Mai più, eppur di nuovo: sa il mondo fermare il genocidio? | The Economist

Il 9 dicembre, al 70° anniversario della convenzione ONU sul genocidio, i suoi fallimenti sono tragicamente evidenti.

6 dic. 2018 – Accovacciata sulla stuoia di un’agenzia ONU per i profughi, aggrappata alla sua languida piccola di due anni, Setera Bibi racconta la sua storia. L’anno scorso, alle 4 di mattina del 25 agosto, questa 23enne fu svegliata da sparatorie. Cinquanta soldati stavano aggirandosi infuriati per il suo villaggio nel nord-est dello stato di Rakhine, nell’ovest di Myanmar. Entrarono a casa sua, afferrarono suo marito, restituito quattro ore dopo col corpo pesto e rigonfio avvolto nel suo longyi – torturato a morte.

Lei lo seppellì mentre il villaggio bruciava. Poi, afferrate le due figliolette e la madre, scappò con altre centinaia verso il confine del Bangladesh. Dopo due giorni di fuga, si trovò ad attraversare un fiume in piena, le due figlie per mano. La più piccola, una bimba atterrita, si divincolò e venne spazzata via per non essere più ritrovata. Il gruppo di fuggiaschi di Bibi era incalzato dai soldati; parecchi furono colpiti dagli spari. Sua madre, meno agile, restò indietro. I soldati la colpirono coi calci del fucile, rompendole la schiena.

I sopravvissuti languono indefinitamente in una capannuccia del campo profughi più grande al mondo, Kutupalong, appena al di qua, in Bangladesh. La madre di Bibi non può neppure camminare; spera che la sua figlia restante, Adija, non rievocherà troppo degli orrori vissuti, ma i suoi occhi desolati raccontano la loro storia. Malnutrita, con una tosse cronica, è troppo debole per andare a scuola. Tutt’e tre resistono con una razione solo di riso, legumi, e olio. Se le si chiede del futuro, non osa pensare oltre la fine della settimana.

Adesso ci sono 900.000 Rohingya nei 27 campi su uno sputo di terreno chiamato Bazar di Cox. Quasi tutti hanno storie analoghe da raccontare — di loro cari decapitati davanti ai loro occhi e di bimbi gettati alle fiamme. Circa 80% sono arrivati negli ultimi quattro mesi del 2017, sfuggendo a un assalto che ne ha uccisi almeno 10.000 — probabilmente molti di più. Bersagli speciali sono stati gli uomini: 16% degli ospiti dei campi sono madri sole.

La sofferenza dei Rohingya corrisponde chiaramente ai criteri definitori di un “genocidio”, come stabilito nella Convenzione sulla Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio approvata dall’ONU il 9 dicembre 1948 — cioè atti intesi “a distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Un rapporto per il Consiglio per I Diritti Umani raccomanda che i comandanti responsabili affrontino un processo per genocidio.

Settant’anni dopo l’approvazione della convenzione ONU, il mondo ancora non riesce a prevenire tali crimini, tanto meno punirne i responsabili. E’ quindi con umiltà, angoscia e un po’ di vergogna che i difensori dei diritti umani, i politici e i funzionari ONU hanno commemorato l’anniversario.

Oltre ai Rohingya, avranno in mente gli Yazidi, un gruppo etno-religioso quasi interamente del Nord-Iraq. Nel 2014 jihadisti dello Stato Islamico cercarono di cancellarne la fede. Uccisero gli uomini yazidi, rapirono i bambini e costrinsero donne e ragazze a diventare schiave sessuali. Circa 10.000 uomini furono assassinati, d’una popolazione Yazidi globale di forse mezzo milione. Circa 300.000 fuggirono verso squallidi campi profughi nel Kurdistan irakeno. Il massacro degli uomini e lo stupro di massa delle donne hanno devastato le famiglie estese yazidi. E i sopravvissuti ora odiano i loro vicini musulmani, rendendogli difficile coesistere in futuro. Jan Kizilhan, traumatologo, dice di temere che la società yazidi sia irreparabilmente a pezzi.

La convenzione sul genocidio, redatta da Raphael Lemkin, ebreo polacco, fu approvata all’ unanimità dall’ONU nuova di zecca. Il giorno dopo l’ONU approvò anche la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”. I due documenti furono concepiti in buona parte quale reazione alle atrocità naziste.

Ai processi di Norimberga nel 1946, 24 capi nazisti avevano affrontato accuse di crimini di Guerra e contro l’umanità — schiavizzazione di massa, assassinio, cospirazione, persecuzione e altri. Lemkin, tuttavia, s’interessava all’Olocausto, l’assassinio di 6 milioni di ebrei da parte dei nazisti. E trovò perfino un nome per quello che Winston Churchill aveva definite “un crimine senza nome” — genocidio, appunto.

Ci volle tempo perché il suo nuovo concetto fosse acccettato. Stalin firmò la convenzione ma continuò a massacrare gente senza badarci. L’America [>>US], preoccupata che la convenzione l’esponesse ad esame per la decimazione delle tribù di americani nativi nel 19° secolo, la ratificò solo nel 1988. La Gran Bretagna, timorosa delle implicazioni per le sue colonie, la ratificò solo nel 1970. In tutto, 149 stati hanno ora acceduto al trattato. Che però non s’è avvicinato al suo intento di fermare il genocidio (v. carta).

Un governo tutsi in Burundi massacrò centinaia di migliaia di hutu nel 1972. I Khmer Rossi comunisti di Pol Pot assassinarono un milione e mezzo di cambogiani, un quarto della popolazione, nel 1975-79. In Guatemala, l’esercitò uccise circa 60.000 contadini maya durante una guerra civile nei primi anni 1980. Il regime di Saddam Hussein uccise circa 100.000 curdi in Iraq nel 1988.

Il genocidio del Rwanda nel 1994 parve segnare un punto di svolta: ufficiali hutu organizzarono la gran parte degli adulti hutu al massacro dei loro vicini tutsi. Forse 500.000 persone furono uccise con machete o randelli in 100 giorni. Assisté inerte una piccola forza “peacekeeping” ONU nella capitale, Kigali. Allorché l’Occidente decise che doveva essere fatto qualcosa, il genocidio era finito, fermato da un esercito di ribelli tutsi. Dopodiché l’Occidente promise solennemente di non permettere mai più che si ripetesse qualcosa del genere.

Questa catastrofe, seguita dalla macelleria dei musulmani bosniaci a Srebrenica nel 1995, infine galvanizzarono l’azione. Nel 1993 era stato istituito dall’ONU un tribunale sui crimini di guerra internazionali per processare i responsabili di atrocità nell’ex-Jugoslavia; cui segui un altro tribunale per il Rwanda, e nel settembre 1998 Jean-Paul Akayesu, un politico hutu, divenne la prima persona mai carcerata per genocidio. Nel maggio 1999 il presidente della Serbia, Slobodan Milosevic, fu il primo capo di stato in carica ad essere accusato di crimini contro l’umanità; ai capi d’accusa fu in seguito aggiunto il genocidio. Morì detenuto prima della sentenza. Nel 2006 fu istituito un tribunale a Phnom Penh per processare gli ex-capi dei Khmer Rossi, che il mese scorso ne ha finalmente carcerati due — Nuon Chea, 92enne, e Khieu Samphan, 87enne — per genocidio.

Nel 2002 fu fondata la Corte Penale Internazionale (CPI). Nel 2010 imputò per genocidio un capo di stato in carica, il presidente del Sudan Omar al-Bashir, accusato di aver ordinato la distruzione di tre gruppi etnici in Darfur. Frattanto, nel 2005, una risoluzione ONU sulla “Responsabilità di proteggere” aveva conferito al Consiglio di Sicurezza un nuovo ampio dovere d’intervento per prevenire le atrocità.

Una pletora d’iniziative private e pubbliche adesso cerca di fornire avvertimenti precoci di potenziali genocidi, e di molestare i governi finché si dispongano all’azione. L’Università Nazionale Australiana, per esempio, pubblica elenchi di paesi a rischio di genocidio, così come il Museo Memoriale dell’Olocausto degli Stati Uniti. Simon Adams, a capo del Global Centre for the Responsibility to Protect, fondato nel 2008 per promuoverne la dottrina, dice che ci sono stati dei successi. Il Kenya rasentava una violenza interetnica senza remore dopo un’elezione disputate nel dicembre 2007. Ma un rapido intervento diplomatico attrasse con lusinghe le due parti a colloqui. La Costa d’Avorio si ritrasse dal bordo dell’abisso nel 2011 dopo che truppe francesi e dell’ONU rovesciarono un presidente macchiato di sangue, Laurent Gbagbo.   Da allora le prospettive si sono rabbuiate. I combattimenti nella Repubblica CentrAfricana Republic furono considerati dall’ONU come “segni precoci di genocidio” nel 2017. Il termine è stato anche applicato al bagno di sangue in Sud-Sudan, alle predazioni di  Bashar Assad in Siria e agli attacchi islamisti ai cristiani nella fascia centrale della Nigeria. Alcuni gruppi non si preoccupano neppure di nascondere quel che stan facendo. L’ISIS in Siria e Iraq ha pubblicato norme esplicite sul dovere dei pii di sterminare gli uomini infedeli e stuprare le donne infedeli. Frattanto, Bashir ostenta la sua perdurante libertà, passando con disinvoltura da un paese all’altro che dovrebbe arrestarlo, e così erodendo l’autorità della CPI.

Che cos’è andato storto? Chiaramente la geopolitica gioca un ruolo. I membri permanenti del Consiglio di Sicurezza hanno sempre schermato i propri alleati. In Sudan, durante il periodo delle peggiori uccisioni in Darfur nel 2003-04, l’America e la GranBretagna hanno finto di non vedere le azioni delle milizie janjaweed in cambio di servizi d’intelligence da Khartoum su al-Qaeda. La Russia svierà qualunque tentativo d’intraprendere azioni contro il governo siriano. La Cina, con interessi economici in Myanmar e un’avversione a qualunque intromissione negli affari interni dei paesi [con cui tratta], lo proteggerà da un deferimento alla CPI.

Ci sono però anche ragioni strutturali per cui il genocidio si è dimostrato così arduo da prevenire. La parola ha inavvedutamente creato una gerarchia di sofferenze. Philippe Sands, un avvocato per I diritti umani, sostiene che la creazione del crimine di genocidio ha significato che “quando avvengono orrori percepiti come minori, non c’è reazione, e quando si arriva al genocidio è troppo tardi”.

Per dimostrare un genocidio, i pubblici ministeri devono dimonstrarne l’intento; per la qual cosa possono volerci anni di scrupoloso lavoro. Come dice Mukesh Kapila, funzionario umanitario testimone dei genocide in Rwanda e Darfur: “Quando si arriva a stabilire di aver adempiuto a tutti i criteri, è finita”.

Si prendano i rohingya. Sono stati perseguitati e assassinate per decenni, eppure nessuno ha agito. Alla fine si arrivò alla determinazione di genocidio oltre un anno dopo l’esodo di massa: questo per la “prevenzione”. In effetti, giacché la convenzione del 1948 convention obbliga I paesi ad agire in caso di genocidio, sovente li scoraggia da una tale formulazione. Durante il genocidio del Rwanda, un funzionario americano diffidò memorabilmente dal far intervenire una indagine internazionale, perché un reperto di genocidio avrebbe impegnato il suo governo “a ‘fare’ effettivamente ‘qualcosa’.”

Il rapporto ONU sui rohingya ha mostrato la gerarchia [degli effetti indotti] in funzione. Vu si sosteneva che l’esercito di Myanmar era anche colpevole di crimini contro l’umanità fra altre  minoranze etniche, i kachin e gli shan. Eppure, con l’attenzione focalizzata sull’accusa di genocidio in Rakhine, tali crimini hanno a mala pena meritato una menzione nelle reazioni del pubblico.

Lemkin e studiosi successivi concepivano il genocidio come un processo, che evolve dalla stigmatizzazione e disumanizzazione alla violenza e al terrorismo fino all’annientamento (“del tutto o in parte”). Certamente i genocidi sono di solito preceduti dalla stigmatizzazione e disumanizzazione delle potenziali vittime. Ma pochi considererebbero la stigmatizzazione genocidio. Il termine letteralmente significa uccisione di un popolo.

Forse è tempo, propone Sands, di por fine alla gerarchia della sofferenza creando un crimine acchiappa-tutto dell’atrocità di massa, fondendo genocide e “crimini contro l’umanità”. Ciò darebbe agli stati più campo d’azione prima che gli avvenimenti scalino a livello di Rwanda o Myanmar o Siria. Droni, satelliti e raccolta di massa di dati dovrebbero rendere più facile cogliere i segni d’avvertimento.

Nulla proviene dal nulla

L’idea che ignorare un genocidio rechi benefici politici o strategici di solito risulta illusoria. Sminuendo la colpevolezza di Aung San Suu Kyi, capo di fatto di Myanmar, per le atrocità contro i rohingya, come hanno fatto i governi occidentali, non le ha rafforzato la mano contro l’esercito. Anzi, l’inazione ha incoraggiato l’esercito ad agire in modo più scellerato in altri luoghi di Myanmar. La democrazia non si può costruire sulle ossa dei macellati.

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Articolo apparso nella sezione Internazionale dell’edizione cartacea col titolo “Never again, again and again”. Go to Original – economist.com

 

ANALYSIS, 10 Dec 2018  | The Economist – TRANSCEND Media Service

Titolo orginale: Never Again, and Again: Can the World Stop Genocide?

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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