L’ultimo metro (Sul morire)

Giuliano Martignetti

Cercherò di affrontare la questione  propostaci da Paolo [1] su come percorrere con dignità l’«ultimo metro»  del nostro cammino terreno in 7 punti ma da due diverse angolature. La prima  come fatto da Paolo, prende le mosse  da Spinoza, la seconda da  letture di autori orientali o orientaleggianti (nonché da meditazioni e pratiche ad esse connesse).

1.

Convengo con Paolo  che la scelta filosofica di fondo giusta sia quella di Spinoza: il monismo  anziché il dualismo, la radicale immanenza e non anche la trascendenza, la tesi insomma che esista  un’unica realtà – la « sostanza», la  « natura», il «mondo» – e che non ve ne sia una seconda, un essere che la trascenda.

E ciò fondamentalmente per due ragioni:

a) perché se si definisce tale essere come il summum bonum dotato di ogni  perfezione e potere[2], in nessuna “difesa di Dio” o teodicea ho trovato argomenti che giustifichino la presenza del male e rispondano soddisfacentemente alla domanda di sempre: si est deus unde malum?; confutando  la serrata argomentazione del frammento 374 di Epicuro: «[Dio]  o vuole eliminare i mali e non può; o può e non vuole; o né vuole né può…Se vuole e può, che è la sola cosa che convenga a Dio, da dove vengono i mali?, e perché non li elimina?».  Dipende forse dalla mia ignoranza ma non mi risulta che dopo tanti secoli sia stata data  ad Epicuro una risposta migliore di quella di Stendhal: «L’unica scusante che Dio ha è che non esiste»

b) perché ammettere l’esistenza di Dio mi sembra tolga ogni ragion d’essere all’esistenza di qualunque realtà diversa dalla sua e, per definizione, inferiore alla sua, uomo incluso. Perché, se Dio esiste, che bisogno c’è nell’ordine del cosmo della presenza dell’uomo, che senso ha che questi si dia eventualmente da fare per migliorare il mondo e se stesso? Tanto la vittoria del bene sul male è già vinta in partenza con la presenza di Dio che realizza in sé  ab aeternoogni perfezione. A fronte di questi interrogativi non mi appaiono convincenti  i tentativi fatti, da parte di filosofi e teologi di orientamento monoteista, o deista in genere, di conciliare il postulato di una  trascendenza divina, con l’esigenza di riconoscere una quanto meno parziale  libertà e dignità dell’uomo (esigenza loro dettata anche dall’intento di ascrivere almeno in parte a colpa dell’uomo  stesso l’esistenza del male).

Destinati inevitabilmente allo scacco se avessero tenuto fermo il principio della assoluta perfezione e onnipotenza  divina tali tentativi, hanno cercato di battere varie strade: l’ipotesi, per es., di una volontaria  e parziale   autolimitazione da parte di Dio  della propria onnipotenza[3]; oppure quella di un Dio non ancora perfetto ma perfettibile e impegnato come l’uomo e con l’uomo nella costruzione di una realtà migliore[4]; oppure ancora, persino,  l’ipotesi di   un Dio esposto al rischio di commettere il male  (su ciò vedi oltre). Tentativi che mi sono apparsi insoddisfacenti non solo dal lato della loro coerenza interna, di sistema (non a caso essi non appartengono alla cultura del monoteismo più rigoroso e intransigente, quello islamico) ma anche e, direi, soprattutto nella loro capacità di soddisfare  le motivazioni più profonde da cui nasce la fede e la volontà di credere o di «credere di credere»: e cioè il bisogno dei credenti di sentirsi rassicurati da una presenza divina «ricca di grazie e misericordiosa» (H.Kung) contro i mali del mondo, le sofferenze, le malattie, la morte; di sperare almeno che di essi un giorno saranno consolati. Ora questa rassicurazione non pare in grado di darla un Dio non onnipotente, come noi, che soffre con noi e come e più di noi pendendo da una croce, che può al limite peccare, come noi: un Dio che pare davvero non essere altro di diverso da ciò che ne diceva Feuerbach: una proiezione idealizzata di noi stessi[5].

2.

Non ho , a differenza di Paolo, una conoscenza diretta dei testi di Spinoza, tuttavia credo di poter dire che  non è accettabile  la versione panteista del suo monismo: un deus sive natura = natura sive deus,«sostanza» perfetta in sé ed immobile, nella quale il male –  che nessun ragionamento può convincerci che non esista – finirebbe ad essere non più soltanto  qualcosa di non voluto ma tollerato da Dio, bensì addirittura come carattere inerente a Dio stesso[6]; e in cui  a noi, pallide teofanie  o «modi» della sostanza  divina sarebbe concessa unicamente la libertà di scegliere tra il «danzare in ceppi», cioè  accettare il proprio destino o esserne trascinati.. Una prospettiva non proprio consolante e che non sembra molto in grado  di fornirci quella dignità e forza d’animo che vorremmo avere in questo scorcio di vita che ci resta  e nell’ultimo metro di cammino terreno. Anche  la concezione di “zio Baruch”[7], su cui invece Paolo consente, e secondo la quale l’individuo tanto più salva di se stesso oltre la morte  quanto minore spazio e importanza egli concede vivendo alle questioni meschine che interessano solo lui e  muoiono con lui, e quanto più ne  accorda invece in vita alle grandi questioni e valori che gli sopravviveranno non sembra consolare colui che, come più o meno tutti, teme la morte come annullamento irreparabile  di quel sé unico e irripetibile che è lui stesso, lui proprio lui e nessun altri che lui.

3.

A meno che… A meno che non si ripensi al postulato del monismo rintracciando in esso delle implicazioni possibili, che ora cercherò di esplicitare reinterpretando anche  taluni interessanti spunti forniti dalle stesse teodicee monoteistiche.

Monismo non è sinonimo necessariamente di panteismo, potendosi intendere con esso non solo assenza di  trascendenza ma anche predisposizione da parte del mondo dell’immanenza al superamento della frammentazione, tendenza all’unità degli innumerevoli  «granuli » (per usare il termine di Paolo), che lo costituiscono:  una virtualità  che sarebbe nostro compito tradurre in atto in avvenire (e che, forse si è già realizzata o è stata avvicinata in passato). In quest’ottica si potrebbe rileggere la cosmogonia induista della « lila», il gioco divino abbandonandosi alla quale, Brahman,  l’essere supremo ha perso  coscienza e memoria di sé e si è  frantumato in miriadi di granuli, cioè noi e tutte le individualità esistenti ed esistite nel mondo; e ha fatto  questo – aggiungerei io –  non per giocare (perché mai dovrebbe?), ma perché, divinamente libero, ha usato male della sua libertà e commesso un’ azione poco bella.

Il male fatto da Dio? L’induismo non la mette naturalmente così; e quanto all’Islam, il  suo massimo pensatore,  al-Ghazali, avrebbe respinto tale domanda non solo come blasfema ma come priva di senso perché per lui  per definizione è male ciò che Dio non vuole e bene ciò che egli vuole e fa. E’ invece  l’ipotesi ardita,  avanzata da un pensatore cattolico, il filosofo torinese Luigi Pareyson, sostenendo che Dio, inteso come libertà assoluta, prima ancora di essereavrebbe potuto scegliere di non essere, e  così facendo avrebbe scelto il male invece del bene. Pareyson però non osa andar oltre l’enunciazione di tale possibilità escludendola subito dopo col dire che Dio l’ha scartata allontanandola da sé da sempre e per sempre (serbandone però il ricordo e lasciando  che così di essa approfittasse l’uomo, libero anch’egli di commetterlo), contraddicendo però in tal modo, a me sembra, il fondamento stesso della sua metafisica: se Dio fosse, come essa postula, libertà assoluta perché non dovrebbe essere eternamente libero di compiere azioni malvage? E, a parte la positiva scelta originaria di essere anziché non essere, non potrebbe averne già compiute di negative? Non potrebbe essere stata tale  la stessa creazione del mondo? E il dubbio angosciato  di Baudelaire ( «La teologia? Che cos’è la caduta? Se l’uno è diventato dualità a cadere fu Dio. In altre parole: non sarà la creazione la caduta di Dio?») non  appare  più che giustificato se si muove dall’assunto di una creazione avvenuta come atto libero e gratuito di un Dio onnipotente?[8]

In definitiva l’idea che sta al fondo di queste chiacchiere metafisiche e dentro la quale c’è un po’ del monismo spinoziano e della  lila  induista, un po’ della kenosi paolina e un po’ dell’ «ontologia della libertà» pareysoniana,  è quella di un unico protagonista del divenire cosmico, un essere il quale  nella sua assoluta libertà, e proprio perché “pareysoniamente” libero, può cadere ed è caduto facendosi imperfetta e sofferente storia umana.

Quando, come e perché?

«Fuori d’ogni comprender, come i piacque….»

4.

Se è così che andarono (e vanno) le cose, dopo la «caduta» accusata dall’essere  nel «creare» il mondo,  l’impegno dei suoi frammenti, dovrebbe essere   quello di operare «ut  unum sint», di ricreare (o di avvicinarsi quanto possibile) all’unità perduta, il che vorrebbe dire  che i granuli,  riconoscendosi per quel che sono: parti di un tutto originario, si aprano progressivamente al richiamo dell’unità e dell’amore, vincendo quella contraria dell’individualismo e della più o meno ostile separatezza.  In fondo questo è il succo del messaggio di tutti i grandi maestri di moralità della storia umana – da Buddha a Confucio, da Gesù a Maometto – e della stessa interiore «legge morale che è in me».  Della presa che quest’ultima ha nella profondità del cuore umano, parrebbe rendere testimonianza tutta la storia  che conosciamo;  una storia in cui, al pari delle molecole di una massa gassosa, le vite umane hanno disordinatamente vagato e vagano in un’infinità di traiettorie e moti “browniani” privi di ordine e meta ? vera «favola narrata da un idiota» ? e nella quale tuttavia sono discernibili una direzione e un senso prevalenti:  un alternarsi di progressi e di regressi verso forme di unione crescente, questa la direzione, in cui il senso verso l’unione tende a prevalere: in effetti dalla nascita delle prime comunità umane, nate tutte piccole e chiuse dal grembo della natura ai grandi stati e alle grandi confederazioni odierne, l’umanità si è mossa politicamente, culturalmente ed economicamente nel senso di  una crescente unità.  Non che il mondo attuale, solo per questo, sia il migliore dei mondi possibili, anzi, molti segni indicano che l’unità del mondo odierno sia una cattiva unità (del genere di quelle che nel passato anziché  tappe di progresso sono state premessa di arresti e rovinosi arretramenti), che si regge: politicamentesu fragili equilibri tra potenze “sovrane”, armate di armi di autodistruzione totale (quindi in ultima istanza sull’equilibrio del terrore), ora minacciati anche da un nuovo soggetto politico non-statuale, il terrorismo islamico; economicamentesu di un saccheggio indiscriminato delle risorse che ignora   pericolosamente l’esigenza di un’altra unità, non meno importante di quella tra gli uomini e cioè l’unità tra questi e il loroambiente; socialmentesu squilibri enormi di condizioni di vita tra popoli e popoli, classi e classi; culturalmentesull’egemonia di una cultura individualista e consumista, funzionale al mantenimento (finché dura) della cattiva unità ora descritta. L’indiscussa egemonia di quest’ultima sulle menti della stragrande maggioranza degli uomini fa temere che la natura umana, ben lungi dall’aver maturato le condizioni della svolta profetizzata, secondo Moltmann, dall’autore dell’Apocalisse, si presenti drammaticamente impreparata ad appuntamenti decisivi per le sorti dell’umanità stessa e, forse, del cosmo[9]

5.

Ma tutto questo che cosa ha da vedere con il nostro «ultimo metro» ?…. Beh, io sarei  arrivato da qualche tempo a ricavare da questo mio piccolo gran récit  un’ idea di resurrezione individualerazionalmente plausibile e sentimentalmente consolante (cose entrambe necessarie a un laico razionalista) che è questa: forse con il ritorno dell’essere all’unità e alla consapevolezza di sé egli potrà, alla luce di questa ultima, ricordare e rivivere un giorno come proprie tutte le  vicende delle innumerevoli vite vissute dai granuli in cui si è scisso e che sono giaciute poi dimenticate in un’inattiva memoria divina (simili a tanti files registrati nell’ hard disk di un pc abbandonato in un cassetto) e che ora egli può ricordare tutte in ogni loro momento. Questa mi sembra un’idea di resurrezione capace di qualche suggestione. Alzi la mano  chi, ormai vecchio come me, non prova un senso di perdita irreparabile, se  gli capita sott’occhio la foto ingiallita di una sua ragazza, della sua donna giovane, dei suoi figli piccoli, dei più fedeli amici della giovinezza e dell’età provetta? Ebbene, la fede stessa, se uno ce l’ha, non gli promette altrettanto perché potrà anche fargli  sperare di ritrovare tutti i suoi cari ed «ogni usata amante compagnia», ma non di riaverli  in ogni momentovissuto con essi. Mentre invece… nella mia ipotesi di resurrezione (arricchita dell’idea di  tempo, propria del pensiero zen di cui dico più avanti), ogni istante della sua  vita, e di quella degli infiniti  esseri vissuti e viventi, potrà essere recuperato al suo sguardo: sguardo che allora (quando e se ce lo saremo meritato) sarà quello del  Brahman il quale,  rinsavito, li osserverà tutti e li rivivrà con distacco ed affetto: anche quelli brutti perché allora gli appariranno per ciò che sono, degli «incubi innocui»; anche quelli di cui dovrà fare ammenda in quanto peccati contro se stesso; anche quelli vissuti come una umile sensitiva o un adorato gattino E magari sorriderà al ricordo di quando, nei panni di un famoso mistico medievale, ebbe a sentenziare: «L’amore umano… anche nel mezzo dei piaceri più bassi, il più depravato… per quanto riguarda tutto ciò che è positivo nei suoi atti, cioè tutto ciò che li rende un’analogia del vero amore, è Dio stesso che, in lui e per lui cerca Se stesso»  (però, dirà, quel  Maestro Eckart: aveva capito tutto)[10].

6.

Quanto precede ha tutta l’aria di ridurre il nostro concretissimo  problema, ovvero l’arte di ben morire,  a una fantasticheria  metafisica, una di quelle cose  condannate senza appello, e con qualche ragione, da un neoempirista alla Mach:

«O una questione è suscettibile di una risposta empiricamente verificabile o è priva di senso ».

A parte il fatto che è difficile non cascare dentro la metafisica parlando della morte, se ha ragione Pirandello di dire che  «l’uomo è un animale metafisico perché a differenza del cavallo sa di dover morire»[11], accetterei la sentenza se non credessi che quanto ho detto prima  non sia invece,  quanto meno, la sovrastruttura “raisonnante”, la  razionalizzazione a posteriori, d’un modo niente affatto astratto di conoscenza, che ispirandosi alle grandi culture orientali, tende a rispondere a domande teoriche con pratiche concrete. Chi conosce  lo yoga sa che tali pratiche offrono la possibilità di  un contatto particolare con i propri sensi e la propria interiorità; che questa si realizza maggiormente nei momenti dedicati alla meditazione (sanscrito dhyana, cinese chan, giapponese zen) ma anche mentre si praticano le posizioni o asana statiche e dinamiche dello yoga purché  fatte con la dovuta concentrazione[12].

Un contatto particolare con la propria interiorità che può anche essere interpretato come «esperienza diretta di Dio» [13](e così fa il credente induista e quello buddhista, che però parla non di Dio, ma di  «vuoto», qualcosa di simile, forse,  al deus absconditusdella teologia negativa) ma che proprio per la sua ineffabilità si presta legittimamente a più interpretazioni inclusa quella (che io qui chiamo mia ma solo per  praticità di discorso e, suppongo,  ignoranza di una fra le infinite pieghe del pensiero orientale) che essa ci consente di percepire  in noi stessi una traccia o indizio di un Sé più grande, di  quel Brahman virtuale che noi tutti fummo e, meritandolo, ancora saremo.

7.

Questo atteggiamento mentale e pratico e l’esperienza concreta e verificabile  che ne deriva offrono motivo di interesse, a mio giudizio, per la ricerca sulla morte che abbiamo intrapreso sotto due aspetti distinti ma convergenti.

Il primo è che essi consentono  un contatto non dirò con Dio (se lo facessi – come peraltro fanno gli induisti e come fa la maggioranza dei buddhisti, ma modificando il senso originario della messaggio del Buddha –  ricadremmo in tutte le aporie che ho contestato ai monoteismi dei figli di Abramo), bensì con quel Sé virtuale di cui ho parlato al punto precedente e con la promessa salvifica che esso reca (vorrebbe recare?) in sé.

Secondo, forse non meno importante, è che grazie ad essi sperimentiamo una percezione del tempo diversa da quella nostra, forse  più aderente alla struttura più intima e vera del tempo stesso: quella che, se vissuta come tale, dovrebbe consentirci di vivere in modo corretto tutti i momenti della nostra vita, incluso quello finale del nostro cammino mortale, dandogli tutta l’importanza – ma solo quella – che merita.  Per noi occidentali il tempo è vissuto come un continuumdi momenti incalzanti, in forza del quale tendiamo sempre a lasciarci rapidamente alle spalle il momento presente e a viverlo soltanto come attesa degli incombenti momenti successivi (per una qualunque ragione sperati e/o temuti) per poi vivere anche quelli nella medesima maniera e quindi, in sostanza nel non vivere  mai o quasi mai la vita contingente, ossia la vita tout court, che è sempre contingenza.

Secondo il diverso modo di considerare (e, soprattutto, di praticare) il tempo, in cui convergono grandi tradizioni culturali d’Oriente – yoga, taoismo, buddhismo zen – questo è dato invece da un succedersi di momenti discreti, ciascuno dei quali allorché  si presentifica diviene in gran parte  un fine in sé e come tale va vissuto, prestando soprattutto attenzione ai suoi contenuti specifici, in termini di sensazioni, emozioni, pensieri,  e alla richiesta di comportamenti appropriati che essi richiedono. Se si vive il momento presente così si scopre – provare per credere –  che esso è normalmente accettabile se non persino piacevole, perché lo spazio di cui in esso  disponiamo è sufficiente a contenere l’ingombro delle sensazioni e dei pensieri che esso porta con sé e a sopportarne il peso, anche se greve; mentre se si pretende di riempire quello spazio dei contenuti inevasi dei momenti passati (che persistono anche se, e proprio perché, ignorati), di quelli dei momenti presenti (ignorati a loro volta) e del pensiero dei futuri, ci costringiamo a vivere esattamente come viviamo noi oggi, «in questa età felice del benessere», oberati da centomila cose cui (non)pensare, sotto un peso che va oltre la nostra capacità di sopportazione, e quindi stressati, nevrotici, infelici.[14]

Momento normalmente accettabile se non piacevole… Anche quello che procede il morire, «questo supremo / scolorar del sembiante e venir meno / ad ogni usata amante compagnia»? Non si può mai dire prima che esso arrivi, per quanto bene ad esso ci si prepari. Come bene disse un noto compaesano di Marinella, : «Uomo sei grande o vil? Muori e il saprai».

A buon conto, a titolo di conclusione provvisoria, e con particolare riferimento al punto 7  mi permetto di riproporre alla vostra attenzione una storiellina zen che quasi certamente conoscete e che volendo si potrebbe anche poter considerare come  il « sugo – provvisorio – di tutta la storia» .

Un monaco zen camminando nella foresta si imbatté in una tigre e fuggì inseguito dalla belva  fino ad  arrestarsi sull’orlo di un baratro. La  tigre gli fu subito  addosso e il monaco cercò allora di  sfuggirle  scivolando  lungo la parete del baratro, tenendosi aggrappato  ai rami di un cespuglio abbarbicato ad essa. Quasi subito però   s’accorse che i rami del cespuglio cedevano e capì che un attimo dopo  sarebbe precipitato nel baratro. Proprio in quel momento estremo notò che il cespuglio a cui era appeso era un cespuglio di fragole. Riuscì ad allungare la mano e ad assaggiarne una,  trovandola  squisita.


NOTE

[1]           Paolo Degli Espinosa, valoroso tecnologo, da decenni punto di riferimento prezioso per chi si occupa degli aspetti sia tecnico-scientifici sia sociali e culturali della questione energetica, mi ha sorpreso proponendo a me   e a un paio di  altri amici un dialogo a distanza  sul nostro “ultimo metro” (siamo più o meno coetanei) e su come potremmo percorrerlo con dignità e fedeltà alla nostra visione laica della vita. Questo è il mio primo contributo al dialogo.

[2]        Trascrivo la perentoria definizione  che ne danno nel Dizionario di teologia(Tea, Milano 1994)  K. Rahner e H. Vorgrimler ,  due  “tra  i più prestigiosi teologi cattolici” del ‘900.: « E’ l’essere assolutamente santo, supremo trascendente il mondo, personale, incondizionatamente necessario, incausato, esistente per sé stesso è perciò infinitamente perfetto, che ha creato dal nulla tutte le cose »

[3]        Mi riferisco alla celebre asserzione di San Paolo della  kénosiso autoannullamento divino, secondo la quale Dio, nella persona di Gesù, volontariamente  «annichilì se stesso… diventando simile agli uomini » (Fil, 2, 5-8) e a quella analoga dello tsimtsum della cabala ebraica (per la bibl,, chiedere a Marinella).

[4]        Secondo una corrente di pensiero che va dall’800 a oggi, da Schelling, massimo esponente con Fiche e Hegel della filosofia idealistica (su cui vedi ancora la nota n.6)  al teologo W. Pannenberg,  l’umanità sarebbe accompagnata da una presenza divina, non onnipotente  e invasivamente provvidenziale (Pannenberg: «Un essere attuale, che fosse  anche onnipotente, verrebbe ad annullare la libertà umana, data la sua superiorità») bensì anch’essa progrediente nel senso di una propria sempre maggiore perfezione; intanto che, stando al teologo evangelico J. Moltmann la stessa  natura umana tenderebbe a mutare qualitativamente fino ad uguagliare quella divina avverando una profezia dell’evangelista Giovanni. Un processo, dunque, che se così fosse, vedrebbe riconvergere verso l’unità la dualità divina ed umana (e in  me riproporrebbe l’obiezione: perché due anziché uno? Non è stata la filosofia scolastica ad insegnarci che pluralitas non est ponenda sine necessitate?)

[5]        Ho amici carissimi, credenti, con alcuni dei quali da anni faccio attività «di movimento» in perfetta sintonia sui temi dell’ambiente e della pace, con questa sola differenza: che essi credono e traggono conforto dal credere in una presenza superiore ed amica al loro fianco che dà loro forza, gioisce  e condivide i loro “sagrin”; io, come dico più avanti, nell’esistenza di un Sé  onnicomprensivo  che può cadere e rialzarsi  ma entro le coordinate di una sorta di «storia ideale eterna». Non ho bisogno di dire che l’ultima cosa che mi interessa fare, con questi filosofemi, è marcare tale differenza. Tanto più che rileggendo con maggiore attenzione un testo del teologo H.Kung, inviatomi in fotocopia da Marinella, ho capito meglio che cosa è che ci unisce e come esso sia più importante di quello che ci divide: il fatto di credere (o di voler credere) che la storia umana e la realtà tutta in generale abbia, o possa avere,  un senso; o, con le parole di Kung, il fatto che  entrambi diciamo «sì a un fondamento e a un fine originario della vita umana e dell’intero processo cosmico». Quella che facciamo insieme  è’ una scommessa ( à laPascal), perché, dice ancora felicemente Kung, «questa risposta sul senso ultimo non può essere data dalle scienze naturali, ma soltanto da una fiducia: perfettamente ragionevole»

[6]        Ricordo bene, sebbene sia accaduta parecchio tempo  fa, la volta che manifestai ad un amico credente le mie simpatie per il panteismo e la sua battuta ironica (e tranchante): dunque Dio è anche il terremoto? Ho riflettuto cinquant’anni anni dopo di allora e le cose che scrivo qui conservano l’eco di quella battuta. In fondo nel mio piccolo ho seguito un percorso in parte simile a quello di Schelling, il quale come è noto in una sua prima stagione filosofica  professò una sorta di panteismo spinoziano, esaltando una natura divinamente bella e perfetta, salvo poi ad ammettere che c’erano in essa anche cose meno belle (i terremoti…). Solo che a questo punto mentre lui si è convertito a una visione dualista nella quale  Dio, “immerso  anch’egli nel tempo e nel cambiamento” diviene protagonista di una sorta di “teologia evoluzionista” (L. Bossi); il sottoscritto (si parva licet componere magnis) è rimasto fedele alla visione monista  pensando che di soggetti dolorosamente impegnati a cambiare in meglio la realtà  uno bastasse (e avanzasse).

[7]        “Zio Baruch” è Spinoza, così chiamato con riferimento alla civetteria di Paolo che, in base al suo cognome,  si compiace di considerarsenene un discendente.

[8]        Del teorema:  creazione = caduta propongo questa seria dimostrazione matematica, perfezionata il mese scorso a Neive (CN) con alcuni amici, tra cui Marinella
            Postulato: la quantità è una misura accettabile della qualità

           Definizioni:

Dio = Dio come sommo bene = infinito = 4    (A)

Creato = il mondo (che per la sua creaturalità non può non essere inferiore al suo Creatore di un addendo negativo  n) =  4– n   (B)

           Dimostrazione: Poiché la  totalità del reale prima della creazione= Dio=  4;   la totalità del reale dopo la creazione sarà  = 4+ (4– n) = 4– n  (C)

Da cui segue che  (C) < (A)

Ergo la totalità dell’essere dopo la creazione (C) vale meno di quanto valesse prima cioè (A).

CVD

           Commento: Ho il vago timore che il postulato di partenza sia privo di senso

[9]        Per evitare ciò gli uomini hanno, a mio parere, un tempo disperatamente breve in cui  porre in atto dei cambiamenti radicali: e cioè dar vita con metodi rigorosamente nonviolenti a una democrazia planetaria, sorretta da  istituzioni genuinamente federali mondiali, provvista di un’economia non di mercato, ma al massimo con il mercato, che  sfrutti l’ambiente con una pressione che non superi la sua carrying capacity e ne distribuisca le risorse in modo che  ogni essere umano eserciti su di esso la medesima impronta ecologica, rispettando infine anche i diritti delle generazioni future e le altre specie viventi: un programma sicuramente impossibile ma, come si diceva già 40 anni fa,  il faut être realistes.

[10]       Confesso che l’idea della resurrezione “minuto per minuto” non mi sembra la più insulsa tra quante  me ne sono passate per la testa. Soprattutto perché ho già sperimentato che un po’ funziona. Per lo meno  funziona ripensare a episodi anche nerissimi del passato e immaginare di guardarli con l’ “occhio del Brahman”. Questo quanto a guai passati. Vedremo che accadrà quando, molto verosimilmente, ne verranno di nuovi… Intanto, come mi ha spiegato da tempo un  poeta (che sicuramente non sapeva nulla di yoga ma era un poeta), «la nube del giorno più nera / è quella che vedi più rosa nell’ultima sera… »

[11]       Pirandello aggiungeva: «E tanti complimenti per il cavallo»…

[12]       Un ramo dello yoga, il karma yoga, insegnato da uno dei grandi maestri di yoga viventi, Satyananda Paramahansa, offre la possibilità di fare meditazione anche nell’azione e in Italia la scuola Kalpavriksha Satyananda che a lui si ispira,  insegna al ricercatore spirituale a far sì che «qualunque cosa faccia, ogni sua azione sia – non solo meditata ma – impregnata d’amore per ciò che sta facendo»(cfr. «Yoga Path», 46, 2004)

[13]       Secondo  un grande studioso di tali culture. Alan W. Watts, mentre la cultura cristiano-occidentale si muove alla ricerca di formule verbali in cui credere – «la pistis, ovvero la fiducia volontaristica in alcune proposizioni rivelate al riguardo da Dio» – , le prime puntano direttamente su una conoscenza   diretta del sacro – la «gnosis, ovvero l’esperienza diretta di Dio»–, esperienza non argomentata e parlata, il che non vuol dire assolutamente irrazionale ma, appunto diversa: mi verrebbe da dire che a differenza dell’Occidente che, riguardo al rapporto col sacro, prima della  «morte di Dio» si è a lungo dibattuta tra il «Credo ut intelligam» di sant’Anselmo e lo «Intelligo ut credam » di Abelardo, l’Oriente si sia mosso alla ricerca di una sorta di  «Animadverto ut credam et intelligam », cerco di sentire, avvertire interiormente, per credere e capire: un approccio molto concreto che forse avrebbe soddisfatto anche il neoempirista Mach.

[14]        Nella concezione del tempo come aggregato di momenti separati e indipendenti l’uno dall’altro sembra esserci più di una assonanza con quella propria della meccanica quantistica. In particolare nella versione estremizzata che ne dà  un filosofo di scuola zen, il massimo filosofo giapponese del  Medioevo (cfr. A.Tollini (a cura di), Pratica e illuminazione dello Shobogenzo. Testi scelti di Eihei Dogen Zenji, Ubaldini, Roma 2001), che forse sta alla meccanica quantistica come Democrito alla teoria atomica. Il parallelo mi è stato suggerito dalla lettura della recensione a un libro di J.Barbour, La fine del tempo (Einaudi, Torino 2004). Cercherò di approfondire questo spunto, che intanto segnalo e suggerisco a Paolo, ben altrimenti agguerrito sul fronte scientifico rispetto al sottoscritto.


 

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