L’estinzione dei contadini… una prospettiva insostenibile

Elena Camino

La lunga marcia dei diseredati a Delhi – A long march of the dispossessed  to Delhi.

Il vocabolario suggerisce il termine ‘diseredati’ come traduzione di ‘dispossessed’, ma sarebbe più giusto tradurlo con la parola ‘espropriati’ o ‘privati dei loro beni, dei loro diritti’…

Si titola così un articolo pubblicato pochi giorni fa (il 22 giugno 2018) da Palagummi Sainath, un giornalista e fotogiornalista indiano che da molti anni si occupa di testimoniare e documentare situazioni di ingiustizia sociale ed economica, e  di povertà rurale conseguente soprattutto ai processi di globalizzazione. Sainath è il fondatore di uno straordinario Archivio – People’s Archive of Rural India (PARI) – una piattaforma digitale in cui sono raccolti testi, fotografie e video che testimoniano l’enorme varietà di culture, competenze, abitudini di vita dell’India rurale: un mondo  che negli ultimi 50 anni sta rapidamente scomparendo.  Insieme alla natura, anche culture millenarie sono uccise dalla messa in atto di svariate forme di violenza – diretta e indiretta, impulsiva e lenta –  conseguenti  a una visione del mondo eticamente iniqua e ambientalmente insostenibile.

In questo articolo Sainath fa riferimento a una marcia di protesta democratica che ha visto la partecipazione di un milione di persone – contadini, operai e altri – che si sono date appuntamento nella capitale, New Delhi, per obbligare il governo a prendere iniziative rispetto alla crisi del mondo rurale, ormai in situazione esplosiva. La crisi agraria in India è andata ormai oltre alla dimensione rurale, è una crisi sociale. Forse anche una crisi di civiltà, che vede la più numerosa popolazione rurale del mondo, quella dei piccoli agricoltori e braccianti, combattere per salvare i loro mezzi di sussistenza.  La crisi agraria non si misura solo più in termini di terra coltivabile perduta.  E neppure in termini di perdita di vite umane, di lavori e di produttività. E’ la misura della nostra perdita di umanità. Ce ne siamo stati seduti  a osservare la crescente miseria degli ‘spossessati’, compreso il suicidio di più di 300.000 contadini negli ultimi 20 anni. Nel frattempo  alcuni ‘economisti esperti’  deridono  le enormi sofferenze intorno a noi, persino arrivando a negare l’esistenza di una crisi.

L’Ufficio nazionale di registrazione del crimini (National Crime Records Bureau – NCRB) da due anni non pubblica più i dati relativi ai suicidi dei contadini.  E prima di allora, per qualche anno sono stati forniti da alcuni dei grandi Stati dell’Unione indiana dei dati erronei, che hanno distorto le stime dell’Ufficio.  In realtà il numero di suicidi sta continuamente salendo.

Nel frattempo salgono anche le proteste di contadini e braccianti. Ci sono stati casi di contadini uccisi, come in Madhya Pradesh.  Molti sono stati derisi e ingannati da falsi accordi. Devastati dalla demonetizzazione, un  po’ dappertutto.  Dolore e rabbia stanno crescendo in tutte le aree rurali del paese, non solo tra i contadini: anche tra i pescatori, gli artigiani,  le comunità che vivono nelle foreste, i lavoratori a giornata.  … Sono delusi e arrabbiati anche i genitori che mandano i figli alle scuole pubbliche, che si accorgono che lo stato stesso sta distruggendo le sue scuole. Anche i piccoli impiegati statali, e i lavoratori del settore pubblico dei trasporti, i cui posti di lavoro sono a rischio.

PHOTO • Jaideep Hardikar  Questa è la foto di Vishwanath Khule, del Distretto Vidarbha’s Akola, il cui figlio  Vishal  si è ucciso avvelenandosi con i diserbanti. I suicidi tra contadini stanno aumentando, ma i governi locali falsificano i dati.

La crisi non investe solo il mondo rurale:  stanno emergendo dei dati che suggeriscono un declino complessivo delle opportunità di lavoro in tutto il paese dal biennio  2013-14 al 2015-16.

15 milioni di contadini in meno…

Il Censimento eseguito nel 2011 ha segnalato la più elevata presenza di migrazioni provocate da situazioni di sofferenza dai tempi dell’indipendenza. Milioni di poveri , fuggiti a causa della perdita dei loro mezzi di sussistenza,  si spostano verso altri villaggi, verso città rurali, grandi agglomerati urbani, grandi metropoli, sempre alla ricerca di un lavoro che non trovano.  Dal 1991 al 2011 il numero di contadini – coltivatori è calato di 15 milioni di unità. E’ facile incontrare molte persone che prima producevano cibo, e adesso fanno i domestici.  I poveri sono a disposizione per essere sfruttati dalle élites  ricche, sia nelle città che nelle aree rurali.

Il governo fa del suo meglio per non ascoltare.  Lo stesso capita con i media.  Quando i media trattano questi  problemi semplificano le cose e omettono dei dati. Ultimamente hanno segnalato  la richiesta di prezzo minimo per gli agricoltori (il costo della produzione + il 50 per cento). Ma non hanno messo in discussione le affermazioni del governo, che sostiene  di  aver già soddisfatto questa richiesta. Né menzionano che la Commissione nazionale per gli agricoltori (National  Commission of Farmers: NCF, o Commissione Swaminathan) ) ha segnalato una serie di altre questioni ugualmente serie. Alcune delle relazioni dell’NCF sono rimaste ferme in Parlamento per 12 anni senza essere prese in considerazione.

Forse è arrivato il tempo per  una imponente e democratica protesta, insieme alla richiesta che il Parlamento  dedichi una sessione speciale – tre settimane – per discutere sulla crisi agraria e sulle sue implicazioni.

PHOTO • Binaifer Bharucha   Non possiamo risolvere la crisi agraria se non prendiamo in considerazione i diritti e i problemi delle donne contadine.

Su quali basi impostare  la discussione? Sulla Costituzione Indiana.  Più specificamente, sulle parti in cui si afferma la necessità di “minimizzare le disuguaglianze di reddito”, e “impegnarsi a eliminare le disuguaglianze di stato sociale…” I Principi della Costituzione auspicano “un ordine sociale in cui la giustizia sociale, economica e politica siano a fondamento delle istituzioni della vita nazionale”. Dunque, il diritto al lavoro, all’educazione, alla sicurezza sociale. Il miglioramento del livello nutritivo e della salute pubblica. Equiparazione delle paghe per uomini e donne. Condizioni di lavoro giuste e umane.  La Corte Suprema più volte ha richiamato l’attenzione su questi Principi.

Come fermare la morte del mondo contadino?

Sainath suggerisce alcuni punti per  sviluppare la discussione in Parlamento: suggerimenti  che potranno – a suo dire –  essere modificati e integrati da altri.

Discussione del Report pubblicato dalla Commissione Swaminathan,  che è in attesa da 12 anni e tocca una gran varietà di temi e problemi, tra cui: produttività, sostenibilità, tecnologia, coltivazioni senza irrigazione, prezzi all’ingrosso, stabilizzazione ecc.  Occorre anche fermare il processo di privatizzazione della tecno-ricerca in agricoltura. E impedire il disastro ecologico.

Le testimonianze della gente. Bisogna che le vittime della crisi possano esprimersi personalmente, testimoniando nella grande sala del Parlamento che cosa è successo direttamente a loro e a milioni di altre persone come loro. Non si tratta solo di situazioni confinate al mondo rurale. La privatizzazione della salute e dell’educazione ha devastato la vita non solo dei contadini poveri, ma di tutti i poveri. Le spese sanitarie sono diventate una delle componenti di maggior peso nel  debito accumulato dalle famiglie rurali povere.

La crisi del Credito.L’indebitamento sta crescendo senza sosta. E’ stato una delle principali cause di suicidio tra migliaia di contadini,  oltre ad aver devastato la vita di milioni di persone. Spesso il debito ha portata a perdere la propria terra.  Le politiche messe in atto dalle istituzioni hanno spianato la strada al ritorno degli usurai.

L’enorme crisi dell’acqua. Non si tratta solo di un periodo temporaneo di siccità,  è qualcosa di ben più grave.  Questo governo sembra determinato a promuovere la privatizzazione dell’acqua in nome del   prezzo ‘razionale’.  Ma occorre ribadire che l’accesso all’acqua è un diritto umano fondamentale,  e lottare contro la sua privatizzazione  in ogni ambito.  E’ necessario un controllo sociale di questo bene, e una equa possibilità di accesso a tutti, soprattutto ai senza terra.

I diritti delle donne contadine. La crisi agraria non può essere risolta senza che vengano assicurati i diritti (compresi i diritti di proprietà) di tutti coloro che svolgono la maggior parte dei lavori, quindi anche le donne.

I diritti dei senza terra, uomini e donne. Con l’accrescersi di fenomeni migratori  la crisinon può più definirsi solo rurale: ogni investimento pubblico in agricoltura deve tener conto delle necessità, dei diritti, della prospettive delle comunità obbligate a migrare.

Allargare il dibattito sull’agricoltura.  Che tipo di agricoltura vogliamo sviluppare, da qui a 20 anni? Un approccio orientato ai profitti delle corporazioni? Oppure basato su comunità e famiglie, che dai frutti della terra traggano le basi per la loro sussistenza?  Ci sono anche altre forme di proprietà e controllo che potrebbero essere sostenute e sviluppate.  Inoltre si deve riprendere il discorso, mai concluso, dalla riforma agraria, che per essere significativa deve tener conto dei diritti degli Adivasi e dei Dalit, che sono agricoltori, contadini e braccianti.  Nessun partito politico si opporrebbe apertamente a prendere in considerazione i loro diritti, ma chi, se non essi stessi – gli ‘espropriati’ –dovrebbe poter far sentire la sua voce?

PHOTO • Shrirang Swarge  La protesta nonviolenta dei contadini che hanno marciato da Nashik a Mumbai  a Marzo 2018, deve assumere una dimensione nazionale, e includere tutti coloro che sono stati colpiti dalla crisi.

Moltitudini in marcia

Quest’anno a Marzo 40.000 tra contadini e braccianti hanno camminato per una settimana, in segno di protesta, da Nashik a Mumbai, rivendicando i loro diritti. A Mumbai i responsabili del governo hanno rifiutato con arroganza di ascoltare le loro ragioni, liquidandoli come ‘Maoisti urbani’. Ma in poche ore una folla immensa si è riversata nell’area in cui si teneva l’assemblea  governativa: e l’atteggiamento disciplinato dei contadini nella loro protesta ha colpito la comunità urbana: non solo gli operai, ma anche la gente del  ceto medio ha espresso sostegno e simpatia per questa marcia nonviolenta.

Bisogna che questa forma di protesta assuma una dimensione nazionale: una grande marcia dei  diseredati, di coloro che sono stati privati dei loro beni e diritti: e in loro appoggio potrebbero unirsi  coloro che sono colpiti dalla sofferenza umana, coloro che credono nella giustizia e nella democrazia.  Una marcia che abbia inizio da ogni angolo dell’india per convergere verso la capitale, circondare il Parlamento  e obbligare il governo a udire, ascoltare e agire.   Si, si dovrebbe occupare Delhi. E’ una sfida logistica immensa,  ma si può vincere grazie a una coalizione tra contadini, operai, altre organizzazioni . Incontrerà l’ostilità del potere  – e dei media  – che cercheranno in tutti i modi di bloccarla. Ma si può fare: non bisogna sottovalutare i poveri, sono loro che tengono viva la democrazia.

I contadini indiani e noi…

Da quasi 40 anni, insieme a un piccolo gruppo di amiche e amici, sosteniamo l’impegno di una ONG Indiana, l’ASSEFA (Associazione per le Fattorie al Servizio di Tutti), che da mezzo secolo aiuta piccole comunità rurali, emarginate e poverissime, a intraprendere un cammino di auto-sviluppo ispirandosi all’idea gandhiana di auto-governo, semplicità volontaria, sarvodaya (il ben-essere equamente distribuito tra tutti).

Ma l’impegno dell’ASSEFA, e delle tante Associazioni  che in India e in tutto il mondo operano per salvaguardare la vita contadina e promuovere un modello di sviluppo che protegga e rispetti  il lavoro contadino,  diventa ogni giorno più difficile. I poteri dominanti  hanno messo in atto un saccheggio sistematico dei  beni della natura, mercificando la vita. Il processo di urbanizzazione, accelerato dalla crisi agraria, allontana sempre più le persone dalle conoscenze e dai saperi contadini.   La visione gandhiana di un’India di villaggi è stata brutalmente spazzata via dalle scelte liberiste e liberticide dei governi che si sono succeduti  negli ultimi decenni.

Le terre a disposizione delle comunità più povere si riducono sempre più, per lasciare spazio a monocolture da esportazione  sotto il controllo delle imprese multinazionali e alle ‘grandi opere’, dalle centrali nucleari agli aeroporti, che distruggono il prezioso suolo agricolo cementificandolo.

Condividiamo il pensiero di Ashish Kothari, quando afferma che  “La crisi agraria non si misura solo più in termini di terra coltivabile perduta.  E neppure in termini di perdita di vite umane, di lavori e di produttività. E’ la misura  della nostra perdita di umanità”.

Come indirizzare la rabbia?

Non possiamo che provare rabbia. Rabbia perché sappiamo ma non facciamo nulla. Rabbia perché una minoranza di uomini e donne si arrogano il diritto di decidere, autonomamente, del futuro della vita sul pianeta e minacciano in tal modo la nostra esistenza. Rabbia perché chi si oppone a quella visione viene disprezzato, respinto, criminalizzato, persino eliminato. Rabbia, infine, per lo squilibrio di forze e di mezzi di cui dispongono quanti alimentano una distruzione programmata e quanti cercano invece di preservare la vita sulla terra. Processi con ben note conseguenze negative si susseguono inesorabili. Sono dovuti all’azione di uomini e donne senza scrupoli, cinici, avidi di denaro e di potere. Un numero crescente di studi scientifici, in ogni ambito, descrive i danni che queste politiche producono sugli ambienti naturali e sugli esseri viventi. Un numero crescente di abitanti del pianeta protesta e continua a ribadire, in ogni forma possibile, il proprio disaccordo. Non cambia nulla. I poteri politici ed economici proseguono imperturbabili per la loro strada. Le distruzioni continuano, a un livello per-sino superiore, via via che la tecnologia si perfeziona, che l’accesso alle risorse diviene più difficile e che aumenta la concorrenza tra i poteri. Milioni di persone sono costrette a spostarsi, le guerre si moltiplicano. Per gran parte del pianeta, l’apocalisse è già arrivata. È per questo che dobbiamo provare rabbia”.

Questa lunga citazione è tratta da un libro di Silvia Pérez-Victoria[1]  – in cui l’Autrice ci conduce, a partire dal senso di rabbia e di impotenza per la distruzione sistematica del mondo contadino (e degli ecosistemi ad esso associati), attraverso lo svelamento dell’impostura  della narrazione dominante, verso l’elaborazione di forme di resistenza, intellettuale e pratica, contro il saccheggio del pianeta.

Insieme ai contadini indiani che stanno organizzando grandiose marce di protesta  per ottenere giustizia, che cosa possiamo fare noi? Raccogliere fondi per sostenere le piccole comunità rurali gandhiane non è più sufficiente. Occorre contestare e contrastare il modello dominante di sviluppo,  mettere in discussione il mito dell’innovazione tecnologica, recuperare la capacità di pensare in modo indipendente e riflessivo, riconoscere il primato del naturale sull’artificiale, ri-imparare a riconoscerci ‘Earthlings’, come dice Bruno Latour, non solo ‘terrestri’ ma figli e figlie della Terra[2].

Chi siete veramente, voi Terrestri, per credere di essere quelli che – grazie al puro ordine simbolico della mente, grazie al potere proiettivo del cervello, grazie all’ intensità dei vostri schemi sociali – aggiungono relazioni in un mondo interamente privo di significato, di relazioni, di connessioni ?! Dove avete vissuto finora?  Oh, lo so, avete vissuto in questo strano mondo modernista assolutamente  arcaico; e improvvisamente,  nel momento della crisi,  vi rendete conto che per tutto il tempo  stavate abitando la Terra.

Marce, manifesti, lentezza: parole chiave?

L’idea di Palagummi Sainath, di organizzare una marcia di protesta che veda convergere milioni di contadini verso Delhi, la sede del potere del governo indiano, implica la scelta di tempi lunghi: settimane, forse mesi saranno necessari per  far affluire questa moltitudine verso la meta. Questo scenario riporta alla mente la marcia del sale, organizzata da Gandhi, o il lungo pellegrinaggio di Vinoba Bhave  in tutta l’India per chiedere in dono terra per i contadini, durato anni.  Ci vuole tempo…

Manifesto: è curioso che due libri recenti portino nel titolo questa parola. Uno è  quello già citato di Silvia Perez-Victoria  (Manifesto per un XXI secolo contadino), l’altro è firmato da una filosofa ed epistemologa belga, Isabelle Stengers, che propone “A Manifesto for Slow Science”, un Manifesto per una scienza lenta

L’idea che in futuro le comunità contadine possano riprendere a crescere , a occupare terre ed estendere i campi coltivati, e l’immagine di una scienza  che rallenta i suoi ritmi, riduce la potenza di calcolo, pone un freno alle innovazioni,   propongono  due scenari che vengono considerati quasi ‘stravaganti’, mentre il mondo fa avanti, lasciato verso il progresso…

 

Nella Newsletter del CSSR ci siamo già occupati di ‘lentezza’ a proposito di tecnologia:   dopo alcuni incontri, è ora attivo un gruppo di lavoro interessato a esplorare le caratteristiche di una informatica responsabile, sostenibile e giusta. Necessariamente lenta, perché per poter riflettere sulle implicazioni delle innovazioni che sempre più rapidamente ci vengono proposte (nel tentativo di imporcele come inevitabili…),  occorre non solo capire quali potrebbero essere gli impatti sociali, economici, ecologici  di tali innovazioni, ma anche mettere in luce quali visioni del mondo, quali interessi, quale idea di ‘benessere’ si  nascondono  dietro alle proposte. Di nuovo, ci vuole tempo per confrontare idee, ascoltare le proposte alternative,  prendere in esame i possibili rischi, in uno scenario  globale profondamente mutato:  il mondo non più inteso come una macchina smontabile e misurabile, ma come realtà complessa e imprevedibile che ci include, in cui esitare, agire con prudenza, confrontarsi, prendere collettivamente decisioni reversibili .

 

Dunque, grandi  marce – manifestazioni di milioni di persone contro il potere dei pochi; manifesti – produzione di nuovi modi di pensare e di agire, elaborati attraverso il confronto tra tante legittime prospettive;  e lentezza – necessaria per ascoltare la voce di ciascuno, per soppesare i vincoli ecologici e le ricadute sociali di ogni iniziativa. Tre ‘parole – chiave’ per incanalare la rabbia di cui parla Silvia Pérez-Victoria e trasformarla in un’energia positiva per recuperare modi di vivere democratici, nonviolenti e sostenibili.

[1]Manifesto per un XXI secolo contadino (Jaca Book, 2016)

[2]A Plea for Earthly Sciences, 2007 (http://www.bruno-latour.fr/sites/default/files/102-BSA-GB_0.pdf)

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