In Mostra alla London School of Economics di Londra, l’altra faccia del Boom Economico indiano

Daniela Bezzi

Ultimi giorni per visitare la mostra Behind the Indian Boom alla LSE (London School of Economics) di Londra. Non proprio dietro l’angolo, ma assolutamente da non perdere per chi ha in programma una trasferta anche breve nella capitale britannica. Di cosa si tratta? Della documentazione quanto mai eloquente, partecipe e diciamo pure impressionante circa quel tumultuoso scenario di ‘Disuguaglianza e Resistenza nel cuore della crescita economica indiana’ che così spesso è nel cuore di questa News Letter, e senz’altro nel focus dei molti incontri spesso ospitati dal Sereno Regis – l’ultimo in ordine di tempo, il 17 gennaio in Sala Poli, che ha visto protagonista la studentessa Alice De Meo sul tema L’India Nucleare, al centro di così tante e spettacolari proteste in India.

Già in precedenza allestita alla Brunei Gallery, e cioè negli spazi espositivi della prestigiosa SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra, la Mostra che sta per concludersi alla Atrium Gallery della LSE è in effetti il risultato di una inedita collaborazione tra i dipartimenti di Antropologia dei due istituti (LSE e SOAS) nell’arco del triennio 2014/2017, sul tema ‘Disuguaglianza e Povertà’. Ed è una Mostra importante, oseremmo dire preziosa (nonostante l’assenza di cosiddetti sguardi d’autore), perché ogni scatto o sequenza tematica è frutto di periodi di field works che si sono protratti e rinnovati nel tempo, in presa diretta con livelli di emergenza sociale e tensione anche politica difficilmente documentabili altrimenti.

Soprattutto in focus l’inferno del lavoro. Un inferno minutamente documentato dalla macchina fotografica, dalla video-camerina, dallo sguardo e dagli appunti di chi ci si è trovato dentro non certo per caso, né in veste di photo-reporter – ma come ricercatore, nel senso che un Giulio Regeni avrebbe dato a questa parola. Uno che si è scelto un campo di osservazione, e periodicamente, anno dopo anno, ci ritorna – anche quando ormai non avrebbe più niente da scoprire, anche quando quello scampolo di mondo ai confini del nostro mondo gli è diventato così familiare da ritenersi esperto. Perché a quelle comunità e territori assediati da problematiche socio-ambientali di inimmaginabile brutalità, e spesso in resistenza, il ricercatore si sente di appartenere ben oltre la cosiddetta participant observation. Sguardo insomma che da un certo punto in poi avverte l’urgenza di condividersi ben oltre le Conference Calls – per diventare denuncia.

Ed eccoci dunque dinnanzi a una quantità di quadrerie, suddivise per titoli che potrebbero sembrarci un po’ sommari (carbone, mattoni, cotone, alluminio) e nell’insieme documentano l’impressionante iniquità di questa seconda potenza emergente subito dopo la Cina, che senz’altro trova conveniente impiegare il lavoro dell’uomo al posto delle macchine, perché non costa nulla, o quasi. Il minimo garantito per giornata in India è fermo infatti sotto i 2 Euro, quando pagato; perché spesso si lavora per una scodella di riso, o in cambio degli scarti da rivendere al mercato, non senza la tangente alle mafie locali.

Ed eccoci dunque a contemplare immagini di miniere a cielo aperto scavate a mani nude, le donne senz’altro pari agli uomini e i bimbi parcheggiati tra i detriti. O di pietraie che si scarnificano colpo dopo colpo senza neppure l’idea di una trivella, basta il martello. E poi i mattoni, modellati uno per uno in marcite di acqua e argilla per poi essere messi (uno per uno) ad asciugare e infine trasportati su precarie biciclette che non si sa come riescano a marciare. Mattoni che poi serviranno a costruire palazzi, o grattacieli – ed in un filmato, ecco la fila delle donne che quasi in un danza se li lanciano con destrezza quei mattoni (e non è Bollywood, ma il ‘nastro trasportatore’ in versione indiana…).

E poi c’è l’infinita migranza del lavoro stagionale. Le stime più recenti parlano di 140 milioni di persone, per flussi che in effetti non sono quantificabili. Immagini di ricoveri precari, spesso un telo per terra; di umanità stipata in carri come bestiame; di donne ammucchiate nel sonno, nel caleidoscopio dei loro sari. Per non dire del lavoro tra tutti più indecente, occupazione esclusiva dei dalits, gli intoccabili: la ‘gestione’ della merda che ogni giorno si accumula nell’infinità di latrine negli slums, l’habitat prevalente dell’India all’ombra dei nuovi complessi residenziali. Un filmato mostra in close up il ricorso alla cenere per attutire la puzza, senza guanti di protezione, con il solo ausilio di una paletta, mosche ovunque. E l’assoluta miseria del contesto: insediamenti cresciuti su sé stessi, niente acqua, fognature. “Lei è pagata, ovvio: 100 rupie al mese…” spiega con sussiego la padrona della latrina, di casta solo un gradino più alto della dalit che le arriva in casa ogni mattina. L’equivalente di 1 euro e 30 cents.

Viene spontaneo chiedersi come una simile emergenza possa reggere – e infatti non regge. Nel settembre del 2016 ha fatto “notizia” la magnitudine di uno sciopero generale che ha visto 180 milioni di lavoratori (o forse solo 140 milioni, un bel numero comunque) imbracciare le braccia in tutti i comparti del lavoro in India. Evento straordinario non solo per i numeri, più ancora per il coraggio – se si pensa che il 92% della forza-lavoro indiana rientra nel cosiddetto lavoro informale, ovvero senza tutele, alle mercé di caporali che concorrono alla più perfetta esternalizzazione di ogni mansione, nella rete di appalti e subappalti. Scioperare in India resta dunque una sfida, anzi un grosso rischio, al quale una moltitudine di lavoratori indiani nei più diversi comparti ha il coraggio di ricorrere e sempre più spesso, nonostante le intimidazioni.

Ma più spesso non c’è sciopero né rivendicazione di giustizia che tenga. Le cronache dell’India, specialmente nelle aree tribali dove il solo ‘impiego’ che esiste è in miniera, o nella totale precarietà del lavoro stagionale un po’ ovunque, o in certi stati come l’Uttar Pradesh dove la questione castale è ormai lotta per bande, la legge la fa il più forte, caporalato locale o multinazionale che sia, con l’aiuto della forza pubblica. Come raccontano i magnifici B&W di Javed Iqbal, unico fotografo professionista incluso in questa selezione non certo per l’indubbia qualità del suo lavoro, ma perché il suo lavoro si è affinato precisamente in queste aree di negritudine estrema: sguardo-attivista.

E più che mai attivista lo sguardo, impegno, passione di coloro che questa mostra l’hanno vissuta, oltre che curata, da testimoni: il film-maker Simon Chambers insieme all’antropologa Alpa Shah, con la collaborazione di Jens Lerche, Vikramaditya Thakur, Itay Noy e molti altri, tutti docenti o dottorandi di indubbio valore. All’attivo del primo una serie di documentari, in particolare sulla resistenza dei tribali Gond contro la  multinazionale dell’alluminio Vedanta in Chattisgarh; e una recente docenza alla Jamia University di Delhi (non pochi filmati in mostra sono frutto dei suoi corsi). Quanto ad Alpa Shah, difficile immaginare un profilo più robustamente attrezzato accademicamente e più radicalmente indipendente sul fronte della ricerca. Specializzata nelle aree e problematiche adivasi soprattutto in Jharkhand, la Shah è tra i pochissimi che siano riusciti a penetrare quella partita di irrisolvibile complessità che si sta giocando nelle foreste: la lotta armata. Quell’insorgenza naxalita, di ispirazione maoista, che nel 2006 l’allora Primo Ministro Manmohan Singh definì “il problema più grave per il Governo Indiano dalla dichiarazione di Indipendenza ad oggi” e che tale resta anche oggi, cronaca quotidiana di villaggi in fiamme, attentati, repressione, totalmente ignorata dalle nostre testate, ma non certo dai media indiani. Non a caso questo Percorso/Mostra si conclude con gli scatti che la Shah ha raccolto durante i field works nelle aree occupate dai Maoisti: emozionanti per la condivisione di un vissuto (marce forzate, esercitazioni militari, lavoro sociale tra i tribali) così incredibilmente arcaico e contemporaneo al tempo stesso.

Ma la domanda di partenza ci resta addosso, anche una volta usciti dal Percorso/Mostra: possibile che questo scenario di disuguaglianza possa correggersi, in parallelo con un boom economico di tali e spettacolari profitti che un buon numero di nababbi indiani si trovano da tempo elencati tra i più ricchi del pianeta? La risposta dei curatori è: No, semmai l’opposto. E’ proprio grazie a uno scenario di così strutturale e senz’altro ‘governata’ disuguaglianza, che il Boom economico dell’India riesce a generare profitti così spettacolari, e non solo per l’esigua minoranza dei suoi nababbi (perché il banchetto indiano, ormai da anni, fa da volano alla finanza globale).

E non possiamo quindi fare a meno di associare questa Mostra, al Rapporto che Oxfam ha recentemente presentato alla vigilia del WEF di Davos: significativamente intitolato “Ricompensare il lavoro, non la ricchezza”, in focus precisamente sugli stessi temi, l’Oxfam Report perviene precisamente alle stesse inquietanti conclusioni circa la crescente erosione dei diritti nel mondo del lavoro, come prerequisito di crescita economica, invece che di giustizia. E la conclusione vale per tutto il mondo, non solo per l’India.

Links/Info

Behind the Indian Boom, fino al 15.2.2017, Atrium Gallery, London School of Economics, Houghton St, London WC2A 2AE, Regno Unito

http://www.lse.ac.uk/Events/2018/01/20180115t1000vATR/Behind-the-Indian-Boom

Rapporto Oxfam sulla Povertà, Ricompensare il Lavoro non la Ricchezza: 

http://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2018/01/Rapporto-Davos-2018.-Ricompensare-il-Lavoro-Non-la-Ricchezza.pdf


0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.