Spiritualità di Nanni Salio

Spiritualità di Nanni Salio. Morte, violenza, nonviolenza

Enrico Peyretti

 


Spiritualità / Di fronte alla morte / Morte, violenza, nonviolenza: modi di morire
La nonviolenza sfida la morte / La morte rivela e compie la vita

Spiritualità

Nel secondo anniversario della morte, ricordiamo la spiritualità di Nanni Salio, tornando in vari modi sul suo lavoro, sulla sua ricerca, sulla sua vita, sul senso che ha dato alla sua vita. Qui tento di scoprire qualcosa della sua spiritualità. Ho già cercato, dopo la sua morte, come in un commiato, di leggere la sua vita come una “vita per gli altri”. Questa è, ne sono intimamente convinto, una forma di vita che la morte non annulla.

Che cosa è la spiritualità di una persona? Direi, con semplicità, che è quel nucleo di valori, persuasioni e sostegni, obiettivi di vita, che in una persona orientano la sensibilità e le scelte. È la vita intima e profonda di una persona, la sua capacità di sentire e rispondere ad appelli della vita. Una spiritualità può attingere a lunghe tradizioni spirituali e sapienziali, plasmate ora più ora meno in forme personali.

Ci sono spiritualità religiose, più o meno strutturate, e ci sono spiritualità che non si riconoscono in tradizioni religiose, anche se da tutto sanno ricevere alimento alla vita profonda.1 La spiritualità significa qualcosa che non è il livello intellettuale né l’emotivo, non è una religione, non è una filosofia, ed è anche qualcosa di queste. È ciò che “ispira” dal profondo, dall’intimo, il pensare e l’agire di una persona. È il mistero di una persona, che un po’ traspare e molto resta inverificabile e assolutamente inviolabile, di quella persona, e solo in parte si può cogliere e descrivere, senza pretesa di definirlo.

Riusciamo a vedere qualche carattere della vita spirituale di Nanni? Non è tentativo che uno possa affrontare da solo: gli amici, gli eventuali lettori che hanno conosciuto Nanni, potranno integrare. Io lo ricordo severo ed esigente con le religioni istituzionalizzate, specialmente nel nostro Occidente, ma non sordo, e tanto meno sprezzante, verso la sensibilità delle persone religiose. La laicità di Nanni era lontana, per quanto ne ho capito, da una freddezza che a volte si constata, verso la dimensione spirituale dell’umano. Riconosceva i maggiori profeti e i santi della giustizia e della pace nelle diverse tradizioni storiche religiose. Vedeva che, dove le religioni cercano e acquistano un potere nella società, offuscano la loro luce e non aiutano il cammino della pace fondata negli animi.

Oggi, anche il pacifico buddhismo, a cui Nanni era vicino, in alcune società in cui prevale, come il Myanmar, ha dato luogo a fatti di discriminazioni violente, dolorose per tutti noi. Dove invece le religioni “dicono la verità al potere” (espressione attribuita a Gandhi), esse contribuiscono alla vita giusta. Nanni coltivava la riflessione razionale e scientifica per la costruzione della pace, ma, come discepolo di Gandhi e di Capitini, profondamente religiosi, non poteva non sentire le vibrazioni interiori e gli orizzonti di questi maestri sul mistero che ci avvolge e ci chiama, nella storia, verso la vita giusta.

Nel cattolicesimo italiano Nanni sapeva vedere gli impegni per la pace, ma sempre con vigile esigenza. Per esempio, ricordo che, sul famoso giudizio dato dal papa Benedetto XV, il 1° agosto 1917, sulla guerra mondiale allora in corso, «Inutile strage», Nanni diceva con amara ironia:

«Come se potesse esserci una strage utile….».

L’opera per la pace, precedente e seguente, di quel papa non ascoltato, è ben più ampia e approfondita di quella sola frase.2 Ma Nanni aveva ragione perché la Chiesa, fino al Concilio 1962-65, non mise in discussione la teoria antica della “guerra giusta”, o meglio “giustificata” a ben determinate condizioni. Di questa dottrina era facile abusare da parte degli interessi di potenza, a cui si piegava la morale ufficiale: i cappellani militari insegnavano che uccidere in guerra per obbedienza, senza odio personale, non era peccato, ma dovere del buon suddito.3 Furono pochi gli obiettori di coscienza per motivo cristiano fino dalla prima guerra mondiale e crebbero di numero dopo il Concilio, insieme a una crescente teologia della pace.4

La severità esigente verso le religioni, come quella di Nanni Salio, è sintomo di bella sensibilità spirituale, di attesa di un bene operante. Le religioni devono far tesoro di chi, stimolandole e criticandole, le aiuta nel loro compito di sviluppare lo spirito umano.

Di fronte alla morte

Ogni spiritualità si misura sul senso positivo che riesce a dare alla vita, e perciò anche si confronta con ciò che colpisce e riduce la vita: la violenza e la morte; l’offesa e il dolore; il tempo che limita e taglia le aspirazioni umane. Una spiritualità che riconosce valore alla vita, che ama la vita, resiste e si oppone a tutto ciò che violenta la vita.

Nanni amava la vita, le vite, le persone, la natura, pur parlando spesso, con il buddhismo, di “impermanenza” nostra e di tutto. Il “non permanere” in questa via, io penso che non significhi unicamente finire nel nulla, ma possa significare anche passare in altre forme di vita. La fragilità, la precarietà e provvisorietà, non riduce il valore e la bellezza, il dovere di difendere la vita dalla violenza. Non è la forza materiale che dà consistenza e valore a ciò che vive.

Alla nonviolenza Nanni ha dedicato tutta la sua vita e ogni sua energia. La nonviolenza positiva è una passione per la vita, proprio per la vita fragile e minacciata, e non vuole, strenuamente non vuole, non accetta, non sopporta che la vita sia offesa, che sia usata come strumento utile, che sia dominata e oppressa: la nonviolenza non vuole che la morte prevalga sulla vita. Eppure ogni vita è limitata dal tempo, e muore. Come sta la nonviolenza di fronte alla morte, ad ogni forma di morte?

«Di fronte alla morte si aprono domande poco esplorate, anche da chi come noi si propone di costruire una cultura della nonviolenza».

Così scriveva Nanni Salio a Giuliano Pontara, l’8 novembre 2015, all’indomani della morte, pochi mesi prima di lui, della propria compagna Daci.

Nanni sentiva che la nonviolenza deve dare una risposta sul problema della morte. Sono convinto che aveva una sua bozza di risposta, anche se mi disse, anni addietro, che sperava di vivere a lungo per portare più avanti il lavoro. Sul sito del Centro Studi Sereno Regis, in data 1 luglio 2010, Nanni Salio commemorava Elise Boulding, Enzo Tiezzi, Rina Gagliardi, scomparsi da poco, sotto il titolo “Impermanenza, Compresenza e Fragilità”. Scriveva in conclusione:

«Pur nella continua incertezza esistenziale delle nostre vite, ci è di conforto pensare e percepire la vostra presenza nel grande oceano della compresenza capitiniana, dell’inter-essere, delle onde di coscienza individuali nel quale un giorno anche noi confluiremo».

Così, dalla morte di alcuni maestri raccoglieva una eredità di pensiero e impegno, vedendo la loro impalpabile continuità nella nostra vita.

C’è poi la nostra morte personale. A questa certamente Nanni pensava molto nel tempo della sua malattia, quando rispose ad una comune amica: «Mi chiedi Come sto? Eh, si vede la vita in un altro modo».

Non mi risulta che abbia sviluppato o espresso una più ampia riflessione specifica sulla nonviolenza e la morte. In ogni caso, suggerita dalla vita di Nanni, e dal medesimo impegno per la nonviolenza, questa ricerca è compito nostro. Una vita nonviolenta combatte la morte inflitta, aggiunta, ma di fronte alla morte inevitabile che cos’altro può fare?

Morte, violenza, nonviolenza: modi di morire

Che cosa può fare la nonviolenza di fronte alla morte? Che cosa sa e cosa dice la nonviolenza sulla morte? Direi che può fare due cose: combattere la morte, e addomesticare la morte, riconciliarsi con essa. La morte è sempre nemica, o può essere amica?

La violenza è morte aggiunta, artificiale e cattiva, alla nostra morte naturale. La guerra, e le altre forme di violenza, anche strutturali e culturali, credendo di ribellarsi alla morte, la moltiplicano e la incrudeliscono. Evitare questa morte nemica è opera di vita, è costruzione di bene e di felicità possibile. È l’opera della pace giusta.

La morte naturale può essere non violenta, o addirittura amica? Spesso è difficile, travagliata, dolorosa. Un impegno nonviolento della scienza medica e della vita sociale, può ridurre il dolore della morte, umanizzarla quanto possibile assicurando la coscienza e la dignità di chi muore, in modo che possa essere una morte se non dolce, almeno pacifica.

Guardiamo alcuni modi di morire. La retorica violenta ha esaltato la morte del combattente, cioè di chi riceve la morte mentre dà morte, coinvolto in una spirale folle e tetra. Ha celebrato la morte dell’eroe violento, che ha molto ucciso; ha cantato la “bella morte” fascista, ha consacrato la morte del “martire” – “testimone” di che cosa? – sacrificatosi per uccidere. In simili esperienze, è la violenza che regna sulla vita.

Questo morire, usando la morte propria come arma contro la vita altrui – tipico il terrorista sui-omicida – è un servire la morte disprezzando la vita, è impersonare la violenza, è ridurre la vita umana ad un caso biologico, senza una dimensione dello spirito.

Ci sono altri modi di morire. Negli stessi giorni di Nanni cade l’anniversario – il 30 gennaio 2018 è il settantesimo – dell’uccisione di Gandhi da parte di Godse, un fanatico indù.

Gandhi distingueva la nonviolenza del debole e del vile dalla nonviolenza del forte. Noi sappiamo che una volta egli si chiese: «Ho io in me la nonviolenza dei forti? Solo la mia morte lo mostrerà. Se qualcuno mi uccidesse e io morissi con una preghiera per il mio assassino sulle labbra, e il ricordo di Dio e la consapevolezza della sua viva presenza nel santuario del mio cuore, allora soltanto si potrà dire che ho la nonviolenza dei forti»5. Jean-Marie Muller commenta così: «Gandhi è morto esattamente come aveva intravisto. Noi sappiamo oggi quello che lui stesso ignorava: egli possedeva realmente in sé la nonviolenza dei forti»6.

Nella morte di Gandhi ci sono due cose: da un lato l’odio fanatico, il crimine dell’assassino, dall’altro una pienezza di vita per Gandhi. Certo, la sua azione per l’unità e la nonviolenza dell’India (ben più che la liberazione dal colonialismo inglese) fu spezzata, ma l’atto di morire con amore ha resa la sua azione ininterrotta e diffusa in tutti i paesi. La morte di Gandhi ha neutralizzato la violenza con cui gli è stata inflitta, l’ha rovesciata in una feconda nonviolenza. Gandhi ha transustanziato – cambiato la sostanza – dell’atto che gli ha dato la morte.

La Grande Anima, il Mahatma, che viveva in quel piccolo uomo seminudo e magro, un vulcano di energia spirituale, si è diffusa in tutto il mondo, accendendo mille resistenti tenaci focolai di spirito, desiderio, ricerca, azione nonviolenta.

La storia umana, minacciata e deturpata da tante violenze di ogni genere, sta coltivando e sperimentando anche la forza della nonviolenza, che umanizza tante situazioni di conflitto. La cultura dominante non sa ancora vederlo, ma lo vede chi si cura di esplorare la letteratura storica ormai abbondante che documenta le lotte nonviolente, specialmente da un secolo in qua.

La nonviolenza non si impone, non ha una logica di vittoria, non rovescia il mondo da feroce a tutto mite, ma mantiene tenacemente aperta l’alternativa operante della sapienza politica, cioè del saper vivere insieme senza dominare o distruggersi, e questa è realtà che smentisce il dogma della forza violenta come regina della storia.

La legge della vita è la forza nonviolenta, diceva Gandhi.

Questa forza nonviolenta sfida la morte in Gandhi, attivissimo, ucciso da una morte che non poté distruggerlo, e sfida la morte in tutto il movimento storico mondiale mosso dalla sua esperienza, movimento che riassume la migliore sapienza “antica come le montagne”, e apre il nuovo più umano modo di convivere. La nonviolenza sfida le strutture, gli strumenti e le volontà che imperano dando morte ai popoli, e sfida la morte che la violenza infligge ai più coraggiosi e più esposti del movimento, trasformandola in testimonianza di azione per la vita.

Il fondamento di questa fiducia forte nella vita e di questa attiva speranza al di là delle forze di morte mi sembra espresso limpidamente da Gandhi stesso, che scriveva: «…Vi è una forza vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio (…). E questa forza è benevola o malevola? La vedo esclusivamente benevola, perché vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce»7.

La resistenza della vita e del bene è argomento della fede di Gandhi nella Verità, che per lui è l’unità profonda di tutte le cose. Chi si impegna nella nonviolenza ha una fede, in tante forme diverse, perché guarda e opera un passo più avanti del calcolo, dell’interesse particolare, delle fazioni che dividono l’umanità, della realtà limitata dalla morte e dalla violenza, e comincia già a vivere nella “realtà liberata” (Capitini) per portarla nel mondo attuale in cammino.

La nonviolenza sfida la morte

La nonviolenza sfida la morte, non respingendola addosso ad altri, come fa la guerra (Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra), ma contribuendo ad addomesticarla, a renderla domestica, familiare, ad averla presente nel vivere. «Si conoscono solo le cose che si addomesticano (…) Se tu vuoi un amico, addomesticami», dice la volpe, che potrebbe anche lei essere temibile, al Piccolo Principe. Riuscirà l’umanità a trasformare la morte da nemica a “sorella” come la chiama profeticamente san Francesco nel Cantico delle creature?

La morte ci è presente non solo per l’amaro spettacolo continuo delle violenze che uccidono e opprimono tante vite nel mondo, ma anche come consapevolezza della nostra fragilità. Questa nostra morte, specialmente con l’avanzare dell’età, va familiarizzata, per non esserne ossessionati, per non chiudersi in un egoistico, avaro e inutile risparmio di sé. Si può addomesticare la morte con la scienza e l’arte medica, con la cura della salute, con l’esercizio generoso della nostra attività, con l’amicizia, l’affetto, la solidarietà sociale, con la speranza oltre il visibile. Soprattutto si può riempire di vita la morte naturale e inevitabile, vivendola come uno spendersi fino in fondo nel lavoro per la giustizia e la pace.

Molti dei più coraggiosi amici della nonviolenza hanno pagato con la vita il loro impegno, come abbiamo visto in Gandhi. Questo è un modo di vincere la morte, di trasformarla in un atto di vita. Ma anche chi, in limiti personali modesti, lavora per qualche lotta giusta con mezzi nonviolenti, e coltiva il pensiero nonviolento, costui sta consegnando la sua vita agli altri, alla pace, a uno stadio di ulteriore evoluzione spirituale umana, e con la sua morte consegnerà un po’ più di vita a chi continua, come ha fatto Nanni a noi.

Morire nel patire violenza anziché far violenza ad altri, morire con coraggio, con amore, senza subire passivamente la morte – così hanno fatto Gesù, Gandhi, M.L. King e tanti altri -, può essere non morire del tutto. Può essere continuare a parlare, ad essere presenti negli altri e ispirarli ancora, può essere agire e vivere ancora. Lo vediamo: nessuno ci parla e ci accompagna così intimamente, dandoci forza per vivere, come quei morti coraggiosi.

La morte rivela e compie la vita

Si può e si deve parlare della morte, per dignità umana, non si deve farne un tabù, mettendo la testa sotto la sabbia. È legge della vita ridurre il potere della morte.

Ci occorre ammirare la bellezza della vita, scoprirla e coltivarla se non l’abbiamo a sufficienza. Se la vita non fosse da ammirare, la morte non sarebbe da temere. Guardiamoci dall’imprecare alla vita quando è difficile, dura. Guardiamoci dall’invecchiare brontoloni e ingrati. Scopriamo e liberiamo la pace della vita dietro il peso dell’offesa e l’ombra del dolore. Perché temiamo la morte? Perché amiamo la vita. Il vero timore, più del morire, è perdere il bene della vita.

Dice Buddha: «Tutti temono la morte, tutti hanno cara la vita: mettendoti al posto degli altri, non uccidere, e non fare uccidere» (Dhammapada, I versi della legge, 10, 129-130). «Non uccidere», neppure nel pensiero, neppure con la parola dura, Dice Gesù: «Avete inteso che fu detto agli antichi: non uccidere. Chi uccide è sottoposto al giudizio. Io invece vi dico: chiunque si adira col suo fratello, o gli dice stupido, o pazzo, sarà sottoposto al giudizio» (vangelo di Matteo 5,21-22). Il comando negativo non-uccidere è solo il primo gradino della scala che ci porta verso il più felice positivo comando: vivi e fa vivere. Invece, l’ “ordine delle cose” vigente offende ancora molto la vita.

Gli stati si arrogano ancora il potere di morte, col “monopolio della violenza”, con armamenti folli e suicidi, e col prevalere di relazioni di pura forza. Ha scritto papa Francesco: «Questa economia uccide» (Evangelii Gaudium, n. 53). C’è ancora uno «scialo di morte» (diceva David Maria Turroldo) nel mondo umano, che grava anche sulla natura, madre di vita.

Nanni Salio amava vivere e lavorare. Fin da piccolo inorridì a vedere in vetrina le carni macellate degli animali, e non voleva mangiare carne, racconta la sorella Carla. Impiegò tutta la sua capacità di ricerca, riflessione, organizzazione e diffusione, per la difesa e liberazione della vita dalle offese della violenza, in tutte le sue manifestazioni. Una vita come la sua non si esaurisce con la morte. Nella morte temporale ha invece un compimento, si riassume e si rivela nel suo valore. Se la morte è l’ultimo atto del donarsi, è un atto di vita comunicata a noi. Chi «attraversa la morte da vivo» (come dice il teologo Carlo Molari) col compiere la sua vita genera altra vita.

Poiché il pensiero non è solo registrare i fatti, ma aprire ed esplorare i confini – «Pensare è varcare le frontiere» (Denken ist ûberschreiten), dice Ernst Bloch, il filosofo dell’utopia concreta – noi sappiamo che Nanni ha camminato con noi e con tanti altri come un esploratore di umanità liberata e più vera, più viva. La nonviolenza, cioè lo spirito profondo di Nanni Salio, di tutta la sua vita, è questa impresa grande, verso una viva verità.


Note

1 Segnalo il libro di autori vari, curato da Matteo Soccio, Convertirsi alla nonviolenza? Credenti e non credenti si interrogano su laicità, religione, nonviolenza. Gabrielli editori, 2003

2 Ne dava ampio resoconto un saggio di Italo De Curtis, in Orientamenti sociali, nn. 6-7, 1967, di 43 pagine.

3 Cfr Francesco Piva, Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana, 1868-1943, Franco Angeli editore, 2015

4 Jean-Marie Muller fa il punto sui più recenti passi di superamento della teoria della “guerra giusta” nel ibro La violence juste n’existe pas (Les éditions du Relié, Paris 2017)

5 Gandhi, Antiche come le montagne, Ed. di Comunità 1965, pp. 95-96.

6 Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Pisa University Press 2004, p.250.

7 Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100.

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