consiglio editorial della New Left Review, è autoer di Cecenia: il caso per l’indipendenza, e suoi scritti sono appparsi sulla London Review of Books, il Guardian, n+1 e la Nation, fra altre pubblicazioni. E’ appena stato pubblicato il suo nuovo libro, Russia without Putin: Money, Power and the Myths of the New Cold War (Verso).

 

Titolo originale: The Battle for Venezuela

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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