#we4Gaza, un anno dopo…

Un anno fa abbiamo rivolto un appello al Parlamento europeo e all’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri perchè riconsiderassero, ed attualizzassero le deliberazioni già approvate in precedenza che potrebbero garantire l’apertura del confine di Rafah nell’ambito dell’EUBAM e perchè avviassero la raccolta di fondi per la ricostruzione del porto di Gaza.

L ‘”emergenza umanitaria” che ha portato Gaza a non avere medicine, fognature, commercio e posti di lavoro è stata pianificata con cura e attuata duramente per anni da Israele.

Abbiamo chiesto che l’Europa agisse per garantire un porto e aprire stabilmente frontiere. Non abbiamo chiesto l’apertura di nessun altro confine sotto il controllo israeliano. Sotto la pretesa di prevenzione del “doppio uso” (uso delle merci per scopi diversi da quelli civili), Israele ha ridotto, proibito, e controllato l’arrivo a Gaza di tutti i prodotti per gli ultimi 11 anni, determinando infine l’attuale scarsità. È questo controllo che deve essere rimosso.

La nostra chiamata è stata indirizzata verso l’Europa a causa del potenziale presente nelle sue precedenti deliberazioni di costruire un porto e di custodire le frontiere, per attivare rapidamente ad uno lsviluppo autonomo di Gaza, liberando la popolazione dal peso imposto dal blocco israeliano (e egiziano).

Un anno dopo il nostro appello, riconosciamo che, oltre a una riunione congiunta dei Presidenti della Sottocommissione per i diritti umani e della delegazione per le relazioni con la Palestina, nessuna delle azioni per Gaza è stata considerata dall’Alto Rappresentante europeo, dalla Commissione europea o dal Parlamento.

Nel frattempo, il blocco è stato ulteriormente aggravato dal governo israeliano e, attraverso misure interne e proxy, il confine di Rafah è stato chiuso per quasi un anno fino alla seconda settimana di Ramadan (3a settimana di giugno), i fondi dell’UNRWA sono stati tagliati dagli Stati Uniti, ed è minacciata di chiusura e si trova sul punto di dover ridurre i servizi educativi e sanitari e l’assistenza alimentare che provvede  all’80% dei residenti di Gaza. Secondo il governo israeliano non c’è “nessuna questione dei rifugiati” e nessuna responsabilità per la loro sopravvivenza da parte sua.

Nel frattempo, la Grande Marcia per il Ritorno ha mostrato la volontà e la determinazione non di pochi ma di una generazione di giovani di Gaza di intraprendere un percorso disarmato di protesta politica contro il blocco, per chiedere libertà. Inequivocabilmente, e unitariamente, la popolazione di Gaza chiede autonomia e libertà per svolgere commerci, studiare, lavorare, visitare, svilupparsi.

Richiede la cancellazione del blocco senza ambiguità. Questa richiesta è sicuramente in conflitto con il progetto israeliano di continuare a controllare ogni aspetto della vita a Gaza, e ciò si è visto  anche nell’aggressione criminale con cui ha affrontato la protesta dal marzo scorso.

Nel frattempo, la situazione si è evoluta con l’annuncio da parte del governo israeliano della sua volontà di risolvere la “crisi umanitaria”, e dagli Stati Uniti della “soluzione del secolo” per la Palestina. La questione centrale all’ordine del giorno è il porto di Gaza.

Il modo in cui Israele ha proposto di costruire un porto non include la rimozione del blocco, ma comprende l’addebito dei costi e delle responsabilità alla comunità internazionale, o una coalizione di alleati, mentre Israele  continuerebbe ad avere il controllo totale. La proposta contiene allo stesso tempo il potenziale, in somiglianza con i colloqui all’interno del processo di pace di Oslo, di consolidare la  espansione e potere israeliano anche senza costruire il porto marittimo.

Questo non può generare pace e sviluppo.

È impossibile pensare alla pace senza giustizia e non c’è giustizia senza il riconoscimento dei diritti dei palestinesi, della loro autonomia e della fine dell’assedio di Gaza.

In questo contesto politico, un’ulteriore sospensione della decisione da parte dell’Europa, sarebbe una accettazione se non una collaborazione con il processo politico e pratico di occupazione da parte di Israele; una posizione chiara deve essere presa rapidamente per rimuovere il blocco.

L’affermazione israeliana è: “Vogliamo la pace e vogliamo costruire un porto per risolvere la situazione umanitaria di Gaza”, ma “non possiamo fidarci delle mani di nessuno straniero per la sicurezza del nostro paese, dobbiamo proteggerci dal rischio dell’uso improprio delle merci, quindi dobbiamo essere i controllori esclusivi del porto. Ciò implica la continuazione del blocco.

La proposta di un porto per Gaza di per sé non è una novità; col tempo è stato presentato una volta ancora, sempre per essere cancellato. Era già parte dell’accordo di Oslo (un porto è stato persino costruito e distrutto dai bombardamenti), è caduta nel dimenticatoio dopo che Israele ha si è opposto alla sua ricostruzione da parte dell’Europa nei primi anni 2000, è stata riesumata nel 2011 dal ministro israeliano Kahz, ed è stata una delle richieste di Gaza all’armistizio alla fine degli attacchi del 2014.

La proposta ora sembra progettata per andare avanti valendosi del sostegno da parte degli alleati, che permette di favorire, perfezionare e rafforzare la legittimità del blocco. Accoppiate sono la richiesta di soddisfare una “urgenza umanitaria” ed il fare pressioni sulla comunità internazionale, con la condizione che lsraele controlli la posizione e il funzionamento di un porto per Gaza.

Non vi è alcuna differenza nello (e nessun bisogno di) avere un porto marittimo quando le sue regole di funzionamento siano le stesse delle esistenti frontiere terrestri, che hanno rafforzato il blocco di Gaza negli ultimi 11 anni. Un simile porto non solleverebbe Gaza dal controllo totale, storicamente arbitrario e oppressivo, più spesso punitivo, quando non apertamente criminale, di Israele sulla popolazione.

Nel piano israeliano per un porto o nella proposta chiamata “l’accordo del secolo” dagli Stati Uniti (ancora da svelare completamente), non vi è alcuna promessa di un cambiamento positivo per la popolazione di Gaza o di sostanziale sollievo dal blocco. Ciò però non significa che non c’è una ragione di profitto per Israele e per i suoi alleati.

I denominatori comuni delle proposte ventilate di porto di Gaza di Israele e Stati Uniti e di altri loro sostenitori si intrecciano tra loro:

1- In tutte le proposte il porto non si trova in terra palestinese.Le località proposte sono El Arish in Egitto,  Cipro o, in versione più creativa, una nuova isola artificiale al largo di Gaza. Si rivendicano ragioni di sicurezza per queste scelte, ma emerge che potrebbe non essere l’unica ragione, come qui di seguito.

2-In tutte le proposte è richiesto che le spese per costruire e gestire il porto siano sostenute da “parti internazionali“; queste potrebbero variare in base alla posizione proposta per il porto, suggerendo che ci sarebbe una gara d’appalto aperta alla migliore offerta per sostenere l’egemonia israeliana continua su Gaza e favorire la sua estensione nel Mediterraneo. Sarà Israele a dare il permesso finale di costruire un porto soggetto alla sua esigenza di controllo politico e pratico del blocco di Gaza e ad acquisire maggiori profitti e potere politico nell’area mediterranea in generale.

 

3-In tutte le proposte il controllore unico del porto sarà Israele, le sue regole prevalgono su qualsiasi insieme di regole internazionali. Sarà Israele a determinare le regole di funzionamento, a decidere chi lavora lì, chi serve nella sicurezza, nei servizi ecc. E, naturalmente, cosa e chi passa attraverso una serie di regole di ordinamento autodeterminate. Poiché le spese per questo saranno a carico della comunità internazionale, questa legittimerà quindi queste regole, analoghe a quelle che ora governano il confine terrestre di Gaza, negando la libertà per Gaza a qualsiasi livello.

La “soluzione o affare del secolo” in effetti, sotto ogni punto di vista, ma solo per Israele.

Abbiamo chiesto un anno fa, e continuiamo a chiedere, che l’Europa si assuma la responsabilità dei disastri che il suo cieco sostegno ai governi israeliani ha prodotto e continua a permettere di essere condotti in Palestina, e che agisca per ripristinare i legittimi diritti alla libertà per il popolo di Gaza.

Abbiamo chiesto che l’Europa utilizzi i meccanismi già esistenti, che potrebbero garantire più rapidamente l’autodeterminazione dei palestinesi su ciò che commerciano, con chi commerciano, chi viaggerà e chi tornerà a casa.

Abbiamo chiesto un anno fa, e chiediamo ancora, che l’Europa agisca verso la rimozione totale dal blocco di Gaza  esercitando equità nei confronti del popolo di Gaza, in accordo con le leggi internazionali e le deliberazioni ONU.

Qualsiasi altra posizione, nelle circostanze attuali, sarebbe la collaborazione per favorire l’asservimento della popolazione di Gaza e la dissoluzione della Palestina.

Ed è anche il momento che l’Europa mostri al suo popolo che le parole usate così spesso come “equità” e “preoccupazione per i diritti umani” e “autonomia del popolo” significano azioni.

10 Luglio, 2018

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