Popolo ed élite: una contrapposizione da sanare

Massimiliano Fortuna

Si può cominciare da un bell’articolo di Claudio Belloni, apparso qualche tempo fa sul sito del Centro Studi Sereno Regis, nel quale si ricordava che la nostra Costituzione fu scritta e concepita da una élite sociale e culturale che, a causa degli anni tragici della guerra e della Resistenza, si trovò costretta a entrare in contatto con i ceti più popolari e seppe incarnare questa vicinanza, farsene carico e darle concretezza nella carta costituzionale.

Successivamente, e negli ultimi anni in special modo, è parso di assistere sempre più a una sorta di scollamento tra élite e popolo; questa conflittualità è stata richiamata da più parti nella discussione e nell’azione politica odierna e costituisce non solo un argomento fra gli altri su cui riflettere, ma probabilmente una delle questioni chiave per la comprensione di quanto sta accadendo nella realtà sociale italiana, ma anche europea e statunitense.

Nelle righe che seguono nessuna pretesa di analizzare l’argomento con la profondità che meriterebbe, solo qualche piccolo spunto in proposito. A venire in mente è innanzitutto un libro di Cristopher Lasch, La ribellione delle élite, uscito ormai oltre vent’anni fa (in edizione italiana: Feltrinelli 1995), poco dopo la morte del suo autore. Già allora Lasch seppe individuare, con indubbia chiaroveggenza, alcune tendenze che i due decenni successivi sembrano aver confermato. Le sue osservazioni si riferivano soprattutto al mondo statunitense, ma in larga parte sono estendibili anche al contesto europeo.

Lasch segnalava il sorgere di un fenomeno preoccupante, quello di un progressivo disimpegno delle élite, caratterizzato da un interesse via via minore nei riguardi della comunità e del territorio di appartenenza, e dal costituirsi di gruppi di privilegiati più inclini a riconoscersi internazionalmente tra di loro che a lavorare per la crescita dell’eguaglianza sociale nelle realtà locali. Le classi sociali naturalmente sono sempre esistite, avvertiva Lasch, ma oggi si direbbero procedere verso un isolamento più accentuato nei confronti di quanto le circonda; nasce dunque e si rafforza un’idea guida all’insegna della mobilità e del movimento, che però può essere praticata con indubbi benefici soltanto dagli strati più benestanti: «i membri delle nuove élite si sentono a casa propria soltanto quando si muovono, quando sono en routeverso una conferenza ad alto livello, l’inaugurazione di una nuova attività esclusiva, un festival cinematografico internazionale o una località turistica non ancora scoperta.

La loro è essenzialmente una visione turistica del mondo». Sullo sfondo di questo dinamismo nei tempi più recenti è andato scavandosi, sempre più in profondità, il solco di una disparità crescente tra ricchi e poveri. Lasch non è certo un generico laudatore dei bei tempi andati, sa bene che «è innegabile che i vantaggi materiali della vita moderna siano a tutt’oggi distribuiti in misura ben maggiore di quanto accadesse prima della rivoluzione industriale». Tuttavia coglie nell’ultima parte del ventesimo secolo una «controtendenza per cui certe vecchie ineguaglianze cominciano a reimporsi, talvolta a una velocità preoccupante, a volte con tanta lentezza che nessuno se ne avvede», e aggiunge: «è la crisi della classe media, non semplicemente l’approfondirsi del solco tra ricchezza e povertà, il fattore da sottolineare in un’analisi seria delle nostre prospettive».

Senza enfasi si può dire che i due decenni successivi altro non han fatto che dare ragione a Lasch su questo punto. A ricordarcelo sono indicatori innumerevoli, dalle dettagliate analisi diThomas Piketty, ad esempio,alle rilevazioni, per quanto riguarda specificamente il nostro Paese, dei dati Istat relativi all’aumento della povertà o di quelli della Banca d’Italia che certificano una crescente disuguaglianza nella distribuzione dei redditi.

Tra chi possiede (non solo denaro ma anche conoscenza) e chi possiede poco, o nulla, tra «creativi», grandi professionisti, frequentatori di scuole d’élite, appunto, e il resto della popolazione la distanza si è acuita e Lasch, con grande anticipo, ha cominciato a cogliere all’inizio degli anni Novanta i primi segni di un fenomeno che, come scrive Stefano Feltri, sarebbe divenuto «carburante intellettuale per il populismo».

Il modo in cui si è giunti all’attuale realtà economico-politica non è certamente unidirezionale, diverse sono le circostanze che vi hanno contribuito e più d’una le chiavi di interpretazione, ma questa di una contrapposizione tra popolo ed élite si direbbe davvero una delle più evidenti, anche in considerazione del fatto che viene rivendicata dagli stessi movimenti antisistema (mi sembra questa la definizione generale più accettabile, rispetto a quella di populismo, per indicare e tenere assieme una pluralità di movimenti differenti, che presentano tra loro alcune analogie ma anche aspetti non facilmente conciliabili). «Non esistono destra e sinistra, esiste il popolo contro le élite», ha proclamato ad esempio con nettezza Matteo Salvini: questo è il tasto, declinato in forme demagogiche, sul quale batte il suo movimento, in vistosa crescita di consensi.

Ma per frenare questa demagogia le élite avrebbero da tempo dovuto comprendere, agendo di conseguenza, che alla sua base è presente un solido fondamento di verità. Gianni Riotta, ad esempio, ha descritto questo meccanismo di rivalsa nel modo più essenziale e convincente possibile: «la nuova economia condanna chi non ha le conoscenze per l’industria 4.0 a perdere status e salario, mentre chi disegna i robot vola a Seattle benestante. Prima o poi gli esclusi si vendicano nelle urne».

Un senso di rancore e di rivalsa che, come si sa, molto si è diffuso anche nei confronti di chi appartiene al mondo dell’accademia e del sapere. Rancore che tende a manifestarsi nella pretesa che le opinioni di chi detiene titoli e competenze scientifiche e intellettuali specifiche in un determinato campo o argomento siano equivalenti a quelle di coloro che ne sono privi. A questo riguardo Tom Nichols ha scritto di recente un libro interessante, La conoscenza e i suoi nemici. L’età dell’incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss University Press, 2017), che di questi tempi potrebbe venire più che mai opportuno conoscere per affinare la comprensione del fenomeno ed essere in grado di preparare adeguate risposte.

Anche in quest’ambito sarebbe bene che il mondo accademico evitasse di reagire stracciandosi semplicemente le vesti e indignandosi per la diffusa ignoranza. Una reazione da «guardiani del tempio» direbbe forse Daniel Pennac, propria di quanti sono inclini a considerare la conoscenza e la discussione su di essa alla stregua di un campo chiuso, un club ristretto alla frequentazione di pochi membri. Ma trincerarsi nello sdegno in genere non serve a nulla, e di certo le élite culturali dovrebbero interrogarsi sulla situazione partendo dal riconoscimento delle proprie responsabilità, come al riguardo ha saggiamente sintetizzato Sabino Cassese: «l’ignoranza non è un valore di cui andare fieri, ma élite ed esperti che tendono a chiudersi nel proprio campo non sono senza peccato».

Nella brillante recensione fatta da Gianni Riotta al libro di Nichols credo si colga bene il punto: «Nichols propone un nuovo patto, che richiederà tempo per dispiegarsi. Le élite devono riporre boria e sussiego accademico e tornare a ragionare – anche usando la ricchezza di incontro che la rete ci offre – con tutti i cittadini. Scuola, media e società civile devono, senza paternalismo o albagie, disseminare i nuovi saperi, far ritrovare lo spirito critico a chi l’ha perduto, scambiandolo con la rabbia, il rancore e il risentimento.

Questa nuova democrazia digitale, da non scambiare con blog in cui un capo parla e gli utenti cliccano like, può rinnovare il nostro tempo». La rete digitale può certo nascondere pericoli e destare inquietudine, ma anche rivelarsi un’opportunità preziosa da mettere al servizio della conoscenza, sta però al mondo accademico e culturale, con il supporto della politica, trovare il modo di operare in questa direzione, cercando di disinnescare i rischi e le semplificazioni che l’uso dei social media comporta.

Non c’è dubbio in ogni caso che l’iniziativa del «nuovo patto» di cui parla Riotta debba essere presa dalle élite. Chi possiede più risorse, più mezzi, più strumenti culturali deve mettersi in gioco per primo, riconoscere le proprie decennali mancanze, lavorare in direzione di un riequilibrio, operare in vista di una redistribuzione che coinvolga sia i beni materiali che quelli immateriali. Chi ha conoscenza deve imparare la – non semplice – arte di condividerla, diventare un passeurper continuare con il lessico di Pennac, chi detiene risorse deve saperle diffondere, o almeno essere indotto a farlo da politiche volte in questa direzione.

Non può che essere così, da sempre maggiori responsabilità sono in carico a chi più possiede, e se è indubbiamente vero che una contrapposizione a tutto tondo tra élite corrotte e ripiegate sui propri interessi da una parte e popolo moralmente puro e sfruttato dall’altro è una rappresentazione strumentale e semplificata, diciamo pure caricaturale, è vero altresì che quel disimpegno delle élite che Lasch aveva saputo individuare già venticinque anni fa è uno dei virus che hanno contribuito a minare nel profondo alcuni fondamenti di equità delle democrazie occidentali.

Il compito tratteggiato è molto vasto, il lavoro da intraprendere enorme e attende nei prossimi anni, in Italia ma non soltanto qui, uomini e menti capaci almeno in qualche misura di affrontarlo. Senza questo tentativo di riconciliazione tra élite e popolo, promosso dalle élite, il rischio, ormai già in atto, sarà quello di lasciare mano libera a chi possiede tutto l’interesse ad acuire tale contrapposizione, lavorando non per un’autentica ricomposizione del conflitto ma per un suo inasprimento, con l’obiettivo di avere a disposizione un’arma sempre carica da poter sfruttare a fini propagandistici.


 

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