L’arte come voce dei senza voce | Bill Berkowitz

 

“Virgen Campesina”, dipinto da Malaquias Montoya nel 2001

L’arte di Malaquías Montoya espone gli spettatori a verità scomode. La donna sull’autobus diretta a casa dopo aver lavorato per una lunga giornata; la madre piegata sui campi a raccogliere cotone e poi di corsa a casa dai suoi figli, a preparare i loro pasti e a prepararli per la scuola il giorno dopo; la lavoratrice agricola che avrebbe mai immaginato di portare la bandiera del Huelga (sciopero). In lotta per salari migliori, migliori condizioni di lavoro e dignità.

L’arte di Montoya è esplicitamente politica. “Da artista chicano [statunitense di origine messicana – n.d.t.] avverto la responsabilità che tutta la mia arte debba essere un riflesso delle mie convinzioni politiche, un’arte di protesta”, ha scritto nella sua breve biografia per una mostra del 2003 intitolata ‘Una lotta, due comunità: manifesti politici del tardo ventesimo secolo di Avana, Cuba e della Baia di San Francisco’.

L’arte di Montoya si è situata all’incrocio tra arte e politica per quasi cinquant’anni. Montoya considera la sua identità artistica come dar voce a una comunità che la società aveva ritenuto silente e priva di voce. “Rendendomi conto successivamente che non era per scelta che restavamo muti, ma per un consapevole sforzo da parte di quelli al potere, ho compreso che la mia arte poteva essere solo di protesta, una protesta contro quella che consideravo essere una condanna a morte”, mi ha detto in un’intervista nell’ottobre del 2018.

“Donne che attraversano”, dipinto da Malaquias Montoya nel 2014

Arte chicana come protesta politica

I dipinti, le serigrafie e i murali politici di Montoya sono sempre stati mirati a servire i sottorappresentati, i negletti, i subalterni, gli oppressi e i violentati. Nel corso degli anni il suo lavoro ha contribuito a organizzazioni per la giustizia sociale quali La Raza Centro Legal, United Farm Workers, Olga Talamante Defense Committee, la Third World Women’s Alliance e altre organizzazioni che lavorano su problemi di giustizia penale, lotte dei detenuti politici e contro la pena di morte. Attraverso la sua arte, Montoya evidenza le lotte di queste organizzazioni per i diritti dei migranti, i diritti dei lavoratori, i diritti delle donne, la lotta contro il razzismo, contro la guerra e contro l’imperialismo statunitense.

“Montoya è uno dei soldati del movimento che ha mantenuto viva la fiamma dell’arte per la giustizia sociale”, mi ha detto Lincoln Cushing in un’intervista. “Egli ha costantemente ignorato la via dell’arte alla fama mondiale a favore dell’impatto sulle comunità e la politica di principi”. Cushing è un artista per la giustizia sociale e storico dell’arte.

Il lavoro di Montoya non si limita a proclamare inclusione e riconoscimento, chiede altrettanto all’osservatore. Vedere un’opera di Montoya non è un’esperienza passiva. L’opera chiede riconoscimento di solidarietà con la pena e le sofferenze dei poveri, degli oppressi e degli invisibili.

“La tradizione dei grandi artisti socialmente consapevoli del Messico, tra cui José Guadalupe Posada al volgere del ventesimo secolo, il Taller de Gràfica Popular a partire dagli anni ’30 e gli artisti grafici del movimento studentesco messicano del 1968”, ha detto Ed McCaughan, docente emerito di Sociologia all’Università Statale di San Francisco e autore di Art and Social Movements: Cultural Politics in Mexico and Aztlan.

La potente e commovente mostra di dipinti e stampe originale intitolata Women I Have Encountered/Mujeres que he Encontrado, è attualmente ospitata al Vacaville Museum nella California settentrionale. La mostra comprende trenta opere scelte – rappresentanti una vasta varietà di tecniche, tra cui dipinti a olio e acrilici, disegni a carboncino e serigrafie.

In un’intervista presso il Vacaville Museum agli inizi di ottobre del 2018, Montoya mi ha detto che il suo lavoro nasce da incontri della vita quotidiana nelle terre del confine tra USA e Messico. Ha sottolineato le sofferenze causate dalle politiche statunitensi, additando il NAFTA e la militarizzazione statunitense del confine. Il lavoro trae ispirazione anche da sua madre, Lucia Saíz Montoya, che egli dice soffrì violenze fisiche ed emotive da suo padre e tuttavia mantenne unita la famiglia.

“Serviamo il mondo”, dipinto da Malaquias Montoya nel 2003

Montoya è cresciuto lavorando nei cambi della Central Valley in California, accanto a sua madre e ai suoi fratelli e sorelle. “Essendo figli di lavoratori agricoli ci era permesso non andare a scuola fino a quanto il raccolto non fosse finito. Si raccoglievano i grappoli, li si trasformava in uva passa sotto il sole, poi si stendevano e andavano alla fabbrica che li impacchettava e finivano nella scatola di uva passa di Sun Maid”.

Quando i raccolti erano finiti era mandato a scuola. “Alla scuola elementare fui messo in una classe che all’epoca, o qualche anno dopo, era chiamata classe ‘MR’, quella che era definita classe per i ‘Mentalmente Ritardati’, che divenne anche una “Classe per i Lenti nell’Apprendere’”, mi ha raccontato Montoya. “Invece di aiutarci a progredire, l’insegnante arrivava con una scatola piena di carta, carta per costruire, matite, pastelli, gessetti, un po’ di tutto, e quello è ciò che facevamo, praticamente tutto il giorno”. Fu là che Montoya si rese conto per la prima volta di saper disegnare. Ciò creò il terreno per il suo viaggio durato una vita da artista in prima linea nella lotta per la giustizia sociale.

Dopo il servizio nei Marines e un breve periodo al Reedley Community College, Montoya si trasferì a San Jose, dove trovò lavoro da tipografo in una società di pubblicità. Fu là che imparò a serigrafare, anche se aveva esperienza solo nella stampa a inchiostro, un mezzo totalmente diverso. Ha spiegato che il supervisore gli aveva dato un posto per un iniziale periodo di prova. “Disse: ‘Beh, sai cosa?, hai davvero un bel sorriso, sei un tipo amichevole. Se lavori per me per un mese, gratis – e ricorda, in quel mese imparerai molto – se andrai bene, ti assumerò a 1,25 dollari l’ora’”, ha spiegato Montoya. “Così lavorai gratis per un mese e tornavo a casa alla sera e provavo di tutto. Disegnavo; semplicemente mi innamorai di quel posto. Così lavorai per lui per quasi sette anni. Al termine di sei mesi mi diede un assegno paga extra per il mese che avevo lavorato gratis”.

Nei suoi primi disegni nei tardi anni ’60 egli fu attirato dalla lotta dei lavoratori agricoli. “Quando cominciai a disegnare, i primi disegni che feci furono sempre di persone che conoscevo, che erano braccianti. I miei primi disegni, le mie prime serigrafie, ebbero per oggetto braccianti. Ero eccitato da quello che faceva César Chavez, rappresentandoci, e io ero uno di loro, sai, e tutto ad un tratto mi sentii bene riguardo a quello che lui diceva”, ha detto Montoya.

“Mi ricordo che a volte, crescendo, mi vergognavo di mia mamma e mio papà se venivano a prenderci a scuola, perché non apparivano mai come le altre madri e padri; erano sempre sporchi perché erano stati fuori nei campi, venivano a svegliarci alle tre del mattino in modo che potessimo andare a lavorare,” ha continuato. “Così ricordo quando sentii parlare Chavez, quando lo vidi in televisione, ricordo di aver pensato che mia mamma e mio papà in realtà avevano contribuito alla ricchezza di questo paese e che non dovevo sentirmi imbarazzato per loro o sentirmi male per loro”.

Montoya cominciò a frequentare le riunioni della Community Service Organization (CSO), un centro a San Jose dove era solito parlare Chavez, dopo aver cominciato a passare del tempo con un gruppo chiamato Los Hermanos. “Non parlavano realmente di politica, ma erano un gruppo di tizi che giravano insieme, con lo stesso passato, ed erano quelli che cominciarono a incoraggiarci a frequentare gli incontri… L’ispirazione che avrei ricevuto là fu semplicemente inestimabile”.

Alla fine Montoya finì all’Università della California, Berkeley, dove divenne l’artista di riferimento del movimento del campus, “disegnando manifesti, facendo raccolte di fondi, producendo opuscoli, volantini, disegnando materiali per lo Sciopero del Terzo Mondo”.

“Il suo coinvolgimento nel movimento chicano permeò la sua arte di una tavolozza di colori vivaci che non si trovava nella grafica di molti dei suoi omologhi a sud del confine”, ha detto McCaughan. “Montoya crebbe come maestro della serigrafia e fece da guida a molti altri artisti del movimento chicano”.

Anche se non aderì mai a nessuna organizzazione politica del distretto Fruitvale di Oakland, dove viveva, Montoya non faceva mai discriminazioni quando si trattava di accettare progetti. “Fintanto che non c’erano conflitti, facevo manifesti per chiunque me lo chiedesse. A chiunque mi chiedesse di fare un manifesto, fintanto che ci muovevamo nella stessa direzione generale, io glielo facevo. Potevano essere idee differenti, approcci differenti, direzioni differenti, ma fintanto che eravamo d’accordo il risultato era sempre lo stesso.”

“El picket”, dipinto da Malaquias Montoya nel 2009

L’eredità di Montoya

Nel corso dei decenni Montoya ha continuato a dedicare la sua arte alle lotte politiche. Il suo lavoro più recente si è concentrato sui diritti delle donne, sulla pena di morte e sui problemi dell’immigrazione.

Alcuni anni addietro la Smithsonian Institution ha acquistato tre delle opere di Montoya: “Privi di documenti”, 1980; “George Jackson vive”, 1976 e “Vietnam/Aztlan”, 1973. Ne ha acquisite altre mediante donazioni di vari collezionisti.

Nel 2012 Montoya, che oggi ha 81 anni e vive con sua moglie, Lezlie Salkowitz-Montoya, nella Contea di Solano nella California settentrionale, ha dipinto un grande murale nel Centro Studentesco Comunitario dell’Università della California, Davis. In precedenza quest’anno ha progettato e contribuito a completare un murale presso la scuola elementare Markham dedicato alla scomparsa Anne Starr, un’insegnante amata che aveva un tempo lavorato nella scuola.

Montoya ritiene che il progresso tecnologico e i media sociali non abbiano cambiato il ruolo dell’artista nella comunità. “Considero il suo ruolo lo stesso di sempre; l’artista deve dare voce ai problemi che ci sono trasmessi in modo confuso, cosicché le persone possano comprendere il ruolo che devono avere”, ha detto Montoya. “Penso che il ruolo dell’operatore culturale consista nel definire quelle cose che riceviamo da quelli al potere e restituirle alla comunità, presentate in un modo più chiaro”.

Le opere di Montoya si possono vedere sul suo sito web www.malaquiasmontoya.com.

[Malaquías Montoya: Women I Have Encountered/Mujeres que he Encontrado, Vacaville Museum, 213 Buck Avenue, Vacaville, CA 95688, dal mercoledì alla domenica dalle 13:00 alle 16:30, fino all’8 marzo 2019. (707) 447-4513, http://www.vacavillemuseum.org]


Bill Berkowitz è un giornalista indipendente che vive a Oakland, California, e si occupa di movimenti conservatori. Nel 2005 ha ricevuto il Premio Speciale per il Giornalismo della Before Columbus Foundation. La sua rubrica Conservative Watch documenta le strategie, i protagonisti, le istituzioni, le vittorie e le sconfitte della destra statunitense. Può essere raggiunto via e-mail all’indirizzo [email protected].

Mille grazie al giornalista e attivista veterano Bob Barber per aver registrato e trascritto la nostra intervista a Montoya.  


Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/art-as-a-voice-for-the-voiceless/

Originale: NACLA

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2019 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

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