Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria | Recensione a cura di Alberto Bosi (saggista)

Davide Grasso, Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, Alegre, Roma 2017, pp. 352, € 16,00

Il libro di Davide Grasso, oltre che una riflessione sulla storia che stiamo attraversando, è il resoconto di una esperienza estrema, di un’esperienza seria e profonda, motivata da un’altrettanto seria e profonda ricerca di significato. Partecipando dall’interno alla guerra civile in Siria, Davide ha affondato le mani in una ferita sanguinolenta e purulenta, ha visto cose che spesso noi tendiamo a ignorare per non deprimerci. Quando Davide era mio allievo al liceo (sono passati vent’anni), percepivo chiaramente che non era di quelli che si accontentano di sopravvivere, di vivacchiare;   voleva vivere non solo intensamente, ma anche trovare nella vita un significato che lo soddisfacesse. Quindi presentando il suo libro a Cuneo verso la fine del 2017 il mio sentimento è stato non solo di rispetto ma anche di una punta di soggezione, nel senso che il mio temperamento e la mia sensibilità mi tengono lontano dai «mari estremi» in cui lui si è avventurato (per fortuna sua e dei suoi potendo tornare a raccontare, cosa che ad altri suoi compagni non è stata concessa).

La bolla e gli schizzi del calderone

La prima sensazione è la presa di coscienza della nostra attuale situazione: noi in Occidente viviamo in una «bolla», nella quale abbiamo un’idea molto vaga di come si vive nel resto del mondo. Cullati e viziati come siamo da un flusso di consumi spesso superflui (parte integrante di un sistema che sta devastando il mondo), ma che riteniamo normali e naturali, diamo per scontate alcune condizioni di vita che non lo sono affatto. Non penso solo ai diritti politici, che sono costati lacrime e sangue ai nostri padri e che spesso non esercitiamo neppure, ma a diritti umani elementari come la sicurezza personale: ad esempio uscire di casa senza paura di prenderci una pallottola vagante, di non essere buttati a forza fuori di casa e ammassati in campi di concentramento, di avere qualcosa da mangiare a pranzo e a cena. In molte parti del mondo non è così: certo la Siria è uno dei posti peggiori, ma in molti altri questi diritti sono più o meno assenti.

Certo abbiamo diritto a rallegrarci con noi stessi per la fortuna che ci è toccata, ma dovremmo anche chiederci se la nostra fortuna non abbia un qualche rapporto con la sfortuna altrui; in altre parole dovremmo riconoscere le nostre responsabilità storiche nei drammi del mondo contemporaneo. Attualmente i mezzi di comunicazione non ci aiutano granché, spesso sembrano più portati a occultare che a informare; se ben capisco, il primo proposito di Davide recandosi in Medio Oriente era appunto di fornire informazioni di prima mano con la sua opera di giornalista alternativo. Un dialogo riportato nel libro può dare un’idea dell’abisso che ci separa da quel mondo. Appena sbarcato dall’aereo in Iraq, Davide, subito individuato come occidentale, viene apostrofato in albergo da alcuni iracheni: «Avete distrutto il nostro paese per il petrolio? []se è per il petrolio, che l’America se lo prenda pure []ma basta armi, basta armi!». E’ chiaro che questa gente – sicuramente non estremisti, ma normali cittadini – ha accumulato un enorme odio per l’Occidente, e che qualunque occidentale che venga a tiro può servire per scaricare un poco di questo odio, anche se nel caso specifico di Davide non c’entrava nulla con la politica americana e aveva manifestato contro l’invasione dell’Iraq (ma non dimentichiamo che anche il nostro Paese ha partecipato a questa invasione).

Mentre il nostro mondo assomiglia a una bolla, il resto del mondo può essere paragonato a un calderone ribollente, i cui schizzi ogni tanto ci colpiscono, ad esempio con gli attentati che hanno segnato gli ultimi anni. Terrorismo, fanatismo islamico? Queste parole non spiegano nulla, al contrario servono a evitare uno sforzo serio di spiegazione.

La spiegazione si trova nella storia degli ultimi due secoli, una storia della quale noi siamo stati i protagonisti assoluti: l’Occidente ha dominato e sconvolto il mondo, prima con il colonialismo e poi con la globalizzazione selvaggia attualmente in corso. Una conseguenza paradossale della nostra coltivata ed evoluta ignoranza, è che in fondo non sappiamo proprio perché questi terroristi ce l’abbiano tanto con noi; in sostanza non li capiamo e proprio per questo non siamo in grado di combatterli efficacemente. In realtà, come ho detto, gli attentati sono solo uno schizzo del calderone, quando da noi ci sono decine di morti là ce ne sono stati e continuano ad essercene centinaia di migliaia, certo non direttamente tutti uccisi da noi, ma dal movimento cui noi abbiamo dato avvio.

Giustizia e violenza 

Uno dei problemi principali dell’umanità da sempre: come rispondere alla violenza senza restare prigionieri della spirale della violenza, della guerra che genera altra guerra all’infinito? La nostra Costituzione «ripudia» la guerra, ma è nata da una guerra civile vittoriosa contro il nazifascismo, l’Isis di allora. D’altra parte, ritiene la difesa della patria (e quindi la guerra difensiva) un «sacro dovere del cittadino» (ma sappiamo che tra guerra difensiva, offensiva e preventiva c’è una larga area grigia). Nessuno ammette di combattere guerre ingiuste: tutti hanno diritti conculcati da rivendicare, vecchi torti da raddrizzare. Volendo qualche pretesto si trova sempre (basta ricordare la favola del lupo e dell’agnello), magari non del tutto campato per aria. Forse le guerre interamente ingiuste sono altrettanto rare di quelle interamente giuste; perlomeno nel senso che queste ultime, dopo aver iniziato per motivi di pura difesa, tendono facilmente a passare il segno, secondo il detto di Simone Weil «la giustizia, questa fuggiasca dal campo dei vincitori».

Davide comunque tiene a sottolineare che le forze armate, pur usando la violenza, non sono tutte sullo stesso piano; ad esempio l’YPG, le forze curde in cui ha combattuto, sono sostanzialmente forze di autodifesa territoriale, quindi strutturate in funzione difensiva e non offensiva (potremmo pensare all’esercito svizzero). Non si tratta di strutture rigide, ma di corpi volontari molto motivati e ai quali si cerca di fornire una preparazione ideologica, nel senso di un’ideologia laica (non antireligiosa) democratica e socialista nel senso del PKK di Ocalan. Mi pare che Davide tenda a pensare che in fondo la guerra come tale non è mai veramente giusta, ma in certi casi, come quello in cui lui si è trovato, può essere necessaria, e può corrispondere a un’esigenza etica, quella di prendere le difese della parte «meno ingiusta». Il che significa, mi pare, accettare la contraddizione di chi sente il dovere di usare mezzi violenti per evitare un male peggiore: siamo su una china scivolosa, perché per questa via c’è il pericolo di giustificare tutto; ma è lo stesso ragionamento di un Bonhoeffer quando partecipa alla congiura per uccidere Hitler o addirittura di un Gandhi quando partecipa, sia pure non come combattente ma come infermiere (meglio essere violenti per difendere la causa che ti sembra più giusta, che non fare nulla), a due guerre dell’impero britannico; è lo stesso ragionamento di Simone Weil, quando si reca a combattere in Spagna per la repubblica, contro i generali ribelli appoggiati da Hitler e da Mussolini (il caso degli internazionali che hanno combattuto nella guerra civile spagnola sembra molto vicino a quello attuale della Siria).

Attraverso le immani tragedie dello scorso secolo e di questo nostro, possiamo comunque intravedere uno spiraglio di speranza: mentre per gli antichi greci o romani l’orizzonte della guerra era intrascendibile, due millenni di storia, le religioni monoteistiche e il pensiero laico hanno messo in rilievo la fondamentale unità del genere umano e, soprattutto negli ultimi secoli, hanno immaginato delle alternative (in particolare con il federalismo di Kant). Infine, oggi più che mai si sta diffondendo l’idea dell’umanità come comunità di destino: siamo alla lettera tutti sulla stessa barca, l’alternativa è tra l’interdipendenza nella vita e quella nella morte. Sono consapevolezze, forze sottili,  intangibili, che col tempo e con l’estendersi di una cultura e di un’educazione conforme possono diventare forze capaci di deviare la traiettoria della storia umana da un destino di autodistruzione. Personalmente, non so cosa avrei fatto se fossi stato al posto di Davide, ma nella mia situazione certo molto diversa dalla sua sento il bisogno perlomeno di lavorare per un’alternativa nonviolenta a cominciare da me stesso e dalle mie immediate vicinanze (ad esempio, dallo stile di vita, dalle scelte di consumo – alimentari, energetiche ecc. – del nostro mondo ricco, che hanno un impatto devastante sulle condizioni del resto del mondo).

Religione e violenza 

Uno dei leitmotiv più insistenti del libro – e non c’è da stupirsene considerando gli orrori che l’Isis, e non solo, ha perpetrato nel nome della religione – è certamente il ritornello «Tantum potuit religio suadere malorum»: le religioni come fonte e fomite di intolleranza, di fanatismo, di violenza (l’episodio di Abramo pronto a sacrificare Isacco viene da lui visto come emblema della potenzialità omicida delle religioni).

Una prima osservazione: mi pare che quasi mai le religioni siano le cause profonde dei conflitti. Per quel che mi risulta dalla riflessione sulla storia, queste cause sono soprattutto di natura politica ed economica; poi le differenze etniche e culturali, religiose, segnano linee di frattura, di identità contrapposte, e con ciò cristallizzano le identità e rendono più crudeli i conflitti; poi al conflitto di interessi si aggiunge quella cosa terribile che è l’odium theologicum: il nemico non è semplicemente un nemico, ma è il Male, ossia qualcosa per la cui eliminazione ogni mezzo è buono (e non mancano esempi autorevoli di grandi uomini di Chiesa, da san Bernardo a Lutero, a sostegno di questa posizione).

In secondo luogo, distinguerei le religioni come fatto istituzionale, gerarchico, dogmatico, come centri di potere e di controllo sociale, dalla spiritualità che ne costituisce il fondamento: senza spiritualità la religione muore, ma ci può essere una spiritualità laica, che non si traduce in forme istituzionali, come ci può essere una fede laica; ad esempio il credo libertario e democratico socialista di Davide mi pare un esempio di fede laica, una fede nella giustizia per la quale egli è stato in grado di mettere a rischio la vita (e l’autenticità della fede, sia laica che religiosa, si vede proprio da ciò che si è disposti a rischiare per esserle coerenti). Se la fede si vede dai fatti, la fede di un Che Guevara, la fede di tanti partigiani che hanno dato la vita per il loro ideale di giustizia, non mi sembra meno autentica di una qualsiasi fede confessionale.

Alcuni teologi cristiani hanno recentemente pubblicato un libro dal titolo significativo Oltre le religioni: in sostanza, mi pare che sia un tentativo interessante di mobilitare le riserve di senso che le religioni contengono (sono esse in effetti le più importante riserve risorse accumulate dall’umanità nel corso dei millenni), orientandole non verso il gioco distruttivo per cui «il mio Dio è più grande del tuo», a verso una purificazione che le porti a farsi sostegno di un’umanità nuova, finalmente consapevole non solo della propria interdipendenza, ma anche della propria unità di destino. E questo naturalmente significa anche modificare profondamente la nostra immagine di Dio, dal Dio che se ne sta lassù nei cieli e che ogni tanto interviene nel nostro basso mondo, al Dio che vive ed agisce nel più profondo della coscienza dell’uomo e della sua storia.

L’utopia laica del Rojava

Non c’è dubbio che nel Rojava (nel nord-ovest della Siria) stia formandosi l’embrione di una nuova società, organizzata su base comunitaria locale, con consigli ed assemblee sia dei civili che dei militari, in cui è normale anzi doverosa la critica, la segnalazione di ciò che non va e la proposta di innovazioni. Una risorsa economica importante è il petrolio, ma tutta l’economia è organizzata su basi comunitarie per soddisfare i bisogni essenziali. Si elaborano programmi economici su base volontaria e non di tipo sovietico, di pianificazione dall’alto; i salari sono quasi uguali per tutti, ma con una certa preferenza per i lavori più faticosi e usuranti, contrariamente a quanto succede da noi: un operaio guadagna leggermente più di un impiegato. La novità più sensazionale (soprattutto rispetto alla tradizione islamica e non solo islamica di subordinazione della donna) è la posizione della donna, non solo del tutto equiparata all’uomo, ma addirittura privilegiata (riferimento al matriarcato originario in Ocalan). Anche nell’esercito, ad ogni corpo maschile corrisponde un corpo femminile, spesso attivo anche in combattimento.

Una cosa che colpisce particolarmente nel libro è il resoconto dei dialoghi di Davide con i giovani spesso giovanissimi commilitoni: il sacrificio di sé come forma di autovalorizzazione e di riscatto (in questo senso con Isis non è lontano) da loro non compiuto in funzione del paradiso islamico (per quanto non pochi siano i credenti) ma di un futuro migliore per la propria gente; un’impazienza in certuni, quasi un «dispetto» per non essere ancora morti. Questi giovani vogliono uscire dall’insignificanza delle loro piccole vite, vogliono avere il senso di non essere vissuti invano. Spicca in contrasto la protesta di Davide. «Io non volevo morire».

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